A difesa dell’Ucraina e dell’Occidente. Il senso dei paesi dell’est per l’Europa - Fondazione PER
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A difesa dell’Ucraina e dell’Occidente. Il senso dei paesi dell’est per l’Europa

di Vittorio Ferla

 

Secondo i dati delle Nazioni Unite, circa 3 milioni di persone – il 90 per cento sono donne e bambini – sono fuggite dall’Ucraina dall’inizio dell’invasione russa a febbraio. Un esodo biblico. Quella ucraina è tra le peggiori crisi di rifugiati al mondo, specie per il fatto che questo movimento si è compiuto in due settimane appena. Superiore anche alla fuga dei migranti dalla Siria del 2015 che spostò un milione di richiedenti asilo. Secondo Filippo Grandi, il commissario dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR), è “la crisi dei rifugiati in più rapida crescita in Europa dalla seconda guerra mondiale”. Proporzioni già terrificanti ma destinate a crescere ancora se la Russia continuerà a bombardare le città ucraine e a sparare sui civili nei prossimi giorni.

Il paese che più di tutti ha aperto le proprie porte alla popolazione civile in fuga è certamente la Polonia che condivide con l’Ucraina il confine e nord-ovest. Ad oggi sono circa due milioni i rifugiati arrivati nel paese: un numero che corrisponde alla popolazione di Varsavia, capitale e città più grande della Polonia. Gli altri rifugiati arrivano in Ungheria (più di 245mila), in Slovacchia (circa 200mila), in Moldavia (278mila) e in Romania (circa 175mila). I numeri sconvolgenti di questa catastrofe umanitaria ci ricordano l’esistenza e il ruolo dell’Europa dell’Est nella costruzione della casa comune europea.

L’allarme riguarda anche la sicurezza. Anche se l’Ucraina non è parte dell’Unione europea, l’invasione costituisce già una ferita profonda nella coscienza collettiva del vecchio continente. Fino a poche settimane fa, molti italiani (ed europei occidentali) non avevano ben chiaro dove fosse e quanto fosse vasta l’Ucraina. Oggi, dopo 20 giorni dall’attacco dell’esercito russo, percepiamo quel paese come parte integrante dell’Europa. Una trasformazione sorprendente. Tutto diverso per gli altri paesi dell’est, che con l’Ucraina hanno condiviso una ultradecennale storia di sottomissione all’Unione sovietica. Oggi il risveglio dell’orso russo risuscita quella paura che non è mai scomparsa. Basti pensare che, durante il fine settimana, la Russia ha bombardato una base militare ucraina a Yavoriv, a soli 16 km (10 miglia) dal confine polacco. D’altra parte, la Polonia ha avvertito per anni l’Occidente che la Russia intendeva ristabilire l’equilibrio di potere in Europa a suo favore. Finora l’allarme dei leader polacchi è stato liquidato dal resto dell’Europa come eccessivo. Per anni la Germania, sotto la guida di Angela Merkel, ha ritenuto che lo scambio commerciale sempre più importante con la Russia avrebbe favorito il dialogo. Nel tempo, l’integrazione economica con Mosca è diventata sempre più profonda fino a trasformarsi, nel caso delle forniture di energie, in una dipendenza. Viceversa, i paesi del cosiddetto gruppo di Visegrad (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria) sono stati considerati il pilastro più debole dell’edificio comunitario. Per molti versi i paesi membri di più antica democrazia – quelli che, al tempo della Guerra Fredda facevano parte del ‘mondo libero’ – non avevano torto. Gli stati orientali hanno una storia democratica più recente. L’emancipazione dal dispotismo sovietico e l’ingresso nell’Unione europea ha favorito certamente il progresso delle società civili e delle istituzioni pubbliche locali. Ma l’evoluzione liberale di quei paesi resta lenta e piena di contraddizioni. In questi anni le fragili democrazie di Visegrad hanno incarnato la malattia populista dell’Europa. Hanno agito da free rider della democrazia prendendo dall’Europa il più possibile – specie in termini di risorse per lo sviluppo – ma facendo resistenza contro le libertà civili e i principi del costituzionalismo democratico. Forti di una impostazione sovranista ed egoista hanno eretto un muro politico contro le ipotesi di apertura delle loro frontiere e di accoglienza condivisa dei migranti provenienti da paesi terzi. L’insoddisfazione sempre più forte nei loro confronti, in anni recenti, ha suscitato ripensamenti sulla velocità dell’allargamento a est, considerato una scommessa fallita. Tutto sommato, tuttavia, i fatti di oggi ci dimostrano che l’allargamento si è rivelato una scelta saggia e profetica.

In primo luogo, perché quelle società sono in rapida trasformazione. Basti pensare, per esempio, al movimento dei sindaci delle grandi città, spesso in aperta contraddizione con i leader sovranisti che guidano i loro paesi. Gergely Karácsony, sindaco di Budapest, si oppone a Viktor Orbán, leader populista e tradizionalmente filo-russo. Matúš Vallo, sindaco di Bratislava, ha aperto una breccia nel dominio dello Smer, il partito populista che esprime il governo della Slovacchia. Rafał Trzaskowski, sindaco di Varsavia, si oppone al Pis, il partito populista che guida il governo polacco. Nella Repubblica Ceca, infine, il sindaco di Praga Zdenek Hrib è impegnato a contrastare la politica filo-russa del presidente Milos Zeman. Certo, c’è ancora tantissima strada da fare, ma la transizione verso la democrazia è in corso.

In secondo luogo, la scelta di Putin di concentrarsi sull’Ucraina dimostra che l’ombrello protettivo della Nato – prima di tutto – e dell’Unione europea è stato il miglior deterrente possibile contro le mire espansionistiche del tiranno russo. Con il senno di poi, possiamo dire che il vecchio continente non è, oggi, il teatro di una guerra più vasta e crudele proprio grazie al fatto che i paesi dell’Europa orientale sono stati integrati rapidamente nell’alleanza atlantica e nella comunità europea.

Allo stesso tempo, l’invasione dell’Ucraina riabilita gli allarmi lanciati dai paesi dell’est. Il caso della Polonia è esemplare. Finora emarginata – sia nella Nato che nell’Ue – in quanto paese russofobo post-comunista, la Polonia è, oggi, il paese in prima fila nel denunciare il piano di espansione geopolitica di Putin volto alla riconquista dei territori perduti dall’Unione sovietica. Varsavia è diventata un perno fondamentale della difesa europea nel fianco orientale dell’alleanza. Lo stato che, fino a poche settimane fa, era a rischio di espulsione dall’Unione, è quello che oggi con maggiore vigore si impegna per collegare l’Occidente con l’Ucraina, sia sul piano dell’assistenza umanitaria, sia sul piano della protezione armata. Anche la vicenda dei Mig29 – gli aerei di fabbricazione sovietica che la Polonia avrebbe voluto mettere a disposizione del governo di Kiev – sta lì a dimostrarlo. Il primo ministro polacco, Mateusz Morawiecki, ha più volte affermato che i soldati ucraini combattono non solo per la propria libertà ma anche per la libertà dei loro vicini dell’Europa orientale. La plateale visita dei capi di governo di Polonia, Cechia e Slovenia al presidente Zelensky – non concordata con i vertici di Bruxelles e con gli altri stati membri – è stato l’ultimo gesto per ricordare che i paesi dell’est rivendicano il loro ruolo nella costruzione europea e nella resistenza a Vladimir Putin.

Vittorio Ferla
vittorinoferla@gmail.com

Giornalista, direttore di Libertà Eguale e della Fondazione PER. Collaboratore de ‘Linkiesta’ e de 'Il Riformista', si è occupato di comunicazione e media relations presso l’Ufficio di Presidenza del Consiglio regionale del Lazio. Direttore responsabile di Labsus, è stato componente della Direzione nazionale di Cittadinanzattiva dal 2000 al 2016 e, precedentemente, vicepresidente nazionale della Fuci. Ha collaborato con Cristiano sociali news, L’Unità, Il Sole 24 Ore, Europa, Critica Liberale e Democratica. Ha curato il volume “Riformisti. L’Italia che cambia e la nuova sovranità dell’Europa” (Rubbettino 2018).

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