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Abbassare la curva dei contagi (e dei decessi)? Ecco come ha fatto la Corea del Sud

di Max Fisher* e Choe Sang-Hun**

(Traduzione a cura di Raffaella Rojatti)

 

L’esperienza della Corea del Sud dimostra che è possibile contenere il coronavirus senza devastare l’economia, ma gli esperti non sono sicuri che la formula sudcoreana sia applicabile anche all’estero.

Da qualsiasi prospettiva li si prenda, i numeri indicano che un paese si distingue da tutti gli altri, e questo è la Corea del Sud.

Fra fine febbraio e inizio marzo, il numero di nuove infezioni in Corea è esploso da poche decine a qualche centinaia, e da qualche centinaia a diverse migliaia.

Nel momento di picco, il 29 febbraio, gli operatori sanitari hanno identificato 909 nuovi casi al giorno, e il paese, con i suoi 50 milioni di abitanti, sembrava sul punto di essere travolto dall’epidemia. Eppure solo una settimana dopo, il numero di nuovi casi si è dimezzato, per poi dimezzarsi un’altra volta quattro giorni dopo, e di nuovo il giorno successivo.

Domenica 23 marzo, la Corea del Sud registrava solo nuovi 64 casi, il numero più basso da quasi un mese, a fronte di un numero di infezioni in tutto il mondo che continua a crescere al ritmo di diverse migliaia al giorno, devastando sistemi sanitari ed economie. L’Italia registra diverse centinaia di decessi al giorno; la Corea del Sud non ha mai superato gli otto.

La Corea è uno dei due soli paesi colpiti dall’epidemia ad essere riusciti ad appiattire la curva delle nuove infezioni. E lo ha fatto senza ricorrere alle restrizioni draconiane sulla libertà di parola e di movimento imposte in Cina, né ai lockdown devastanti per l’economia adottati in Europa o negli Stati Uniti.

Ora che le morti per il virus a livello mondiale sono salite a oltre 15.000, esperti ed autorità di ogni paese studiano la Corea in cerca di insegnamenti. E la ricetta coreana, per quanto non facile, appare relativamente chiara e sostenibile: rapidità d’azione, testing diffuso e tracciamento dei contatti, oltre alla collaborazione attiva dei cittadini.

Eppure, altri paesi colpiti dal virus non hanno seguito l’esempio coreano. Alcuni hanno cominciato a pensare di emularne i metodi, ma solo dopo che l’epidemia si è allargata al punto da rendere abbastanza improbabile che si riesca a riportarla sotto controllo in tempi brevi.

Secondo fonti del governo coreano, tanto il presidente francese Macron che il primo ministro svedese Stefan Löfven hanno avuto contatti con il presidente sudcoreano Moon Jae-in per avere dettagli sulle misure adottate.

Il Direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha indicato l’esempio della Corea del Sud quale prova che arrestare i contagi è difficile ma “possibile” ed ha esortato gli altri paesi a condividere le lezioni apprese in Corea e altrove.

Le autorità sudcoreane avvertono i risultati ottenuti sono fragili. Resta sempre un rischio di recrudescenza, soprattutto considerato che l’epidemia è ormai diffusa oltre i confini del paese.

Nondimeno, Scott Gottlieb, già commissario della Food and Drug Administration, ha più volte indicato il modello coreano, scrivendo su Twitter, “La Corea del Sud ci sta dimostrando che il Covid-19 può essere battuto con una sanità pubblica, smart e aggressiva”.

 

Lezione n. 1: intervenire rapidamente, prima che la crisi esploda

Solo una settimana dopo la diagnosi del primo caso a fine gennaio, le autorità sudcoreane si sono incontrate con i rappresentanti di diverse imprese farmaceutiche invitandole ad avviare subito i lavori per lo sviluppo e la produzione di massa di kit per i test sul coronavirus, garantendo l’adozione di procedure di urgenza per l’iter di autorizzazione.

Entro due settimane, quando i casi confermati in Corea del Sud erano ancora nell’ordine delle decine, la produzione di test procedeva al ritmo di migliaia al giorno. Il paese produce oggi 100.000 kit al giorno, e il governo afferma di avere avviato accordi per esportarli in 17 paesi.

Nel contempo a Daegu, una città di 2,5 milioni di abitanti, veniva tempestivamente imposto lo stato di emergenza per rispondere al rapido contagio partito da una congregazione religiosa locale.

“La Corea del Sud ha potuto affrontare il problema senza limitare gli spostamenti delle persone perché ha individuato il principale focolaio di infezione, la congregazione religiosa, in fase molto precoce” spiega Ki Mo-ran, un epidemiologo consulente del governo per il coronavirus. “Se l’avessimo individuata con meno anticipo, le cose sarebbero andate molto peggio”.

A differenza di europei e statunitensi, i sudcoreani erano preparati ad affrontare il coronavirus quale emergenza nazionale, forti dell’esperienza della MERS, la sindrome respiratoria mediorientale che nel 2015 aveva mietuto 38 vittime nel paese.

Si presume che il periodo di incubazione del coronavirus sia di cinque giorni, spesso seguiti da un periodo di sintomi lievi, confondibili con quelli del raffreddore, in cui il virus si trasmette molto facilmente. Tale modalità di diffusione crea un ritardo di una o due settimane prima che l’epidemia diventi apparente. In questa fase, quelli che sembrano pochi casi potrebbero in realtà essere centinaia; e le centinaia, migliaia.

“Queste caratteristiche del virus fanno sì che le risposte tradizionali, che attribuiscono un ruolo importante all’arresto delle attività e all’isolamento, risultino inefficaci” spiega Kim Gang-lip, il vice ministro della Salute. “Una volta partita l’epidemia, i vecchi metodi per bloccarla risultano inefficaci”.

 

Lezione n. 2: Testare subito, spesso e in sicurezza

Il numero di persone sottoposte a test in Corea del Sud è superiore a quello di qualsiasi altro paese, e questo ha consentito di isolare e curare molte persone subito dopo l’infezione.

Il paese ha svolto oltre 300.000 test, pari a un’incidenza pro capite oltre 40 volte quella degli Stati Uniti.

“I test sono fondamentali perché consentono di individuare l’infezione prima, riducendo ulteriori contagi e curando rapidamente le persone infettate” ha spiegato alla BBC il ministro degli esteri sudcoreano Kang Kyung-wha,  definendo i test “la chiave che spiega i nostri bassissimi tassi di mortalità”.

Anche se la Corea è talvolta descritta come un paese che ha evitato l’epidemia, il numero degli infetti è nell’ordine delle migliaia e il governo è stato inizialmente accusato di aver sottovalutato il problema. L’adozione di un uso diffuso dei test è stata concepita quale mezzo per invertire un’esplosione già in corso.

Per non inondare cliniche e ospedali, le autorità hanno aperto 600 centri specializzati studiati per sottoporre a screening il maggior numero di persone possibile, il più rapidamente possibile, assicurando la sicurezza degli operatori riducendo al minimo i contatti fisici.

In 50 stazioni “drive-through”, i pazienti sono sottoposti a test senza neanche dover uscire dall’auto, somministrando loro un questionario, la misurazione della temperatura da remoto e un tampone faringeo. Il processo richiede circa 10 minuti e i risultati dei test sono solitamente pronti in poche ore.

Ci sono poi degli ambulatori, in cui i pazienti vengono fatti entrare in stanze che assomigliano a delle cabine telefoniche trasparenti. Gli operatori sanitari somministrano I tamponi attraverso dei guanti di gomma che attraversano le pareti come in un’incubatrice.

Una campagna di incessante comunicazione pubblica esorta i coreani a sottoporsi ai test alla prima comparsa dei sintomi anche in persone vicine e conosciute. Chi arriva dall’estero deve scaricare una app nel cellulare che consente l’individuazione dei sintomi tramite autovalutazione.

Uffici, alberghi o altri grandi palazzi spesso utilizzano fotocamere per la rilevazione termica per individuare alterazioni di temperatura nelle persone. Molti ristoranti controllano la temperatura dei clienti prima di accettarli in sala.

 

Lezione n. 3: Tracciamento dei contatti, isolamento e sorveglianza

Quando qualcuno risulta positivo, gli operatori sanitari ritracciano i suoi spostamenti recenti per trovare, sottoporre a test e, se necessario, isolare chiunque abbia avuto contatti, con un processo definito “tracciamento”.

Ciò consente agli operatori medici di identificare con tempestività le reti di possibile contagio, escludendole dalla società, come un chirurgo rimuove un tumore.

La Corea ha sviluppato gli strumenti e le prassi per effettuare un tracciamento dei contatti spinto durante l’epidemia di MERS. Gli operatori sanitari risalivano agli spostamenti dei pazienti grazie alle videoregistrazioni, le tracce elettroniche lasciate dall’uso di carte di credito, e persino i dati GPS di automobili e cellulari.

“Le nostre indagini epidemiologiche erano molto simili a indagini di polizia” racconta il dott. Ki. “Successivamente, la normativa è stata modificata per dare la priorità alla sicurezza sociale rispetto alla privacy in periodi di emergenze infettive sanitarie”.

Quando l’epidemia ha assunto dimensioni tali da rendere impossibile il tracciamento dei pazienti, le autorità sono passate alla messaggistica di massa.

I cellulari sudcoreani ricevono notifiche ogni volta che viene identificato un nuovo caso nel proprio vicnato. Siti web e app offrono una visione dettagliata, all’ora o spesso al minuto, degli spostamenti delle persone infette: quali autobus hanno preso, a quali fermate solo salite o scese e persino se indossano le mascherine di protezione.

Chi ritiene di aver incrociato nei propri spostamenti dei pazienti infettati dal virus è invitato a recarsi presso i centri diagnostici.

In generale i sudcoreani hanno accettato di buon grado la perdita di privacy quale il prezzo necessario per contrastare il virus.

Chi è sottoposto a quarantena deve scaricare un’altra app che avverte le autorità se esce dall’isolamento e le sanzioni in caso di violazione possono arrivare a 2.500 dollari.

Identificando e curando l’infezione nella sua fase iniziale, e segregando i casi meno gravi in centri speciali, la Corea ha riservato gli ospedali ai casi più gravi. Il suo rapporto fra numero di decessi sul totale dei contagiati (tasso di fatalità) è appena superiore all’1 per cento, il più basso al mondo.

 

Lezione n. 4: Coinvolgimento dell’opinione pubblica

Non ci sono abbastanza operatori sanitari o termometri per tenere traccia di tutti e quindi è necessario che tutti diano una mano.

Le autorità coreane sono giunte alla conclusione che per sconfiggere il virus era necessario che i cittadini fossero pienamente informati e offrissero la loro collaborazione, spiega il viceministro della salute Kim.

Le trasmissioni televisive, gli annunci alle stazioni di treni e metropolitane, le notifiche via smartphone ricordano costantemente ai cittadini di indossare le maschere protettive, invitano al distanziamento sociale e trasmettono i dati del giorno.

La messaggistica instilla un senso di obiettivo comune come quello che c’è in tempo di guerra. I sondaggi indicano che la maggioranza dei cittadini approva gli sforzi del governo, il clima di sicurezza è elevato, i livelli di panico sono bassi e non si registrano casi di accaparramento dei beni.

“La fiducia dell’opinione pubblica ha avuto come conseguenza livelli di consapevolezza civica e collaborazione volontaria molto elevati che hanno rafforzato il nostro sforzo collettivo” ha dichiarato ai giornalisti a inizio marzo il viceministro degli Esteri.

Le autorità ritengono che questo successo vada anche ascritto al sistema sanitario pubblico, che copre gran parte delle cure, e a regole speciali relative ai costi associati al coronavirus, quali quelle miranti ad incentivare i test anche su persone asintomatiche.

 

Un modello trasferibile?

Il modello coreano è di successo, e i metodi e strumenti usati per contenere il virus non sono proibitivi né dal punto di vista dei costi né da quello della complessità.

Alcune delle tecniche usate sono semplici, come guanti e tamponi. Dei sette paesi che sperimentano una gravità dell’epidemia superiore a quella coreana, cinque sono più ricchi.

Secondo gli esperti, tuttavia, l’esempio coreano presenta tre importanti ostacoli nessuno dei quali è collegato ai costi o alla tecnologia.

Il primo è la volontà politica. Molti governi hanno esitato a imporre misure onerose in assenza di vere e proprie crisi manifeste.

Il secondo è legato alla volontà dell’opinione pubblica. La società coreana beneficia di una fiducia sociale superiore a quella che si riscontra in molti altri paesi, e soprattutto nelle democrazie occidentali congelate dalla polarizzazione e dal populismo.

Ma la più grande sfida è di ordine temporale. Secondo il dott. Ki, è possibile che sia “troppo tardi”, e che i paesi in cui l’epidemia è in fase avanzata abbiano perso l’occasione di controllare i focolai con la rapidità e l’efficacia della Corea.

 

(Pubblicato sul New York Times il 23 marzo 2020)

Max Fisher e Choe Sang-Hun
hun@per.it

* Max Fisher è un reporter internazionale e columnist del New York Times con sede a Londra ** Choe Sang-Hun è il capo della redazione di Seoul del New York Times

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