
18 Nov Autonomie, governo e bicameralismo: avanti con le riforme
di Marco Di Maio
Di riforme istituzionali in Italia si parla da molto tempo, da oltre trent’anni. Da tempo il nostro sistema istituzionale ha palesato una serie di disfunzioni che altro non hanno fatto che indebolire la nostra forma di governo, tanto sul versante del Parlamento che su quello del Governo.
La crisi del parlamentarismo
Si parla molto della “crisi del parlamentarismo”, infatti, ma talvolta si ignora che anche il Governo spesso si trova a dover combattere su più fronti: a) con un’amministrazione non nuova a perseguire agende talvolta parallele rispetto a quelle della sua politica; b) con un procedimento legislativo del tutto disfunzionale e che aumenta esponenzialmente le spinte di interessi localistici e particolari che rischiano di compromettere qualsiasi definizione di una lungimirante politica nazionale di ampio respiro; c) con delle Regioni che guardano all’unità nazionale più in termini di onori che di oneri, non di rado contrapponendo i propri interessi di prossimità a quelli di tutta la Nazione. Ne abbiamo avuto rappresentazione plastica anche durante la gestione della pandemia.
Anche sul versante parlamentare, ovviamente, non mancano criticità. Il progressivo abbandono della centralità dell’organo rappresentativo è solo uno degli effetti delle disfunzioni della attuale fisionomia del nostro sistema istituzionale: principi chiave delle democrazie contemporanee quali trasparenza, compromesso e responsabilità sono stati messi a dura prova dalle ondate populiste in termini (speriamo) irripetibili, stigmatizzando il fondamentale ruolo attribuito al Parlamento, che è quello di fare mediazione politica e promuovere gli interessi dell’intero Paese. Tuttavia sono proprio i limiti di funzionamento del parlamento e della sua relazione col Governo ad aver contribuito a creare terreno fertile per il populismo i cui effetti andranno a peggiorare il funzionamento del sistema se non saremo in grado di intervenire con adeguati correttivi nei prossimi due anni (prima del termine della legislatura). Il bicameralismo all’italiana, unico nel suo genere, è ormai diventato un monocameralismo di fatto: molti decreti legge vengono esaminati e modificati da un solo ramo del parlamento, lasciando all’altro solo il compito di ratificare il testo. Questo oltre a limitare fortemente la funzione del singolo parlamentare e concentrare ancor più potere sulla maggioranza che sostiene il Governo, incide anche sulla qualità delle decisioni e sul deficit di rappresentanza che spesso si registra.
Sono almeno tre i punti, allora, su cui appare più urgente intervenire per ridare vigore alla forma di governo parlamentare, alle istituzioni e all’Italia.
Rivedere il sistema delle autonomie
In primo luogo, è necessario rivedere il sistema delle autonomie tracciato dalla riforma del 2001. Quest’ultimo si è dimostrato difettoso e disfunzionale sul piano sociale, normativo ed economico. I divari territoriali sono aumentati e le diverse discipline legislative dettate dalle varie Regioni hanno condotto – quando non l’hanno del tutto bloccata – a un’illogica distribuzione e progettazione degli investimenti, a discapito del sistema economico nazionale. Per rendersene conto è sufficiente osservare che la grande maggioranza del contenzioso su cui la Corte costituzionale è chiamata ad esprimersi riguarda ormai i rapporti fra Stato e Regioni. Ma anche nella gestione della pandemia, si è avuto modo di vedere come la spinta a “fare da sé” di molte Regioni tenda a prevalere su una visione d’insieme dei bisogni del Paese, anche in ragione del fatto che pochi sono gli strumenti che il Governo ha per imporre una politica nazionale e omogenea sul territorio. Persino in caso di emergenza. In questa prospettiva l’introduzione di una clausola di supremazia in Costituzione (sulla scorta dell’esempio statunitense e tedesco) si dimostra indispensabile per dotare lo Stato di un utile correttivo – da attivare in presenza di specifici presupposti – alla ripartizione delle competenze fra Stato e Regioni. Un simile strumento, posto a presidio dell’unità giuridica ed economica della Repubblica nel suo complesso, consentirebbe fra l’altro di aumentare l’efficacia delle risposte alle situazioni di emergenza, ma anche di rendere chiara ed evidente al cittadino anche la catena delle responsabilità. Lo “scarica barile” a cui spesso si è assistito anche durante questa pandemia è risultato stucchevole non solo sotto il profilo dei rapporti istituzionali, ma anche agli occhi di molti cittadini che alle preoccupazioni notevoli cui devono far fronte trovano davanti a loro il poco decoroso spettacolo di un conflitto tra istituzioni che fa male a tutti e disorienta.
Garantire la stabilità del governo
Accanto al sistema delle autonomie si staglia, poi, il tema della stabilità del Governo. E’ chiaro a tutti come un Governo debole, chiamato, cioè, a rispondere costantemente a interessi particolari e contingenti, non sia posto in condizioni ottimali rispetto all’elaborazione di politiche di medio-lungo periodo. La necessità di rincorrere gli ultimi sondaggi e le ultime tornate elettorali (locali, regionali, europee o nazionali che siano) finisce inesorabilmente per trascinare il Governo a rispondere esclusivamente sull’oggi e a smarrire ogni prospettiva sul domani. Ma le sfide globali e geopolitiche che si parano davanti al Paese richiedono tutt’altro e, cioè, proprio la definizione di una politica che tracci un percorso meditato e che dia prospettiva tanto ai singoli cittadini che all’Italia intera. L’alternativa non è solo quella di perdere terreno sul piano internazionale da un punto di vista meramente economico, ma anche quella di perdere peso politico su quello che è e sarà lo scacchiere internazionale dei prossimi decenni.
In tale prospettiva si conferma la necessità di assicurare la stabilità del Governo o per lo meno delle maggioranze parlamentari, attraverso correttivi di natura costituzionale e legislativa.
Se infatti l’introduzione della sfiducia costruttiva deve essere vista positivamente, in quanto utile ad assicurare una qualche continuità al Governo, essa da sola non appare sufficiente a rispondere alle esigenze di stabilità dell’Esecutivo. E’ noto, infatti, come la totalità delle crisi di governo, in Italia, siano state costantemente di origine extraparlamentare, e ciò attenua non poco la portata dell’istituto. Non si può prescindere, dunque, dall’approvazione di una legge elettorale a vocazione maggioritaria, che è la sola in grado di garantire al Governo una solida prospettiva di medio-lungo periodo che possa tradursi in altrettanta prospettiva per il Paese. Certamente dovranno accompagnarsi ad essa strumenti di garanzia per le opposizioni, ma ciò non toglie che l’impianto maggioritario è quello che meglio risponde alle esigenze dell’oggi e del domani.
La realtà della XVIII Legislatura, tuttavia, è assai distante da un simile percorso. La riduzione del numero dei parlamentari ha dimostrato come l’idea che si fa strada, oggi, in parte dell’elettorato è principalmente quella di un Parlamento da rinnegare, da “ridurre”, ma che non guarda in alcun modo a una seria razionalizzazione della forma di governo. Tuttavia gli animi nel Paese sono molto diversi e le varie posizioni sul tema assai distanti. Poichè la politica è l’arte del possibile, dunque, credo si debba perseguire una strada che abbiamo una verosimile possibilità di giungere a compimento. Come primo passo occorre completare le piccole (ma non seondarie) riforme costituzionali necessarie per far fronte ai primi effetti della riduzione del numero dei parlamentari: parificazione dell’elettorato attivo a 18 anni per Camera e Senato (a cui noi chiediamo di aggiungere anche quella dell’elettorato passivo a 25), il superamento della base regionale per la composizione del Senato, la revisione del collegio dei grandi elettori per l’elezione del Presidente della Repubblica.
Una seria revisione del bicameralismo
A nostro avviso, poi, sarebbe giusto e opportuno tentare una seria revisione del bicameralismo, nella convinzione che un parlamento che rimane esattamente così com’è e modifica solo il numero dei propri rappresentanti, non potrò fare altro che lavorare peggio ed acuire i problemi che già conosciamo. La via maestra, per noi, è addivenire ad un sistema con un’unica camera eletta direttamente dai cittadini, che includa tutti i 600 parlamentari previsti dalla Costituzione; trasformare l’attuale Senato in un organo di rappresentanza e discussione reale delle autonomie locali e regionali, con una maggior trasparenza e qualità del dibattito rispetto a quella che abbiamo oggi. Nessun cittadino, ad esempio, sa cosa ha detto il proprio presidente di Regione nella riunione della Conferenza Stato-Regioni o in altri organismi esterni al parlamento in cui si sono dibattuti temi importanti, non essendovi alcuna trasparenza sullo svolgimento delle riunioni di questi organismi. Che pure sono luoghi fondamentali in cui si prendono spesso decisioni importanti.
Un ramo del parlamento dedicato a questi temi, a questi enti e al rapporto tra Istituzioni nazionali e enti territoriali, aiuterebbe a ricondurre dentro un alveo istituzionali chiaro e verificabile una serie di decisioni e di rapporti che sono sempre più preponderanti nella vita politica italiana.
Pensiamo che questa soluzione, benché complessa, sia quella da percorrere con più decisione; molto più che proposte assolutamente dignitose, ma che renderebbero il sistema ancor più complicato come l’istituzione di una terza camera di fatto con il parlamento in seduta comune chiamato ad esprimersi su alcuni provvedimenti. Superare il bicameralismo paritario introducendo un tricameralismo di fatto appare tutt’altro che ragionevole e coerente rispetto alle esigenze sopra ribadite.
Se dunque vi è la necessità di guardare al superamento del bicameralismo paritario con maggiore ambizione, la strada che appare più intelligente da seguire per l’interesse del Paese e non di questa o quella parte politica, è la trasformazione del Senato in una camera delle regioni (componenti di diritto dovrebbero essere tuti i presidenti di Regione e i sindaci delle città metropolitane), una Camera dei deputati di 600 membri che rappresenta la nazione ed è titolare del rapporto di fiducia col governo (razionalizzato anche con l’introduzione della sfiducia costruttiva), da accompagnare con un forte rafforzamento sia delle prerogative che degli strumenti di indirizzo e controllo del Parlamento, così da controbilanciare la stabilità del Governo e valorizzare il rapporto di responsabilità fra quest’ultimo e l’organo rappresentativo e, a sua volta, fra questi e l’elettorato.
Una legge elettorale coerente
Solo a valle di questi ragionamenti andrebbe affrontato il tema della legge elettorale, che a rigor di logica dovrebbe attagliarsi al nuovo vestito istituzionale derivante dalle riforme di cui sopra e non essere – come spesso è avvenuto in Italia – il metodo surrettizio per agire sulla forma di governo. Con le trasformazioni di cui sopra, è accettabile anche una legge elettorale nazionale di stampo proporzionale, con uno sbarramento al 5 per cento e senza il “diritto di tribuna” (attualmente previsto dal testo in discussione alla Camera in commissione Affari costituzionali) che vanificherebbe l’effetto della soglia al 5 permettendo a partiti piccoli e con percentuali risibili a livello nazionale, di entrare comunque in parlamento.
La nostra disponibilità a rivedere radicati convincimenti come quello di una consolidata impostazione maggioritaria è reale se si apre un cantiere di riforme che non abbia la modesta ambizione di rispondere all’esigenza del singolo partito; usiamo gli oltre 2 anni che ci separano dal termine di questa legislatura per consegnare al futuro una visione d’insieme e istituzioni al passo con le sfide che i tempi ci impongono.
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