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Biden e la strada (accidentata) della diplomazia con l’Iran

di Alessandro Maran 

 

Le speranze del nuovo presidente americano Joe Biden di resuscitare laccordo nucleare iraniano potrebbero essere già andate in fumo.

Lassassinio della scorsa settimana dello scienziato nucleare Mohsen Fakhrizadeh (in un’operazione segreta che, a quel che si dice, si è servita di una mitragliatrice montata su un furgone e controllata da remoto), ha assestato un nuovo colpo allorgoglio iraniano dopo luccisione, in gennaio, del generale Qasem Soleimani in uno strike aereo. Va da sé che i due incidenti potrebbero mandare all’aria ogni prospettiva di un rilancio della diplomazia. Non per caso, Mark Fitzpatrick, ex executive director dell’International Institute for Strategic Studies, ha subito twittato: «La ragione per assassinare Fakhrizadeh non era ostacolare il potenziale bellico dell’Iran, era ostacolare la diplomazia».

I leader clericali iraniani ora sono, infatti, alle prese con un dilemma. Devono reagire in modo aggressivo (contro il paese accusato di aver perpetrato lattentato, e cioè Israele)  e rischiare una escalation dannosa con gli Stati Uniti? O devono invece assorbire il colpo, politicamente molto imbarazzante, e sperare che il dialogo con Biden possa allentare le sanzioni imposte dallamministrazione Trump che hanno strangolato l’economia iraniana?

Oltretutto, molto probabilmente il presidente Donald Trump reagirebbe ad una eventuale azione militare iraniana; e altrettanto probabilmente un conflitto finirebbe per regalare a Biden una crisi immediata (e una bella gatta da pelare) e per uccidere nella culla anche qualsiasi negoziato tra Washington e Teheran. Questa è una delle ragioni per cui il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che si è sempre opposto allaccordo nucleare, potrebbe avere ordinato lattentato a Fakhrizadeh.


I falchi americani rivendicano che la politica della «massima pressione» che Trump ha applicato nei confronti dell
Iran dopo il ritiro americano, nel 2018, dallaccordo nucleare concluso dall’amministrazione Obama (che perfino lintelligence americana aveva detto che Tehran stava rispettando), offre ora a Biden un nuovo vantaggio nella trattativa con lIran. Ma da allora, secondo un rapporto delle Nazioni Unite del 12 novembre scorso, Tehran ha accumulato 12 volte la quantità di uranio arricchito permesso dallaccordo del 2015, ed è molto vicina al punto in cui potrebbe dotarsi davvero di una bomba nucleare. Inoltre, le sanzioni americane, nonostante abbiano inflitto terribili sofferenze economiche, non hanno incoraggiato in alcun modo il cambiamento di regime auspicato dai fautori della linea dura.

Resta il fatto che, anche se Biden volesse ritornare allaccordo nucleare del 2015 («il modo più intelligente», come ha sottolineato, di affrontare «la minaccia rappresentata dallIran»), è l’idea stessa di ritornare alla diplomazia (che resta indubbiamente la cosa migliore da fare) che ha subito un colpo dopo l’altro: prima con lo strike ordinato da Trump che ha ucciso Soleimani ed ora con lassassinio dello scienziato nucleare. Inoltre, non sarà facile neppure per gli iraniani moderati e pragmatici persuadere qualcuno dei vantaggi di nuovo accordo con gli Stati Uniti, considerato che, quasi certamente, un futuro presidente repubblicano si affretterebbe a gettarlo alle ortiche. Senza contare che, nel frattempo, dalle elezioni iraniane dell’anno prossimo potrebbero uscire un nuovo presidente integralista che si oppone al dialogo con gli Stati Uniti; e che, anche negli Stati Uniti (e in Israele), gli avversari dellaccordo potrebbero rendere a Biden la vita impossibile, impedendogli di collaborare con l’Iran.

Se la strada della diplomazia dovesse rivelarsi impraticabile, il futuro presidente americano si troverebbe di fronte ad una scelta terribile: vivere con la possibilità di una bomba atomica iraniana o ordinare un’azione militare che potrebbe dare avvio ad una nuova disastrosa guerra in Medioriente.

Alessandro Maran
maran@perfondazione.eu

Già senatore del Partito democratico, membro della Commissione Esteri e della Commissione Politiche Ue, fa parte della presidenza di Libertàeguale. Parlamentare dal 2001 al 2018, è stato segretario regionale dei Ds del Friuli Venezia Giulia.

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