
18 Dic Bipolarismo e democrazia dell’alternanza: Se non ora quando?
di Salvatore Veca
Su gentile concessione del senatore Enrico Morando pubblichiamo un inedito di Salvatore: la sua relazione al Convegno del CISDEL (Centro di Iniziativa del Socialismo Democratico e Liberale) ascoltabile su Radio Radicale, tenutosi a Milano nell’ottobre del 1993 dal titolo “Se non ora, quando”, che abbiamo deciso di riutilizzare in questa occasione. La relazione può essere ascoltata su Radio Radicale che registrò l’intera iniziativa.
In queste osservazioni introduttive ai lavori del nostro convegno, vorrei suggerire tre abbozzi di riflessione o tre schemi di argomento.
Essi prendono spunto dalle tre domande del saggio Rabbi Hillel.
La prima è: se io non sono per me, chi è per me?
La seconda suona: e se io non sono per gli altri, chi sono io?
La terza è quella che dà il titolo al convegno: e se non ora, quando?
Procederò a ritroso, con la strategia del gambero, partendo da quest’ultima: essa definisce almeno due caratteristiche salienti di una fase, di una situazione, di un passaggio, quello in cui ci troviamo. Viviamo nell’epoca dell’implosione del sistema politico italiano, del collasso della sua struttura collusiva, consociativa e largamente, troppo largamente, corrotta, del ridisegno ineludibile delle geometrie istituzionali della Repubblica e di una gravissima e non indipendente crisi economica con il suo corteo di costi in termini di sofferenza sociale, esclusione, umiliazione, degradazione e privazione di diritti, opportunità e benessere per uomini e donne, cittadini ordinariamente convertiti in sudditi.
Le due caratteristiche salienti sono quelle proprie di ogni crisi: il rischio e l’opportunità. Se non ora, quando? Suggerisce che non vi è un esito predeterminato, una specie di direzione di marcia fissata da misteriose e inesorabili leggi della storia. L’esito non è indipendente dalle nostre scelte, dalla nostra assunzione di responsabilità, dalla nostra capacità di offrire risposte plausibili, credibili e chiare ai dilemmi molto ardui di fronte a cui è la comunità nazionale, sullo sfondo di una scena interna che ne vede la massima disunità e di una scena internazionale così drasticamente mutata dai processi innescati dall’89. Se non ora, quando? si può allora riformulare semplicemente così: la crisi (irreversibile?) della struttura collusiva e consociativa del sistema politico italiano (palese e coperta, per dirla con Alessandro Pizzorno) e della correlata holding politica-affari consente, richiede, esige che il progetto inadempiuto e, come noto, bloccato per cinquant’anni di una democrazia fondata sull’alternanza sia l’esito, il valore, la posta in gioco cruciale.
A sua volta una democrazia dell’alternanza richiede la bipolarizzazione del sistema politico; il che non vuol dire necessariamente la bipartitizzazione. Questo non è naturalmente qualcosa che si ottiene con un fiat grazie a nuove regole elettorali, a un diverso modo per convertire in seggi (oltretutto la legge elettorale non sembra proprio essere un risultato particolarmente brillante per questo scopo). L’esito dell’alternanza, l’obiettivo di una democrazia normale e decente presuppongono un processo: chiedono tempo, prevedono una sequenza che tenda almeno alla semplificazione dell’offerta di politiche pubbliche alternative da parte di un numero decrescente di partiti o forme di associazione politica.
In ogni caso, il processo di semplificazione dell’offerta per la scelta democratica di cittadine e cittadini è un processo che incentiva coalizioni. Un processo che si genera o può generarsi grazie alla convergenza su agenda, su programmi di soluzione di problemi, su politiche i cui effetti toccano i diritti e il benessere dei cittadini e delle cittadine; alla fine, la qualità della loro vita, individuale e collettiva e quella dei loro figli e nipoti. (Nella Polis non solo vivere ma vivere bene (Aristotele).
(Non dovremmo dimenticare che il discredito nei confronti della politica, la cosiddetta politica dell’antipolitica che serpeggia a vari gradi in tutte le democrazie pluralistiche, dipende in gran parte dalla percezione -giustificata-del fatto che la politica diviene il fine o un fine, autoriferito al sistema politico e non un mezzo o un insieme di mezzi per la tutela dei diritti, l’ascrizione dei simmetrici doveri, la distribuzione di costi e benefici per gli unici fini intrinseci che -in una democrazia- sono i cittadini e le cittadine che hanno una vita da vivervi).
In due parole, il processo che favorisce come esito la democrazia dell’alternanza è un processo che, alla fin fine, è fatto di convergenze sulle cose da fare che toccano le questioni di vita individuale e collettiva: il lavoro, il fisco, la salute, la pensione, l’educazione, la sicurezza, la casa, l’ambiente naturale e artificiale, la possibilità di perseguire responsabilmente il proprio progetto di vita rispettando l’eguale diritto degli altri, il poter padroneggiare le circostanze e non esserne suddito, quando non schiavo.
Vorrei sottolineare che il confronto programmatico che 1) è essenziale per verificare e costruire “concrete possibilità di convergenza e azione comune“ e 2) è coerente con il difficile e ineludibile processo che mira all’esito della democrazia dell’alternanza dovrebbe prendere maledettamente sul serio il punto di vista, la prospettiva dei bisogni, dei valori, delle aspettative, delle questioni di vita dei cittadini.
A parte populi, in prima battuta; a parte principis, in democrazia, viene dopo. Questo non vuol dire che le cose da fare, la agenda, i programmi coincidano con la fotografia degli interessi e dei bisogni: come dire, con la politica sportello. I programmi, i provvedimenti richiedono la virtù politica della scelta, della selezione, della definizione di priorità, della responsabilità; aggiungerei, della lungimiranza, della capacità di estendere l’ombra del futuro sul presente in modo tuttavia rispondente alle questioni di vita di uomini e donne e per esse riconoscibile. Il progetto di Alleanza Democratica, indipendente dalla inevitabile varietà e complessità dei percorsi, ha avuto il suo centro nell’idea di questo processo di convergenza sulle cose da fare, un processo che coinvolgesse e coinvolga differenti soggetti e culture e tradizioni di giudizio e credenza politica e morale; nella direzione di uno schieramento genuinamente pluralistico e altrettanto genuinamente progressista. Se non ora, quando? Il riferimento alle cose da fare, al confronto tra programmi o provvedimenti intesi come soluzione di problemi non è affatto indipendente da quelle strane cose che usiamo chiamare “valori”, come alcuni sostengono. La prospettiva e i criteri, i principi che presiedono e orientano le politiche dipendono da ciò che per noi è importante, vale, è più importante e prevale, in caso di conflitto tra valori alternativi.
Così, confrontare programmi è anche -e insieme- mettere alla prova ideali, principi e valori che fanno parte della propria cultura, dei propri vocabolari ereditati di moralità e politica. Il ricorso a questi vocabolari, e non a altri, è quanto ci identifica, ci consente di riconoscerci nelle prossimità o nelle distanze, rispetto ad altri. Questo è il presupposto inevitabile di un confronto e di una verifica di convergenza sull’agenda, sui programmi, sulle cose da fare. L’esito può naturalmente dar luogo a una visione più ricca e complessa, proprio perché si avvale della varietà di identità e valori e culture e sensibilità nell’identificazione dei dilemmi e nella proposta delle linee di soluzione. Ora, io sono convinto che una delle grandi tradizioni e delle culture che possono e devono oggi mettersi in gioco in questo confronto sulle cose da fare sia quella che possiamo identificare con il socialismo democratico e liberale. Sono convinto che i valori e i principi che hanno modellato in questo secolo, ormai declinante, politiche e istituzioni miranti a scopi di giustizia distributiva, all’ascrizione di eguali diritti di cittadinanza sociale, alla generazione di equa eguaglianza di opportunità per uomini e donne, alla solidarietà e alla responsabilità collettiva, al miglior trade-off -inevitabilmente instabile- tra efficacia e equità, al circolo virtuoso fra competizione e cooperazione; sono convinto che questi valori e questi principi mantengano intatta la loro funzione di una bussola preziosa per orientare politiche e provvedimenti per la soluzione dei nuovi problemi, dei nuovi dilemmi, per fronteggiare le nuove sfide.
Il principio fondamentale ce lo suggerisce la seconda domanda del saggio: e se io non sono per altri, chi sono io? È il principio del vincolo sociale, della responsabilità collettiva, della solidarietà ben intesa. Ora, tutti noi sappiamo quali siano oggi i limiti, gli effetti perversi, i deficit della migliore esemplificazione realizzata dell’arrangiamento tra libertà (al primo posto) ed eguaglianza o equità; lo Stato sociale o del benessere.(Quelli del nostro Stato assistenziale sono sintomatici di una patologia certo più grave e inevitabilmente connessa al sistema politico d’ancien regime). Tuttavia, si verifica spesso un singolare equivoco: la critica -sacrosanta- ai deficit e ai crampi, alle conseguenze non attese dello stato sociale è una critica che riguarda i metodi, le politiche, le istituzioni, i modi in cui ci si è approssimati all’ideale dell’equità e dell’uguale cittadinanza sociale. Essa non riguarda necessariamente i valori e i principi che hanno consentito uno dei più alti esiti di civiltà, in questo angolo ricco di mondo. Io credo che verremmo meno al dovere di coerenza e integrità se non accettassimo la critica e la revisione, il ridisegno dei metodi e delle politiche, dei modi, delle vie a una società più giusta o meno ingiusta. Ma, allo stesso modo, verremmo meno alla lealtà e agli impegni che ci identificano se revocassimo i nostri fini e i nostri valori. I metodi sono negoziabili in un modo in cui non lo sono i valori. Lo dice il rabbino; è la sua prima domanda: “se io non sono per me, chi è per me?“ Il confronto con la cultura cristiano-sociale è un confronto genuino se ci misuriamo sulle cose da fare, mettendo in gioco la nostra identità. Il confronto con la cultura ambientalista ha senso se manteniamo ferma l’idea di uno sviluppo (non certo quello dei fan della “crescitomania”) che è e resta una precondizione per la solidarietà vera.
Infine, il confronto con la cultura liberal-democratica ha senso se, entro il quadro condiviso dell’obiettivo di istituzioni di uno stato di diritto da fare, di regole per la competizione democratica da migliorare e di condizioni per un mercato vero e non simulato da generare e tutelare, noi poniamo in agenda la nuova “questione sociale“. Io non sono fra coloro che amano la retorica del “nuovo“. Il punto non è chiamarsi o classificarsi nuovi. Il punto, a me sembra, consiste piuttosto nel mettersi responsabilmente in gioco con la propria tradizione, i propri valori, la propria identità, la lealtà ai principi e la disponibilità anche alla più drastica innovazione e revisione sperimentale dei metodi e delle vie per pervenire alla meta definita dai criteri della giustizia sociale, per una società modellata -per quanto è possibile- dall’ideale condiviso di reciprocità e mutualità, la fraternità democratica. È un obiettivo arduo, impervio. Ma ne vale assolutamente la pena, nell’epoca della massima disunità d’Italia, che ha trovato non senza ragioni cogenti il suo azionista di riferimento e il suo imprenditore politico nella Lega, fra le macerie di un sistema che ancora -inevitabilmente- resiste e tende a riorganizzarsi con operazioni cosmetiche. Ne vale la pena, infine, perché ciò potrebbe dare una risposta responsabile, coerente e motivante alla domanda: che cosa vuol dire essere italiani? Ritrovare l’orgoglio di essere cittadini e cittadine di una comunità nazionale che si vincoli in un nuovo patto, si riconosca in istituzioni rinnovate in una forma di vita condivisa che sia riconosciuta degna di essere condivisa.
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