
05 Nov Bonaparte e Lenin: ovvero il carisma come “grande potenza rivoluzionaria”
di Nicolò Addario
“L’ideale propagandato dal Partito era … qualcosa di grandioso, terribile e scintillante; un mondo di acciaio e cemento, di macchine mostruose e armi spaventose, una nazione di guerrieri e invasati, che marciavano sempre in perfetta simbiosi, dove tutti avevano gli stessi pensieri e gridavano gli stessi slogan, sempre a lavorare, a combattere, a trionfare, a opprimere … La realtà era invece fatta di città decadenti e sudicie, dove la gente denutrita con le scarpe rotte si trascinava avanti e indietro, viveva in case ottocentesche che cadevano a pezzi e puzzavano di cavolo bollito e di cessi guasti.”
(G. Orwell, 1984)
Solitamente, quando si parla d’innovazione si pensa all’economia e, qualche volta, alla scienza, ma raramente alla politica. Eppure, riandando al Max Weber di Economia e Società (Ed. Comunità, 1968), si deve ammettere che vi sono dei momenti della storia in cui si evidenziano delle trasformazioni che si impongono in quanto forme di “ordinamenti sociali” profondamente differenti da quelle che le hanno precedute e da altre che coesistono in altre parti del mondo (il “contemporaneo del non contemporaneo” di cui parla Reinhart Koselleck a proposito della “scoperta” della Storia a partire dalla metà del settecento). In Weber troviamo la proposta di considerare, quali forze capaci di produrre simili trasformazioni innovative, due tipi di processi molto diversi: uno agisce “dall’esterno” e viene identificato nella “razionalizzazione” tramite le etiche religiose delle religioni universali, tema affrontato estesamente nella Sociologia della religione; l’altro invece agisce “dall’interno” ed è il carisma. Qui ci riferiremo solo a quest’ultimo, perché siamo interessati all’innovazione nelle forme storiche di potere, che, come vedremo, è stata molto legata al fenomeno del carisma, sia personale sia istituzionale.
Prima di chiarire che cosa intendesse Weber per carisma e perché agirebbe “dall’interno”, occorre precisare due punti. Il primo è che parleremo di politica solo con riferimento all’Occidente per il semplice fatto che, come sottolinea Weber (che scrive nei primi anni del Novecento e morì nel 1920), “il moderno principio di rappresentanza razionale mediante rappresentanti di interessi sono propri dell’Occidente e possono venire spiegati soltanto mediante lo sviluppo dei ceti e delle classi che già nel Medioevo ne costituiscono qui – e qui soltanto – i prodromi. «Città» e «ceti» (rex et regnum), «borghesi» e «proletari» sono esistiti soltanto qui”. Aggiungo che peraltro è sempre e solo in Occidente che si sviluppò quell’etica di “ascesi intra-mondana” (puritana) che, rifiutando l’ordinamento sociale presente (quello dell’“Anticristo”, il papa), legittimò la nascita del moderno mondo occidentale. Da qui il riferimento a Occidentalia: il luogo del mondo dove è sorta e si è affermata la modernità liberale (solo in questo caso si può parlare di “politica” nel senso attuale).
Il secondo punto, anch’esso sottolineato da Weber, è che il carisma può riguardare “oggetti” di qualsiasi tipo, dalla trance sciamanica all’ascesi del guerriero, dalla virtù del saggio o del profeta a quella dell’artista o dello scienziato. In questo senso esso è una forza rivoluzionaria generale, particolarmente importante soprattutto nel passato. Tutte religioni fanno infatti riferimento a uno sciamano fondatore e illuminato, a un profeta, a un “messia”, mitico o storico che sia. Tuttavia, esso ha una non trascurabile importanza anche oggi nelle nostre società tramite i mass-media. Perché questa importanza si traduca in un’effettiva innovazione (ossia in qualcosa che non si era mai vista prima e che incide profondamente sul presente e quindi sul futuro) è però necessario che il carisma personale dia vita ad un corrispondente “carisma d’ufficio”, ossia venga istituzionalizzato dando vita a un’organizzazione che ha caratteri carismatici proprio in quanto apparato burocratico. Solo in questo caso si realizza una effettiva innovazione.
Qui ci occuperemo soltanto di quel carisma che innova nelle forme del potere. Un caso storico particolarmente importante è rappresentato dalla Chiesa di Roma che, pur avendo mezzi intellettuali “ristretti” rispetto a quelli dell’Oriente ellenistico, riuscì, ricorrendo all’eredità del diritto e dell’organizzazione sul territorio della Roma imperiale, a burocratizzarsi (i Vescovati, le parrocchie, le pievi nelle campagne) e a dotarsi (dopo l’anno mille, riscoprendo tramite gli arabi la filosofia antica, soprattutto Aristotele) di una raffinata teologia. Secondo Weber, questo trasferimento del carisma da Gesù Cristo alla Chiesa, in quanto Mediatrice in terra della volontà di dio, ebbe un passaggio decisivo con l’istituzionalizzazione della distinzione tra “ufficio (ex cathedra)” e chierico in quanto “uomo privato”. In questo modo, infatti, come uomo privato il sacerdote poteva sempre essere riprovato per eventuali e riconosciute malefatte, senza che ciò mettesse in discussione la sua “qualificazione carismatica” dovuta alla Chiesa. È l’istituzionalizzazione della dottrina cattolica del “Character indelebilis” del sacerdote, “con la netta distinzione tra carisma d’ufficio e merito personale”, che peraltro era forse l’unico mezzo per “innescare un meccanismo ierocratico in un mondo che vedeva dappertutto delle capacità magiche” (si veda, ad esempio: K. Thomas, La religione e il declino della magia. Le credenze popolari nell’Inghilterra del Cinquecento e del Seicento, Mondadori, 1985).
Vedremo che il passaggio dal carisma personale a quello burocratico può avvenire soltanto quando i seguaci della figura carismatica possono servirsi di aspetti dell’ordinamento sociale contestato che presentano quelle capacità di ulteriori sviluppi che gli evoluzionisti hanno chiamato “exaptation”. Si tratta di un termine appositamente inventato da Stephen Jay Gould ed Elisabeth Vrba e che è preferibile non tradurre. Esso si riferisce a due possibili casi: a) un carattere, emerso tramite la selezione naturale per svolgere una data funzione, viene successivamente cooptato e ulteriormente sviluppato da una specie variante per una nuova funzione (si pensi alle piume che, sorte in alcune specie di dinosauri a fini di regolazione della temperatura corporea, sono infine state trasformate nelle ali per il volo degli uccelli); b) un carattere la cui origine non può essere attribuita alla selezione naturale (e che, dunque, non svolgeva alcuna funzione), viene successivamente cooptato in un mutante per svolgere una funzione del tutto nuova che risulterà importante o persino decisiva nella sua affermazione come nuova specie o persino taxa (si pensi alla grande separazione tra vertebrati e invertebrati avvenuta parecchi milioni di anni fa).
Questo fenomeno, oggi ritenuto molto importante nell’evoluzione naturale, è peraltro riscontrabile anche nell’evoluzione sociale. Nel caso di quest’ultima, l’analogia consiste nella “logica” che presiede al processo che conduce all’istituzionalizzazione del carisma mediante nuove funzioni sviluppate da elementi del vecchio ordinamento e cooptati nel nuovo. Il carisma così istituzionalizzato è un analogo della variazione-mutazione che si è affermata per il tramite di una exaptation naturale. Per tornare all’esempio della Chiesa di Roma, non v’è dubbio che il passato romano ebbe un ruolo decisivo per la nascita e l’affermazione del diritto canonico, per l’organizzazione territoriale ecclesiale e per l’affermazione della figura del Papa-Re (seppur tramite procedura elettiva e dopo aver sconfitto la linea dei Conciliaristi). Ciò emerge chiaramente dal raffronto con la Chiesa Ortodossa, da un lato sempre sottomessa all’Imperatore (finché Bisanzio non fu conquistata dai Turchi), dall’altro lato differenziatasi in molteplici e indipendenti chiese nell’Europa orientale (peraltro il grande scisma con Roma avvenne ufficialmente solo nel 1050). Queste osservazioni risultano particolarmente importanti se si considera che la Chiesa di Roma divenne l’elemento centrale della società feudale, caratterizzata da un caos di poteri e di norme locali (persino quando si andarono affermando le monarchie assolutiste). In tale contesto essa costituiva un’istituzione per molti versi opposta, altamente centralizzata e con pretese di extraterritorialità (come un Impero: si pensi a vescovi e cardinali) e che fu all’origine delle lotte per l’investitura vescovile. Insomma, ciò che fece sì che una piccola setta ebrea diventasse il centro dell’Europa medioevale fu la sua trasformazione in una chiesa di stato (iniziando con Costantino) di tipo imperiale. La Chiesa romana era per molti aspetti un mutante rispetto alla struttura sociale medievale e feudale, un mutante che si servì di elementi del passato dando loro quelle nuove funzioni (di centralizzazione e proselitismo sistematico che erano l’opposto del caos feudale) che le assicurarono il successo proprio in quanto forma sociale particolare (ierocratica) con una organizzazione extraterritoriale (rispetto ai molteplici principati e regni dell’Europa occidentale). Qualcosa di analogo avviene i molti altri casi, pur molto diversi tra loro (ne parleremo tra poco).
Ma perché il carisma sarebbe una forza che agisce “dall’interno”? Perché, seguendo Weber, esso genera “la convinzione emozionale dell’importanza del valore” di ciò che il suo “creatore” sostiene. Non conta ciò che questo “creatore” pensi di ciò che dice e fa, conta il “modo in cui [tali idee] vengono «accolte» interiormente da coloro che sono dominati o guidati, dal modo in cui vengono da questi «immediatamente vissute»”. In virtù di questo radicamento emotivo, tali idee diventano anche una forza cognitiva, le lenti attraverso le quali i seguaci vedono e giudicano il mondo. In tal modo il portatore del carisma ha un potere che è diverso sia da quello del patriarca sia da quello della tradizione, perché esso assume la forza “di una missione, che è incorporata nella sua persona”, una missione che è rivolta a sovvertire costumi, leggi e tradizioni consolidate.
Diversamente dalla persona del patriarca, il capo carismatico non è infatti sostituibile, perché è proprio Lui che fa miracoli, l’eroe guerriero inimitabile, il “messia”. L’unica cosa che può sostituirlo è la trasformazione del suo alone di santità nel “carisma d’ufficio”, fenomeno storicamente molto più raro. La differenza, dunque, tra il potere carismatico e tutte le altre forme di potere (della tradizione, del patriarcato, del patrimonialismo e dello stesso potere burocratico “normale”) è che in esso è preminente la fede nella persona particolare e “straordinaria” del portatore del carisma e la fiducia incondizionata suscitata nei suoi seguaci.
I due casi storici che prenderemo in considerazione sono quello di Napoleone e quello di Lenin. Il primo è un esempio di carisma personale che non riesce a trasformarsi in carisma d’ufficio. Il secondo è invece un tipico caso in cui il carisma personale si traduce nel carisma della storicamente connessa burocrazia, offrendo un modello che tutti i parti comunisti cercheranno di imitare. Sono due casi di “potenza rivoluzionaria” con esiti assai diversi.
Tramite il prestigio di Marx e le caratteristiche culturali e sociali nettamente prevalenti nella Russia di quei tempi (senza dubbio uno dei paesi più arretrati e dispotici d’Europa, come ha dimostrato il Gerschenkron), il leninismo si tradusse in una vera teologia politica (rigidamente monoteista) incarnata dal partito-stato.
Il caso di Napoleone è importante per due motivi principali. Il primo è che per molti aspetti rovesciò l’esito repubblicano e (quasi) liberale della rivoluzione del 1789, sostituendo, come disse Marx, “la guerra permanente alla rivoluzione permanente”. A ben pensarci questo è per certi aspetti paradossale, soprattutto nel momento in cui Napoleone trasforma la repubblica in nuova monarchia. In pochissimo tempo. È peraltro vero che inizialmente la rivoluzione non era in maggioranza antimonarchica. Come hanno detto Furet e Richet a proposito di Luigi XVI, egli era soprattutto “il simbolo o il riflesso della debolezza dello stato …: il potere reale è tornato ad essere come un tempo la posta in gioco delle lotte d’influenza aristocratiche”. Se, di fronte alla crisi finanziaria dell’ Ancien Régime (precipitata per i cattivi raccolti del 1776-78), il re avesse, almeno in parte, sacrificato la “sua” nobiltà modificando le imposte e la taglia che gravava sulla massa dei contadini, probabilmente avrebbe potuto giocare uno ruolo di “arbitro”.
Il secondo motivo è che, con il suo imperialismo di conquista, Napoleone fu il fattore che sollevò il nazionalismo tedesco e costrinse le potenze dell’epoca non soltanto a mobilitarsi per fronteggiarlo, ma più ancora a varare (sul continente) quella “rivoluzione dall’alto” che, con un’industrializzazione massiccia e accelerata, avrebbe in pochi decenni trasformato profondamente la struttura sociale della Vecchia Europa. Il nazionalismo xenofobo e il “romanticismo senza freni” (I. Berlin) che accompagnarono le modernizzazioni dall’alto, rapidissime e fortemente autoritarie, nacquero e presero piede in questo contesto. Insomma, Napoleone fu involontariamente un acceleratore della modernizzazione, se pensiamo che in Inghilterra la rivoluzione industriale datava almeno dalla metà del Settecento e un parlamento periodicamente eletto come parte integrante dello stato risaliva addirittura al 1690, quando il nuovo re Guglielmo d’Orange giurò alla camera dei Comuni fedeltà al Bill of Rights. Era la conseguenza della “Gloriosa Rivoluzione” del 1688-90, quando Giacomo II Stuart era stato costretto a fuggire perché accusato di essere cattolico e di congiurare con la nemica Spagna. Questo storicamente è stato possibile perché la precedente rivoluzione di Cromwell (1642-1659) aveva instaurato la “Repubblica” sacralizzando la camera dei Comuni. Di questa rivoluzione è stato giustamente detto da C. Hill che fu interpretata dai suoi autori, fortemente influenzati dalle sette calviniste, come un atto salvifico, una rivoluzione di “Santi” contro l’Anticristo.
Napoleone fu sconfitto per alcune scelte scellerate (come l’invasione della Russia) e soprattutto per l’intervento dell’Inghilterra. La Restaurazione del 1815 fu di fatto superata dalle trasformazioni sociali e politiche che seguirono all’impatto delle avventure napoleoniche, delle “rivoluzioni dall’alto” e della “potenza” dell’Inghilterra, che le grandi dinastie della Vecchia Europa non potevano non cercare d’imitare (per le evidenti implicazioni militari, tecnologiche ed economiche).
1. Le petit caporal corso
Atto primo. Bonaparte non è ancora Napoleone
Il generale conquista il potere, tra il 18 e il 19 Brumaio, con un astuto colpo di mano, che assunse un’apparenza di legalità. Dopo l’iniziale ostilità di buona parte dell’Assemblea nazionale, dove non solo i Giacobini lo osteggiavano, e del comitato degli Anziani, fu infatti l’appoggio dell’esercito, convocato per stroncare un “complotto monarchico”, che indusse l’Assemblea ad approvare un decreto con il quale si autorizzava Napoleone a realizzare tutto ciò che serviva a “salvare la Repubblica”. In brevissimo tempo il corteo a cavallo dei generali con in testa Napoleone, che caracollava verso il centro di Parigi, fu sommerso dall’acclamazione popolare. Giunto alle Tuilleries, Napoleone recitò il suo primo atto parlamentare: entrato nella sala degli Anziani, non si limitò a giurare, ma pronunciò un astuto discorsetto in cui concluse con un giuramento: “Vogliamo una Repubblica fondata sulla vera libertà, sulla libertà civile, sulla rappresentanza nazionale. L’avremo, lo giuro sul mio nome e su quello dei miei compagni d’armi”. All’unisono i generali risposero: “lo giuriamo”. L’esercito aveva fatto la sua scelta. Il giorno dopo l’Assemblea si allineò e le truppe acclamarono il loro capo. I ministri, riuniti nella sala del Consiglio degli Anziani, approvano (con l’attiva complicità di Sieyès, che era intenzionato a superare la costituzione dell’anno III) quello che di fatto era stato un colpo di stato.
Intanto, all’assemblea dei Cinquecento, con il Direttorio in parte dimissionario, i giacobini cercano di scatenare un’opposizione generale. Mentre il Presidente fa di tutto per rinviare la votazione, Bonaparte decide d’intervenire personalmente. Ma non è un oratore da assemblee politiche. La sostanza del suo discorso si riduce a questo: “Ricordatevi che io marcio accompagnato dal dio della vittoria e dal dio della guerra”. Scoppia un putiferio, dal quale Napoleone esce quasi svenuto, salvato dai granatieri subito accorsi e convinti che si è tentato di uccidere il loro generale. Sarà Murat a ordinare ai granatieri di far sgomberare la sala da questi “rappresentanti del pugnale”. In un batter d’occhio la sala si svuota. Gli Anziani votano un nuovo Direttorio con una commissione esecutiva di tre membri. Ma si cerca un’apparenza di legalità e quindi si va alla ricerca dei deputati dei Cinquecento per convincerli a riunirsi. Un centinaio di deputati si riunisce così in piena notte nella sala dell’Orangerie e vota una dichiarazione di riconoscenza verso i generali e la creazione di una “commissione consolare esecutiva composta dai cittadini Sieyès e Roger Ducos e dal generale Bonaparte, che assumeranno il nome di consoli della Repubblica”. L’Assemblea, inoltre, nomina una commissione di studio di questa proposta e l’approva alle quattro del mattino. Ma Parigi è quantomeno indifferente: perché mai dovrebbe difendere il regime del Termidoro o i Giacobini? Nella memoria popolare risuonano ancora gli echi del Terrore, non solo nei grandi boulevard, ma anche nei bassi fondi dove abitano i sans-coulottes. Tanto più che era successo già parecchie volte che una delle fazioni prendesse il potere con colpi di mano, scavalcando la stessa Convenzione. Questa volta, però, è la fine della Rivoluzione. Come il ritorno di Luigi XVI da Varenne rappresentò il funerale della monarchia, la salita al potere di Bonaparte costituì il funerale della Repubblica (fondata il 22 settembre 1792).
Atto secondo. Dal Consolato all’Impero: trionfo e sconfitta del dio della guerra
Come è ben noto, Napoleone fu un impareggiabile stratega militare (forse l’inventore della guerra lampo, che pure costò milioni di morti come non si erano visti in precedenza). Poiché in quel momento storico la Francia repubblicana era in guerra contro tutte le potenze di allora, compresa l’Inghilterra che dominava il Mediterraneo, il suo carisma poggiava fondamentalmente su questa congiunzione: l’eroe guerriero era anche il salvatore della patria. Ma proprio questo ne oscurò la capacità di calcolo strettamente politico. La costituzione dell’Impero fu una sorta di salto mortale che, forse, voleva mantenere e al tempo stesso superare l’Ancien Régime e la Repubblica, un po’ come Cesare aveva aperto le porte all’Impero mantenendo il Senato repubblicano. A questo fu anche spinto dall’esaurirsi della rivoluzione dell’89 nel succedersi delle guerre tra fazioni e colpi di mano. Era, tuttavia, un assurdo politico, sia sotto il profilo strategico che su quello istituzionale. La Francia non poteva sconfiggere, nel lungo periodo, l’Europa intera, soprattutto se teniamo conto che l’Inghilterra aveva fatto la rivoluzione industriale da almeno settantanni e dominava i mari. Viste in questa prospettiva, le interminabili campagne napoleoniche, furono un errore di megalomania, di eccessiva sicurezza nella propria “genialità”. A Waterloo fu sconfitto per un attacco frontale alle truppe schierate di Wellington, mentre arrivavano le truppe prussiane di Bülow, che erano riuscite ad aggirare l’ala destra dei Francesi e a cui poco dopo si sommarono le truppe di Blücher. Nel vallone di Haye-Sainte (la “fornace infernale”) cinque battaglioni della Guardia imperiale vanno al massacro: la controffensiva inglese li spazza via. Inglesi e Prussiani aveva imparato dalle precedenti sconfitte, Napoleone no.
L’Impero vittorioso avrebbe potuto costituire l’istituzionalizzazione del sua carisma? Il mito Napoleone (che in origine si chiamava Buonaparte e si fece Bonaparte per apparire più francese), e che era tutto centrato sulla sua persona, incarnazione del “dio della guerra e della vittoria”, e ben poco sull’istituzione imperiale come tale (a parte le cariche distribuite ai parenti, che infine gli si ritorsero contro, ma che rivelano il suo familismo), lascia propendere per una risposta negativa. Tanto più che era un’istituzione a dir poco anacronistica. C’era della vanagloria in Napoleone, ben simbolizzata dal suo particolare cappello (le petit chapeau) che in suoi marescialli e generali ben presto imitarono. Inoltre, con la sconfitta a Waterloo la Francia fu nuovamente invasa, ora da nemici apertamente dichiarati e fortemente intenzionati a impedire altri sussulti. Più di un milione di soldati occuparono i territori a nord e a est delle valli della Loira e dell’Allier, spesso saccheggiando e devastando. Alcuni cantoni savoiardi, belgi e prussiani, che in precedenza erano stati lasciati alla Francia, le furono ora tolti, mentre la Prussia si proiettava verso la Renania (che in buona parte era stata filofrancese). L’occupazione durò tre anni, anche a garanzia del pagamento di una pesante indennità di guerra. Ovviamente, tornarono i Borboni e gli aristocratici, ma la vecchia nobiltà si affiancò alla nuova nobiltà creata dall’Impero. Ai primi dell’Ottocento la Francia era ancora una società arretrata, tanto che non pochi hanno sostenuto che la Rivoluzione sia stata una “rivoluzione della miseria”, anche se proprio Napoleone aveva introdotto alcuni elementi di modernità (i Codici di diritto civile e commerciale).
Ma la Restaurazione del 1815 nella stessa Francia durò ben poco, e i moti liberali del 48-49 aprirono le porte, pur in modo assai contrastato, alla modernizzazione. Le “rivoluzioni dall’alto” (accelerate dalla metà circa del secolo) produssero, di fatto, due guerre mondiali come conseguenze della forte resistenza che le aristocrazie della Vecchia Europa avevano opposto all’avanzare della modernità di tipo liberale, finendo per cedere al fascismo e poi al nazismo. Il secolo XIX aveva scatenato una molteplicità di tensioni e contrasti ideologici che avevano assunto il volto di nazionalismi xenofobi e che le aristocrazie del tempo avevano strumentalizzato ai fini della costruzione dell’unità nazionale (per la Germania e Italia si è parlato di “ufficial-nazionalismo”, per sottolineare che si è trattato di un fenomeno costruito tramite forme di propaganda sistematica da parte di monarchie che non avevano una base storico-culturale nei territori) e dell’espansione imperialistica. Un’espansione che era stata tipica delle antiche dinastie, com’era accaduto nella Russia zarista, nella colonie dell’America Latina, del Nord Africa e nell’impero turco.
Il colonialismo è fenomeno assai complesso. Nel caso dell’Inghilterra si deve considerare che la politica estera (e quindi le colonie) era riservata direttamente al re, che perseguiva la tradizionale politica di conquiste d’oltreoceano. Questo, ovviamente creava anche convenienze commerciali. Tuttavia, come ha mostrato Niall Ferguson (Impero. Come la Gran Bretagna ha fatto il mondo moderno, Mondatori, Milano, 2007), non c’è colpa che possa oscurare il grande merito storico dell’Impero britannico. Ovvero, di aver esportato nel mondo la democrazia, amministrazioni efficienti e la “rivoluzione industriale” (si pensi agli Stati Uniti, all’Australia, in origine usata prevalentemente come colonia penale, all’India, probabilmente l’unica democrazia d’Asia).
Sono state le conseguenze della guerra mondiale che spalancarono le porte alla reazione di estrema destra, sebbene il terreno fosse stato ampiamente preparato (a iniziare dalla Francia) dalla strenua opposizione della chiesa cattolica alle libertà liberali e all’idea di uguaglianza (mi limito a ricordare che l’enciclica di Pio IX del 1864, con il Sillabo, condannava sia il liberalismo che la tolleranza religiosa). Fascismo e nazismo sono state infatti due “utopie regressive” o distopie che hanno esaltato modalità di potere plebiscitario, centrate sull’organizzazione di massa e la fedeltà al partito e al capo supremo, l’avatar del Volksgeist. Un modo cesaristico per cercare di governare società ora in buona parte costituite da masse di proletari e piccola borghesia che le vaste industrializzazioni e le accelerate urbanizzazioni, nonché la guerra, avevano mobilitato. Lo spauracchio del comunismo vittorioso in Russia fu l’occasione perché le vecchie élites e i nuovi arrivisti cercassero di usare una pretesa “rivoluzione spirituale” (così si autodefinirono fascismo e nazismo) contro le “rivoluzione materiale”, sia liberale che socialista. Il tempo dell’aristocrazia era stato sepolto dalle “rivoluzione dall’alto” che quella stessa aristocrazia aveva voluto, per ricercare quella “potenza” che l’Inghilterra aveva rivelato al mondo e che proprio Napoleone aveva esaltato.
Un anticipo del potere plebiscitario: le due forme di Cesarismo
Solitamente la democrazia non è associata alla demagogia. Tuttavia, se confrontiamo questa forma di governo con quelle autocratiche che l’hanno storicamente preceduta, allora diventa più chiaro che il ricorso al voto popolare contempla questa possibilità, che Weber valuta persino un’“inclinazione”. Naturalmente, non poco dipende da come sono divisi costituzionalmente i poteri dello stato, dalla legge elettorale e dal sistema dei partiti. Così come dipende dalla maturità della “società civile”, dalla sua articolazione e cultura politica. L’esempio di Napoleone è particolarmente calzante perché rappresenta il primo caso storico in cui il capo militare assume il potere politico in modo pressoché assoluto, ma fa sanzionare questo predominio con un plebiscito. Una strada che sarà seguita nel secolo seguente in alcuni paesi del terzo mondo. In altri casi la selezione del capo supremo avverrà in via civile, cioè tramite una sanzione plebiscitaria di un politico che non appartiene alla cerchia dei militari e che i militari accettano pienamente. I casi più palesi di una tale via al potere assoluto si sono avuti nell’Argentina di Peron, ma prima ancora con il fascismo e il nazismo. Tutti casi in cui il carisma personale ha avuto un ruolo molto importante, tanto che è con riferimento a casi simili che si è incominciato a parlare di populismo plebiscitario, soprattutto con riguardo all’Argentina di Peron e all’America Latina. Fascismo e nazismo sono stati caratterizzati soprattutto in termini di totalitarismo. Tuttavia, anche regimi più o meno totalitari, inclusi quelli di tipo sovietico, hanno sempre avuto una qualche forma di legittimazione plebiscitaria. Ne parleremo quando affronteremo il caso di Lenin. Tuttavia, la cosa a volte trascurata è che in tutti questi casi l’aspetto plebiscitario presuppone il carisma del capo e che, quando questo carisma personale non si trasforma in carisma d’ufficio, questo potere si esaurisce con il venir meno del capo. Sovente dopo un tracollo militare che colpisce profondamente non solo i più vicini seguaci del capo, come nel caso di Napoleone. I casi di Mussolini e Hitler comportarono indubbiamente carisma personale, ma nel quadro internazionale degli accordi di Yalta i due regimi furono sostituiti dalla democrazia e dal comunismo (nella Germania dell’est e negli altri territori occupati dalle truppe sovietiche).
Il caso dell’Inghilterra cui ho accennato poco sopra è anch’esso un caso di carisma personale (di Cromwell) che si trasforma in carisma d’ufficio. Il fattore che però risultò decisivo fu la fusione di fattori storici che risalivano ai Tudor (la fondazione delle Chiesa Anglicana da parte di Enrico VIII, la cessione delle terre requisite alla Chiesa cattolica alla gentry, l’appoggio che lo stesso monarca dette ai Comuni contro una parte dell’aristocrazia, l’aperta cattolicità di Giacomo II) e che interagirono potentemente con la diffusa influenza del radicalismo religioso protestante (per approfondimenti sono costretto a rinviare alla bibliografia).
2. Vladimir Il’ič Ul’janov, detto Lenin
Atto primo. Dall’oscuro redattore della Zarja a Nicolaj Lenin
Il primo aprile 1901 uscì a Stoccarda il primo numero della rivista “Zarja” (L’Aurora) sotto la direzione di Plechanov, il più prestigioso intellettuale marxista russo, emigrato a Ginevra, che insieme a Aksel’rod e Zasulič, formava una sorta di triunvirato garante dell’ortodossia. Il più prolifico e lucido degli altri giovani membri della redazione era il ventiseienne Ul’janov che nel dicembre dello stesso anno pubblicò un articolo a firma Lenin. Era l’atto di nascita, anche simbolico, della Stella Polare che avrebbe guidato la futura rivoluzione russa. Nel 1902 pubblicò il libro che l’avrebbe reso famoso, il “Che fare?” (ripreso integralmente dal romanzo utopistico di Černyševskij, socialista ma anche vicino ai narodniki, pubblicato nel 1863). Nei primi mesi dell’anno seguente ci fu la convocazione del primo Congresso del Partito Operaio Socialdemocratico Russo. Da notare che fu usato il vocabolo rossijskaja invece di russkaja, con ciò indicando tutti i territori dell’impero zarista (dal Caucaso e dal Mar Nero sino al Caspio e al deserto del Taklamakan, che collegava a est il Turkestan allo Xinjiang e a sud, attraverso le cime del Karakorum, era la via che portava all’Afghanistan e all’India britannica), non soltanto quelli propriamente della Russia, cosa apparentemente curiosa per i teorici dell’Imperialismo capitalista. Era un anticipo della politica imperiale che Lenin varerà nel 1918, portando i “terrore rosso” nell’Asia centrale (e di cui fu incaricato il Comintern, con presidente Zinov’ev) (su queste vicende quasi sconosciute si veda P. Hopkirk, Avanzando nell’oriente in fiamme. Il sogno di Lenin di un impero in Asia, Mimesis, Milano 2021).
Inizialmente l’obiettivo della polemica di questo gruppo di marxisti era costituito dai narodniki, ossia populisti slavofili che guardavano al mondo contadino. Diversamente dagli Occidentalisti che affermavano il primato dell’industria e del proletariato, i narodniki erano convinti che l’Occidente fosse già al tramonto, erano sostenitori di un nichilismo ante litteram e dell’idea che la pur arretrata Russia fosse ricca di giovani forze (il mitico mir di cui si era occupato anche Marx, con la comune agraria o obščina, in cui i singoli appezzamenti erano assegnati alle famiglie che si appropriavano poi dei raccolti, mentre il mir era l’assemblea dei membri della comune). Il populismo slavofilo era tuttavia privo, anche tra gli stessi pochi borghesi, di una concezione politica che fosse, anche alla lontana, l’equivalente della filosofia politica liberale dell’Occidente. A parere di molti, questa assenza fece sì che tra gli oppositori dello zarismo il marxismo avesse una rapida diffusione dal 1905 (probabilmente anche per il fallimento pratico dell’abolizione della servitù della gleba del 1861). Ciò anche a seguito delle prime industrializzazioni, con il concorso di capitali occidentali. A prima vista sembra un controsenso, eppure si può comprendere che, a fronte di una società ancora di tipo feudale, primitiva e dominata da un regime autocratico, la nascente borghesia urbana potesse essere attratta dal marxismo e dai gruppi che vi facevano esplicito riferimento. Le autorità tendevano a tollerarli e se ne parlava come di “marxisti ufficiali”. Essi distinguevano nettamente tra lo stadio capitalistico-borghese e quello propriamente socialista. In particolare gli “economisti” separavano nettamente l’economia dalla politica. Agli operai era riservata una sorta di sindacalismo, mentre agli intellettuali spettava la direzione politica: non si poteva “essere marxisti alla maniera occidentale”, occorreva tener conto dell’arretratezza russa e pensare a fare delle progressive riforme.
Lenin e colleghi considerarono queste idee eretiche. Nel “Che fare?” bollò l’“economismo” di sostenere una “politica borghese”: i veri socialdemocratici avrebbero dovuto lottare per “elevare” la coscienza di classe dei proletari, fare degli operai dei “tribuni del popolo” e non dei semplici sindacalisti. Bisognava legare la lotta democratica all’autocrazia con la rivoluzione proletaria. Con la prima il proletariato avrebbe acquisito una vera “consapevolezza” della strada che doveva portare al socialismo. La vera funzione di un partito rivoluzionario era questa. In questa fase il partito poteva essere solo parte della classe operaia. Dato che l’autocrazia costringeva le opposizioni alla clandestinità, questo doveva essere realizzato in modo altamente professionale. Era la tesi di un’organizzazione rivoluzionaria clandestina e altamente centralizzata, del tutto aperta alla partecipazione operaia. Al secondo congresso del Partito Socialdemocratico Lenin dichiarò: “Gli «economisti» curvano il bastone in un senso. Per raddrizzare il bastone era necessario curvarlo nella direzione opposta; e questo è quello che io ho fatto”.
Questo apparentemente ferreo realismo era però immerso nell’utopismo più fanatico, ricordando il questo il peggior Robespierre, che credette di moralizzare l’intera società a colpi di ghigliottina nelle pubbliche piazze. E come Robespierre era del tutto incapace di tollerare chi non si allineava alle sue idee, fatti salvi i necessari tatticismi. Era questa notevole capacità di fare teoria in funzione della prassi rivoluzionaria che, come ha scritto Edward H. Carr, “da essa derivò la sua irripetibile grandezza”. Una grandezza che peraltro non si rivelò nella presa del potere nel luglio del 1917. In quella data “il bolscevismo occupò un trono vuoto”, ma il partito era ormai indiscutibilmente stretto nelle sue mani a pugno chiuso. La spaccatura tra bolscevichi e menscevichi era già avvenuta nei congressi del 1903 e del 1905, ma si formalizzò nel 1912.
Sul piano della congiuntura storica del 1917, con la sconfitta militare dello zarismo e le diserzioni di massa, un manipolo di rivoluzionari non poteva non occupare “un trono vuoto”. Date le condizioni di arretratezza della Russia, la seguente guerra civile avrebbe rappresentato “L’Aurora” del sistematico “stato d’assedio” che l’apparato repressivo messo in piedi da Lenin avrebbe esercitato contro il suo stesso popolo, nella mistica credenza che la rivoluzione avrebbe creato la società senza classi a tappe forzate. È vero che l’autocrazia non lasciava spazi a effettive riforme, ma ancor più vero era che l’idealismo escatologico e settario del leninismo avrebbe istituzionalizzato il “terrore rosso”.
Se, marxianamente, fosse stato vero che la storia ha un telos che si incarna in una classe culturalmente egemone, ebbene questa in Russia sarebbe stata la massa dei contadini (circa il 90% della popolazione). Rifiutata la “libertà borghese” perché un “noto inganno”, a Lenin non restava che il “terrore rosso”, come obbligava la fede nell’utopia palingenetica di cambiare il mondo secondo intenzione. L’abisso che separava l’intenzione dalla realtà delle masse contadine era così vasto che il mezzo, ovvero il “Terrore Rosso”, si tramutò nel fine. Non fu la Dea Fortuna o una congiura che scelsero il suo erede, ovvero il “montanaro” Stalin. In quella fase e in quelle condizioni sociali era lui l’uomo giusto per istituzionalizzare il carisma personale di Lenin in carisma d’ufficio del partito bolscevico (vedi S. P. Mel’gunov).
Esemplare in questa storia è stata la vicenda di Trockij (Lev Bronštein), l’ingombrante ex oppositore durante le controversie del 1911-14 e che la riconciliazione del 1917 non aveva cancellato nella memoria dei sodali del Lenin vittorioso. Del resto, Troskij a Kronstadt aveva dato prova di estrema brutalità, facendo sparare a centinaia di operai e soldati in rivolta per maggiori libertà e il riconoscimento dei partiti socialisti (fine febbraio 1921, quando ormai la guerra civile era esaurita). Egli condivideva con Lenin la ferma credenza sull’imminente rivoluzione socialista in Occidente, nonché l’assurda tesi della rivoluzione “permanente” o “ininterrotta”. Esemplare nel mostrare le capacità carismatiche di Lenin è stato il varo nel 1921 della NEP (Nuova Politica Economica), che contraddiva tutte le convinzioni sino allora professate dal partito. Esemplare anche del suo tatticismo. La Russia era stata duramente colpita da carestie, seguite alla guerra civile e alle devastazioni del “comunismo di guerra” dall’estate del 1918. La guerra ai kulaki si era trasformata in guerra a tutti i contadini che, per mentalità e antiche tradizioni, erano affamati di terra. Essi rifuggivano dalle fattorie sovietiche e nascondevano parte dei raccolti. Il tentativo del partito di distinguere il contadino “ricco” da quello medio e da quello povero (il bracciante) fu in pratica fonte di abusi diffusi e di repressioni sommarie. Potevano passare per kulaki gran parte dei contadini. E così fu. La NEP fu essenzialmente una “tregua” che serviva a sfamare la prostata Russia sovietica.
Atto secondo. 1923-1924: l’interregno
È l’epoca del cosiddetto triunvirato al potere costituito da Zinov’ev, Kàmenev e Stalin, con Trockij nel Politbjurò. Nel marzo del 1923 doveva tenersi il XII congresso del partito, ma Lenin aveva avuto un seria ricaduta dell’apoplessia che a più riprese lo aveva colpito alla fine dell’anno. Il congresso fu quindi rinviato al 17 aprile, nella speranza di una sua ripresa. Lenin andò invece peggiorando e questo produsse una sorta di panico: da un lato, il congresso non poteva più essere rinviato, anche perché v’erano troppe questioni rimaste insolute (la NEP aveva sollevato dure opposizioni all’interno stesso del partito); dall’altro lato, v’era il fondato timore che l’assenza di Lenin avrebbe fatto esplodere i contrasti (anche personali) tra Trockij e Zinov’ev, i due più evidenti candidati alla successione. Tanto più che Trockij aveva criticato apertamente alcune conseguenze della NEP e avrebbe potuto legarsi all’opposizione interna. Nel Politbjurò, dove Trockij godeva di un certo prestigio per le sue imprese militari, Zinov’ev fu quindi spinto ad allearsi con Kàmenev, capo dell’organizzazione bolscevica a Mosca, e con Stalin che era il segretario (voluto da Lenin) dell’intero apparato di partito. Quest’ultimo se ne stava abbastanza defilato, perché le recenti critica rivoltegli da Lenin (il cosiddetto testamento) erano risapute e lo avevano indebolito. Lo stesso Trockij sperava che Lenin si riprendesse. Così il congresso si svolse con il preliminare accordo nel Politbjurò che le relazioni ufficiali non avrebbero manifestato dissensi. A Zinov’ev spettò la relazione d’apertura, a Stalin quella sull’organizzazione, a Trockij sull’industria. Il congresso si concluse in un generale anonimato. Tutti i dirigenti si dichiararono modesti discepoli del “compagno Vladimir Il’ic”. Era l’incipiente culto di Lenin, col quale nel nome dell’unità del partito si sarebbe impedita la minima manifestazione di dissenso. Come sostenne Zinov’ev, non sospettando che un giorno lo stesso argomento sarebbe stato usato proprio contro di lui: “Ogni critica alla linea del partito, anche la critica cosiddetta di «sinistra», è da questo momento obiettivamente una critica menscevica … [l’assenza di Lenin deve essere colmata] dalla volontà collettiva, dal pensiero collettivo, dall’energia collettiva e dalla decisione collettiva”.
La riforma organizzativa che era stata presentata nella relazione di Stalin non sollevò obiezioni all’atto del voto. Stalin l’aveva accompagnata da ripetute critiche alla burocrazia, richiamandosi esplicitamente a Lenin. I dissensi, pur manifestatisi anche duramente, non si concretizzarono in atti politici. La riforma era stata voluta da Lenin e qualsiasi obiezione sull’inadeguatezza di tali misure sarebbe apparsa un atto di disobbedienza al capo gravemente malato. Era nato ufficialmente l’interregno: una calma appena increspata da qualche violenta folata, ma che ben presto si sarebbe mutata in tempesta, anche se l’uragano sarebbe arrivato qualche anno dopo (a partire dal 1928). Essa rivelò però l’abilità politica di Stalin e l’incapacità di Trockij, troppo pieno di sé e indeciso. Quanto a Zinov’ev, si mostrò attento a cogliere l’abilità di Stalin, ma troppo ingenuo por poterlo arginare veramente. Non ne aveva le capacità amministrative.
L’8 settembre Trockij invia una lettera al Comitato Centrale in cui attacca frontalmente l’Ufficio organizzativo (ossia Stalin), accusandolo di procedere sistematicamente “per nomine e non per elezione”, senza tener conto del merito ma essenzialmente “calcolando se esse possono favorire od ostacolare il regime nel partito che, in segreto … viene attuato attraverso l’Orgbjurò e il Comitato Centrale”. Quasi le stesse parole furono utilizzate dal manifesto reso noto dal “Gruppo 46” (tra cui il più noto era Preobraženski) al quale Trockij non aveva aderito formalmente, ma del quale era stato quasi certamente informato preventivamente. Il triunvirato mostrò un’apparente apertura e fu organizzato una sorta di dibattito sulla “Pravda” cui parteciparono anche i critici, compreso Preobraženski, primo firmatario del manifesto dei 46. Così Trockij fu separato dai 46 (e da altri gruppi d’opposizione costituiti da figure minori), perché la “democrazia nel partito” urtava contro il “divieto di formare gruppi frazionisti”, regola da lui stesso approvata nel corso del X congresso.
Sembra che Trockij non si rendesse conto che il triunvirato aspettasse soltanto l’occasione per metterlo nell’angolo, mostrandosi concorde sui principi generali, compresa l’istituzione del Gosplan, uno sorta di “stato maggiore dello stato socialista” preposto alla sostituzione del mercato con la pianificazione centrale. Una risoluzione in tal senso, redatta da Trockij, Stalin e Kàmenev, fu approvata all’unanimità dal Politbjurò e dalla presidenza del Comitato Centrale di Controllo il 5 dicembre 1923. Di li a poco sarebbe stata organizzata una campagna contro Trockij, precisamente nel gennaio del 1924 durante la XIII Conferenza del partito. In questa occasione il triunvirato attaccò frontalmente l’assente Trockij, identificandolo con l’opposizione. Al XIII congresso del maggio dello stesso anno il pur presente Trockij non potè che assistere al suo palese declino. Ma la sua sconfitta mandò in frantumi proprio ciò che univa il triunvirato. Nonostante Stalin continuasse a mostrarsi moderato e conciliante aveva ormai acquisito il controllo del partito (soprattutto con la cosiddetta “Leva Leninista”). Kàmenev aveva accettato una posizione di secondo piano, mentre la figura di Zinov’ev come capo provvisorio del partito (Lenin era morto la sera del 21 gennaio) era ormai solo apparenza. La sua ambizione di divenire il successore di Lenin era talmente scoperta che ogni sua mossa era facilmente prevedibile e gli attirò tante critiche e antipatie. Il successivo congresso avrebbe sanzionato che il vero capo era Stalin. Molti autorevoli dirigenti lo attaccarono apertamente. Qualcuno lo definì un “asino di notorietà europea”, una militante arrivò a scrivere che era “dopo Mussolini … l’uomo più spregevole che abbia mai incontrato”. Fu disprezzato persino più di Trockij.
Atto terzo. Iosif Vissariònovič Džugašvili e il socialismo in un solo paese
Per capire come mai sia stato Stalin, il più anonimo dei leader vicini a Lenin, a prevale non è sufficiente rammentare gli evidenti difetti degli altri aspiranti capi, soprattutto di Trockij, che pure aveva acquisito un carisma di capo militare negli anni cruciali della guerra civile. Il punto centrale era questo: si era aperta una fase storica in cui, sia per necessità di gestione e consolidamento del potere sovietico sia per ragioni strettamente ideologiche (la “dittatura del proletariato”), ciò che realmente occorreva al partito era una decisa rivalutazione delle funzioni pratiche di una amministrazione il più possibile efficace. Ciò è tanto più vero quanto più si consideri che la pretesa imminente rivoluzione in Occidente si era ormai rivelata per ciò che effettivamente era stata: un sogno ideologico. Ciò inoltre spingeva oggettivamente i dirigenti a rinchiudersi nella tradizione nazionale russa e a elaborare una propria versione del socialismo, appunto differente dal quello occidentale e che la stessa NEP aveva contribuito a una prima affermazione. Questa è l’origine di quel modello sovietico detto “socialismo in un solo paese” il cui protagonista principale fu Stalin, che non aveva un carisma personale ma era indubbiamente un amministratore di grande rilievo e di fini (in quel contesto) capacità politiche.
Nella primavera del 1926 inizia l’attacco palese a Zinov’ev e Trockij. Nel luglio il primo viene dimesso dal Politbjurò e sostituito con un uomo di Stalin, e così sarà anche per Trockij e Kàmenev. Nell’ottobre i quattro (considerando anche Preobraženski) e i loro alleati arrivarono a “confessare” le proprie colpe, iniziando la tragica epopea delle autodenunce a dimostrazione della fede assoluta nella santità del Partito. Infine, accusati di frazionismo per una tipografia trockista clandestina (diretta da Preobraženski) a cui seguirono delle dimostrazioni di piazza senza successo, furono espulsi dal partito. Zinov’ev ritrattò, ma in seguito verrà processato. Trockij venne deportato ad Alma-Ata e poi espulso dall’URSS e accompagnato in Turchia, dove stette almeno sino 1933. Alla fine del 1927 Stalin era l’indiscusso padrone del partito.
Da quel momento il modello di partito monolitico sarebbe stato modellato sulla tradizione del dispotismo russo. Del resto, che interpretazione concreta della “dittatura del proletariato” poteva dare un gruppo dirigente che si era convertito al marxismo avendo alle spalle una cultura tradizionalista-slavofila, dove lo zarismo non era stato minimamente contrastato da posizioni liberali e dove la stessa “democrazia di partito” era vincolata dal divieto di “frazionismo”? Nonostante la (breve) guerra civile, era capitato ai bolscevichi qualcosa di analogo a ciò che era accaduto ai Termidoriani, che si erano trovati a “occupare un trono vuoto”. Ora si trattava di amministrare il potere in un immenso paese al novanta per cento costituito da contadini analfabeti e altamente tradizionalisti, con la presenza di etnie (soprattutto nel Caucaso e in Asia centrale) molto diverse e che (su indicazione dello stesso Lenin) si aveva la pretesa di trasformare celermente nella prima società socialista al mondo.
In questa prospettiva, il termine di “stalinismo” per indicare un dispotismo tipico solo di una fase risulta riduttivo. Il parossismo che esso raggiunse con Stalin può essere ingannevole: il Gulag non fu affatto eliminato con la morte di Stalin. Esso era un “sistema” che come un’immensa piovra soffocava l’intera società. Ma la cosa per certi aspetti paradossali è che esso fallì proprio su quel terreno che riteneva dovesse essere il fondamento del futuro comunismo: la pianificazione. L’URSS collassò perché, oltre a un’estrema disumanità, invece che abbondanza e progresso creava solo penuria sistematica (nonostante i primi innegabili successi nell’industria pesante), incapacità di assicurare un’efficace manutenzione (persino in campo militare) e corruzione diffusa a tutti i livelli.
3. Perché il Partito-Stato di Stalin riuscì a istituzionalizzare il carisma di Lenin?
E’ giunto il momento di concludere. È importante accennare a una premessa. Il grande storico dell’antichità Paul Veyne sottolineava che non bisogna farsi ingannare da quel “filo rosso” che si crede di vedere quando si studia il passato sapendo come è andata a finire. Esso crea delle false continuità, perché sovente non tiene conto del ruolo che la contingenza gioca nella storia, ossia di quegli eventi cruciali che avrebbero potuto non accadere o accadere diversamente, generando così una storia molto diversa. Nel caso della Russia sovietica, tuttavia, appare come molto probabile che, una volta sconfitti i “bianchi”, non vi potessero essere vere alternative a Stalin. Non lo erano né Zinov’ev, né Trockij né tanto meno Kàmenev. Sull’industria e la pianificazione Stalin mise in pratica le stesse di idee di Troskij, che del resto erano condivise da tutti i bolscevichi. Le divergenze riguardavano solo i tempi di attuazione. Tanto più che una pianificazione dell’intera economia, peraltro ancora in gran parte priva d’industria, era la prima volta al mondo che veniva tentata.
C’era un’altra fondamentale ragione per cui non poteva finire diversamente. La dottrina bolscevica era l’equivalente moderno del monoteismo cristiano del feudalesimo dell’Occidente: qualsiasi divergenza dall’ortodossia dava luogo a una vera caccia alle streghe. Non è un caso che al “Terrore rosso” seguirono le “Grandi purghe” e il Gulag, cioè una schiavitù di stato che soltanto tra 1929 e il 1953 produsse 40 milioni di morti (dati ufficiali).
Ma allora in che senso sono qui intervenute delle exaptations? C’è qualcosa che si sia evoluto nella Russia zarista e che il partito bolscevico ha fruttuosamente utilizzato dandogli una nuova funzione? Oppure qualcosa che, pur non avendo una reale funzione, ne ha sviluppata una nel nuovo contesto sovietico? Una cosa particolarmente importante è stata sicuramente la versione leninista del marxismo. Essa era figlia tanto del marxismo rivoluzionario occidentale quanto dell’autocrazia zarista, ma in assenza pressoché totale di influenze di una filosofia politica liberale. Il primo era una vera escatologia della redenzione dell’umanità per il tramite della rivoluzione proletaria, un evento tanto salvifico quanto sempre rimandato. L’autocrazia zarista dall’Occidente aveva importato soltanto i fasti di corte recitati in francese, relegando i contadini a un Medioevo di impronta Ortodossa. In queste condizioni, il leninismo divenne una vera Teologia Politica monoteista. Come nella dottrina dei “due corpi del re” – l’uno mortale, l’altro immortale – usata per santificare le dinastie reali, la dottrina bolscevica distingueva solo tra “amici e nemici” quale fondamento della sacralità politica del Partito, unico detentore della “Verità Rivelata” da Lenin (più ancora che da Marx, che pensava soprattutto all’Inghilterra e non all’arretrata Russia). Il passato zarista, con la sua autocrazia, facilitò molto questo trapasso. La vecchia funzione dell’apparato repressivo zarista, di guardiano della tradizione ortodossa e della dinastia dei Romanov, fu sostituita dalla nuova funzione rivoluzionaria del Partito-Stato, la cui “missione” era la costruzione del futuro paradiso, il che ne fece uno “zarismo rovesciato” molto più feroce: era la sostituzione della classe con il partito quale “forza motrice della rivoluzione” che Lenin aveva teorizzato nel “Che fare?”.
Nelle Anime morte di Gogol’, la Russia vi compare come una disperata palude di barbari senza anima e animalesca grettezza, icasticamente rappresentata dall’eroe Čičicov, che va in giro a comprare “anime” a bassissimo prezzo, per poi farsi dare dalla banca prestiti “garantiti” da certificati da cui non risulta che nel frattempo quelle “anime” sono trapassate a miglior vita. I feudatari russi erano infatti obbligati a pagare una tassa per le “anime” dei servi delle loro terre. L’elenco per questa tassa veniva però compilata soltanto ogni dieci anni, cosicché sino alla prossima revisione dell’elenco essi continuavano a pagare il testatico anche per le “anime morte”. Da qui l’astuta pensata di Čičicov: farsi dare dei prestiti dalla banca agricola dando in garanzia i certificati di proprietà delle “anime”. Tutti vi compaiono come “anime morte”, non solo i servi ormai defunti, ma anche signori e dame che vegetano senza scopo, se non gozzovigliare sulle spalle di anime vive e morte, e ai quali Čičicov fa le sue visite interessate. La servitù della gleba fu formalmente abolita nel 1861, ma ancora tra 1905 e il 1910 si discuteva su come redistribuire la terra ai contadini e riorganizzare il governo del territorio. Questo dà un’idea più realistica del perché la guerra civile e il “comunismo di guerra” costrinsero Lenin a varare la NEP, realizzando così una sorta di tregua con i kulaki e più in generale con la massa dei contadini.
Il colpo di mano con cui i bolscevichi abbatterono il governo provvisorio fu, per l’appunto, “l’occupazione di un trono vuoto”. Ma la pur breve guerra civile e la necessità di consolidare il potere nella prospettiva della palingenesi comunista, non potevano non assumere la forma e la sostanza di un potere burocratico totalitario, sorvegliato dai suoi chierici e dall’equivalente del Papa-Re, con in mano il rosso stendardo della falce e del martello. In breve, il “Terrore rosso” si istituzionalizzò nella duplice burocrazia dello Stato e del Partito, che imponeva quella che Bucharin, senza ironia, chiamò (nel 1918) “autodisciplina forzata”. Il culto di Lenin, con la sua improvvisa morte, diventò il sacro rituale con cui il nuovo Papa-Re dispensava le sue assoluzioni e le sue dannazioni, i benefici all’apparato e i roghi delle nuove streghe mensceviche e dei “cospiratori al servizio delle potenze straniere”. Il culto personale divenne l’epicentro del rituale con cui il carisma di Lenin trapassò nel Partito, chiunque ne fosse al vertice.
Era il prezzo da pagare, così argomentava il “montanaro del Cremlino”, al futuro paradiso in terra sovietica, anche se questo significava passare prima per l’inferno, un inferno assai mondano che si chiamava Gulag (e che in Occidente la sinistra rifiutò di ammettere, persino dopo le rivelazioni di Chruščev). Come la chiesa di Roma si affermò tramite la trasformazione burocratica del carisma di Gesù e dei suoi apostoli, così la chiesa del Cremlino si istituzionalizzò con la trasformazione del carisma di Lenin nel carisma d’ufficio del Partito, il cui autore fu il “compagno Džugašvili”, che forse non per caso era stato per cinque anni al seminario teologico di Tiflís (Georgia), dove probabilmente acquisì le capacità e il gran gusto per rituali e occulte trame di potere.
La grande differenza rispetto a Napoleone era la totale assenza di carisma, ma proprio questo ne fece il nuovo Papa-Re, nel momento in cui la sua abilità politica gli consentì di eliminare ogni potenziale successore di Lenin e il potere del partito doveva essere consolidato. Questo poteva essere realizzato solo con la costruzione di un’immensa e avvolgente burocrazia fortemente ideologizzata. Il crisma di Lenin era ora nelle mani del Grande Padre Stalin, l’Unto del Signore. Su un cartello del campo di lavoro forzato delle Soloveckie, le “isole del martirio”, era scritto: «Con il pugno di ferro porteremo l’umanità alla felicità».
Come il “Cristianesimo del Terrore” teorizzato da Joseph de Maistre, un cattolico reazionario che anticipò il fascismo nella prima metà circa dell’Ottocento (ed era stato consigliere dello Zar Alessandro I), anche il “Terrore rosso” leninista era giustificato da una Teologia Politica, una sorta di fede “da mattatoio”, che – come ha sottolineato Isaia Berlin – era incentrata sull’idea di un Comitato di Salute Pubblica Permanente e Onnisciente (il Politbjurò). Al pari che in de Maistre, questa fede poggiava su due pilastri: uno era la Chiesa, ovvero il Partito-Stato, l’altro era il marchio di eresia per ogni (supposto) dissenziente: era la dittatura come tale piuttosto che il dittatore Stalin ad aver bisogno di “nemici” (su questo insiste il Gerschenkron). Beninteso, ambedue (dittatura proletaria e nemici) nel nome della futura felicità umana.
Proprio all’inizio del secolo in Francia i nazionalisti di Maurras convergevano con i sindacalisti rivoluzionari ispirati da Sorel e la cui sintesi (pur abborracciata) fu fatta dal fascismo italiano. Essi predicavano la subordinazione volontaria di tutti all’insieme, la nazione intesa come una “comunità vivente”. Charles Maurras fu un precursore del fascismo e di quei cattolici antidreyfusardi, veri eredi del de Maistre, fautori del regime di Vichy e di cui si è detto talvolta che erano cattolici prima ancora di essere cristiani. I comunisti sovietici furono leninisti prima di essere marxisti. Come avrebbe detto Hegel, era la sottile astuzia della ragione fattasi storia che, al crollo dello zarismo, aveva risposto con un’autocrazia che, nel nome della futura felicità umana, avrebbe instaurato un’oppressione assai più onnipervasiva e devastante.
Date queste premesse, il potere plebiscitario nel nome di Lenin fu organizzato tramite i rituali, a incominciare dalle famose sfilate nella Piazza Rossa, con la nomenclatura schierata (in base al potere, letteralmente coperta da medaglie) e le folle plaudenti; ma soprattutto con la farsa delle elezioni dei Soviet in assenza di reali oppositori e con i processi caratterizzati da “autodenunce” (un anticipo della sindrome di Stoccolma).
Non si deve dimenticare che il nazionalismo panrusso (una contraddizione in termini per un’ideologia che si professava internazionalista) ebbe un ruolo probabilmente decisivo, prima nella resistenza e poi nella controffensiva contro i nazisti. Probabilmente una cosa simile era successa durante la guerra civile: i “bianchi” erano indicati come “agenti” delle potenze occidentali. In Russia v’è stata un sorta di egemonia del leninismo sanzionata dal nazionalismo e dalla contrapposizione con l’Occidente “borghese”. Ciò che fece collassare l’intero sistema sovietico furono le proprie croniche incapacità, inefficienze e corruzione a tutti i livelli. La pianificazione per sua natura si basava su “dati spazzatura” e, nel migliore dei casi, dava luogo a penurie sistematiche e al mercato nero. A volte si dimentica che nessuna società al mondo è mai crollata così repentinamente, implodendo su se stessa nel giro di pochi mesi. Collassata la gerarchia del Partito con in capo il KGB (vero responsabile del devastante incidente di Chernobyl), l’universo sovietico si dissolse come neve al sole d’agosto.
Bibliografia
Oltre ai testi citati nel testo, su Max Weber, si veda la nota Economia e Società, Comunità, 1968. Ma soprattutto si dovrebbe leggere almeno l’Intermezzo: Teoria dei gradi e delle direzioni di rifiuto religioso del mondo, in Sociologia della religione, Comunità, 1982 (pp. 525-60), 2 Voll.. Un testo poco noto anche agli specialisti, che sovente si limitano a L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, un lavoro sovente incompreso proprio perché non lo si inquadra nella ricerca comparativa svolta negli anni seguenti (morì di Spagnola nel 1920). Si veda W. Schluchter, Rationalism, religion, and domination. A weberian perpersctive, University of California Press, 1989. Come esempio negativo (perché la Sociologia della religione viene ignorata) si veda il recente R. McCleary e R. J. Barro, La ricchezza delle religioni. L’economia della fede e delle chiese, Bocconi Editore, 2021. Per un inquadramento dell’opera di Weber nel contesto del suo tempo si veda di Pietro Rossi, Max Weber. Un’idea di occidente, Donzelli, 2007; per un confronto con Marx e tenendo conto della relazione tra storia e sociologia, si veda J. Kocka, Storia sociale. Concetto, evoluzione, problemi, in H.-U. Wehler e J. Kocka, Sulla scienza della storia. Storiografia e scienze sociali, De Donato, 1983. Si rimanda inoltre al Quaderno della Fondazione PER dedicato a Weber in occasione del centenario della morte. Una discussione critica del dibattito sul “metodo delle scienze sociali”, con riguardo anche al contributo della teoria dei sistemi sociali, si trova in N. Addario e L. Fasano, La logica della società. Uno studio sul problema dell’ordine sociale, Egea-Bocconi, 2012. Un autore che utilizzò l’idea di carisma per lo studio dei movimenti degli anni Sessanta e seguenti è F. Alberoni, Movimento e istituzione, Il Mulino, 1974.
Sul potere personale, più o meno carismatico, si veda il sintetico ma penetrante lavoro di G. Roth, Potere personale e clientelismo, Einaudi, 1990 (dove con riferimento all’Unione sovietica si dice: “I quadri … «razziano» i migliori prodotti dello stato e della collettività, posti riservati e conti bassi nei ristoranti, agevolazioni in tutti i mezzi di trasporto, nelle spese di alloggio, nei materiali da costruzione e simili. La popolazione impotenze contribuisce con un’inclinazione al clientelismo, per garantirsi il favore dell’élite” (p. 72). In sintesi: una sorta casta di partito. È peraltro assai problematico studiare la storia senza tener conto del fatto che la semantica di moltissimi termini (a iniziare da quelli di “storia”, “patriottismo”, “stato”, “emancipazione”, “libertà”, “rivoluzione”) cambiano, anche radicalmente, il loro significato. Si veda almeno R. Koselleck, Il vocabolario della modernità, Il Mulino, 2009 e Crisi. Per un lessico della modernità, Ombre Rosse, 2012. Anche l’idea di nazione è un neologismo che inizia a diffondersi solo verso la metà del Settecento, per poi essere usato dalle monarchie in associazione a quello di stato al fine di integrare le masse, che erano state mobilitate dalle autoritarie e accelerate modernizzazioni della fine dell’Ottocento, e che i suoi fautori definirono “rivoluzioni dall’alto” per contrapporle alla rivoluzione francese. Per questo alcuni storici ne hanno parlato come di “comunità immaginate” (B. Anderson, Laterza, 2016), di tradizioni inventate (E. J. Hobsbawm e T. Ranger, L’invenzione della tradizione, Einaudi, 2002) e persino di “ufficial-nazionalismo”.
Su Napoleone un grande classico è G. Lefebvre, Napoleone, Laterza, 1991. Si veda inoltre V. Criscuolo, Napoleone, Il Mulino, 2009 e A. De Francesco, Il Naufrago e il dominatore. Vita politica di Napoleone Bonaparte, Neri Pozzi, 2021. Non si può peraltro affrontare la storia di Napoleone senza uno sguardo alla rivoluzione dell’89. Si veda almeno G. Lefebvre, La rivoluzione francese, Einaudi, 1958 e F. Furet e D. Richet, La rivoluzione francese, Laterza 1974.
Per quanto riguarda le vicende della rivoluzione bolscevica e la storia dell’URSS sino al varo della pianificazione il grande classico (a mio avviso insuperato) resta la Storia della Russia sovietica, di E. H. Carr, Einaudi, 1964-1978, 7 voll. (il V e il VI scritti insieme a R. W. Davies). Si veda inoltre A. Graziosi, L’unione sovietica 1914-1991, Il Mulino, 2011. Per una visione vicina a quella di Trockij si rimanda a C. Bettelheim, Les luttes de classes en URSS, Seuil-Maspero, 1974 (dove l’Unione sovietica è definita “capitalisme d’état … une forme modifiée d’existance de la bourgeoisie”); per un approccio comparato con altri regimi comunisti: L J. Cohen e J. P. Shapiro (eds) Communist systems in comparative perspective, Anchor Books, 1974. Sull’arretratezza della Russia si veda A. Gerschenkron, Il problema storico dell’arretratezza economica, Einaudi, 1965. Sull’economia sovietica si rimanda ad A. Nove, An economic history of the URSS 1917-1991, Penguin, 1991. Sugli stermini dello stalinismo vedi il classico R. Conquest, Il grande terrore. Gli anni in cui lo stalinismo sterminò milioni dei persone, BUR, 2016. Per quanto riguarda lo sfondo culturale tra la fine dell’Ottocento e l’affermazione del bolscevismo come regime totalitario si rimanda a S. Caprio, G. Codevilla e P. P. Poggio, La rivoluzione russa. Intellettuali e potere, Jaca Book, 2017. Sul Gulag in generale una delle migliori inchieste è quella di A. Applebaum, Gulag. Storia dei campi di concentramento sovietici, Mondadori, 2017; si veda infine S. P. Mel’Gunov, Il terrore rosso in Russia (1918-1923), Jaca Book, 2010. Arrestato dalla Čeka e interrogato nelle segrete della famigerata Lubjanca è però al momento alquanto vicino ai bolscevichi. Viene però arrestato altre quattro volte, quindi si rifugia all’estero, dove nel 1923 pubblica (in russo) a Berlino questo libro, una cronaca di prima mano del “terrore rosso” che si protrarrà, con più o meno intensità, sino al crollo dell’URSS. Due grandi classici sono: A. Solženicyn, Arcipelago Gulag, Osca Mondadori, 2017 e V. Šalamov, I racconti di Kolyma, Einaudi, 1999 (la Kolyma è la Siberia dell’est, dove v’erano parecchie decine di lager e di campi di lavoro forzato. Giustamente la Applebaum ha sostenuto che il regime sovietico aveva reintrodotto la schiavitù come sistema per ottenere oro, costruire ferrovie in condizioni estreme, dove la morte era quasi una certezza). Sempre importante per le precoci e peculiari caratteristiche del populismo russo F. Venturi, Il populismo russo, Einaudi, 1959, 2. voll.. Per un raffronto con il nazismo si rimanda a I. Kershaw e M. Lewin (a cura), Stalinismo e nazismo. Dittature a confronto, Editori Riuniti, 2002 e H. Rousso (a cura) Stalinismo e nazismo. Storia e memorie comparate, Bollati Boringhieri, 2001.. Più in generale, sulla storia russa sino alla rivoluzione: V. Gutermann, Storia della Russia, La nuova Italia, 1963. Si veda infine N. Addario, Modernità antiliberale. Reazioni romantiche e pensiero politico antisistema nell’Europa di Otto e Novecento, Mimesis, 2019 (specie i capp. 8 e 13, dedicati rispettivamente al nazismo e al comunismo come ideologie totalitarie). Resta importante per lo studio delle “diverse vie” alla modernizzazione, che portano o alla democrazia oppure alle dittature. B. Moore jr., Le origini della dittatura e della democrazia. Proprietari e contadini nella formazione del mondo moderno, Einaudi, 1969.
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