
16 Apr Con la maternità surrogata serve la tutela del ‘best interest’ del minore
di Emanuele Rossi
Come regolare le conseguenze dell’esercizio di pratiche di maternità surrogata svolte in Paesi in cui ciò è consentito, da parte di Paesi in cui ciò è vietato? In altri termini: come può l’Italia (ad esempio) sanzionare coloro che si recano in India o in California e tornano con un bambino o una bambina avuto da una donna che ha messo loro il proprio utero a disposizione (a pagamento)?
Regolare le pratiche di maternità surrogata
Ricordiamo al riguardo che le posizioni che i diversi Stati adottano sul punto sono assai divergenti: a fronte di Paesi che consentono tali pratiche e ne regolano il riconoscimento anche a fini giuridici (ad esempio con la trascrizione dell’atto di nascita in cui vengono registrati come genitori coloro che stipulano il contratto con la donna che mette a disposizione il proprio corpo mediante la fecondazione), ve ne sono altri che le considerano alla stregua di violazioni gravi del valore della dignità umana.
Recentemente, in Spagna, l’accordo tra Partito socialista e Podemos ha ribadito in modo inequivoco il divieto di pratiche di maternità surrogata: “Decimos NO a los vientres de alquiler. Los vientres de alquiler socavan los derechos de las mujeres, especialmente de las más vulnerables, mercantilizando sus cuerpos y sus funciones reproductivas. Y por eso, actuaremos frente a las agencias que ofrecen esta práctica a sabiendas de que está prohibida en nuestro país”.
In Italia – merita ricordare – sussiste un divieto esplicito, penalmente sanzionato, contenuto nella legge n. 40/2004 (punibile con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro). Inoltre, l’art. 21 della Convenzione di Oviedo, recepita nel nostro Paese con legge 28 marzo 2001 n. 145, stabilisce che “Il corpo umano e le sue parti non debbono essere, in quanto tali, fonte di profitto”: principio che dovrebbe escludere il ricorso alla surrogazione di maternità perlomeno in tutti i casi in cui ciò sia determinato da un compenso di tipo economico (che costituiscono la normalità).
Dunque la situazione sembra chiara e senza possibilità di equivoci. Ma non è così. E non lo è soprattutto per la sorte dei bambini concepiti in base a tale pratica: perché di fronte al desiderio di avere un figlio o una figlia, due persone (che siano etero o omosessuali non ha importanza) potrebbero anche accettare di subire le sanzioni (economiche o penali), pur di soddisfare il proprio desiderio. Per essi, la sanzione più grave sarebbe quella di perdere quella creatura. E questo sarebbe il vero strumento di deterrenza per disincentivare il ricorso alle pratiche di utero in affitto.
Ma questa soluzione è complessa e non (sempre) auspicabile, né giuridicamente perseguibile, per una serie di ragioni che alcune vicende chiaramente evidenziano.
Il caso Mennesson e i diritti del minore
Con una sentenza degli ultimi mesi del 2019, la Corte di cassazione francese è tornata sul caso di due coniugi francesi, regolarmente coniugati (e di sesso diverso), che parecchi anni fa stipularono in California un accordo con una donna la quale, ricevendo con fecondazione eterologa il seme del marito, fecondato con i gameti di una donna ovo-donatrice (diversa dalla moglie del donatore maschio ed anche da quella che ha prestato il proprio utero), dette alla luce due gemelle.
Queste due bambine furono registrate come figlie dei coniugi francesi da parte dello Stato della California, che riconosce il rapporto legale di filiazione che si instaura tra il minore e il soggetto che, stipulando in qualità di committente il “contratto” di gestazione per conto terzi, è considerato responsabile della sua nascita, anche se non ha alcun legame biologico con il nato. Pertanto, nel caso in questione, il padre “riconosciuto” era anche il padre biologico (avendo donato il proprio seme), mentre la madre “riconosciuta” era quella che viene definita come “madre intenzionale”, cioè colei che aveva innestato il procedimento che ha portato alla nascita delle due gemelle.
Dunque lo Stato della California attribuì a entrambi i coniugi francesi lo status di genitori delle neonate, e di conseguenza le bambine furono registrate come figlie della coppia: tale certificato di nascita è stato poi trascritto dal consolato francese a Los Angeles, ma la Corte d’appello di Parigi annullò la trascrizione.
I coniugi si rivolsero alla Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale nel 2014 condannò la Francia, ritenendo che in base alla legislazione vigente, nell’ordinamento francese i bambini nati all’estero mediante surrogazione di maternità vengono a trovarsi “in una situazione di incertezza giuridica”, in quanto il mancato riconoscimento del rapporto genitoriale con i genitori “intenzionali” produce effetti non soltanto sulla sfera dei (mancati) genitori stessi, ma anche su quella dei figli, violando il loro diritto al rispetto della vita privata, in quanto impedisce loro di definire i contenuti essenziali della propria identità, compresi i rapporti di parentela.
In base a un successivo “parere” richiesto di nuovo ai giudizi di Strasburgo da parte della Corte di Cassazione francese, la Grande Camera della Corte di Strasburgo (in data 10 aprile 2019) ha enunciato un principio di carattere generale, e cioè che il rispetto dell’art. 8, e quindi il diritto del minore al rispetto della propria vita privata, ha valore sovraordinato rispetto alla discrezionalità che va riconosciuta agli Stati in materia: e che pertanto lo Stato francese ha l’obbligo di garantire un riconoscimento legale della relazione fra il minore e la madre d’intenzione. In sostanza, dunque, secondo la Corte EDU, l’ordinamento statale deve garantire il riconoscimento giuridico del rapporto che si instaura tra genitori “di intenzione” e figli nati mediante surrogazione di maternità: come operare tale riconoscimento è tuttavia rimesso alla valutazione degli Stati.
A questo punto la Corte di cassazione francese ha “tagliato la testa al toro”, evitando di ricercare possibili soluzioni alternative, anche in considerazione del lasso di tempo trascorso dal momento del parto delle gemelle (che nel frattempo avevano raggiunto i 19 anni!). In sostanza, la Corte francese ha reso definitiva la trascrizione dell’atto di nascita (californiano) delle due gemelle.
La soluzione “italiana”
Fin qui, dunque, la vicenda francese sul caso Mennesson (questo il nome dei due coniugi che hanno dato origine al caso), sulla quale pesa, evidentemente, la particolarità della situazione (due coniugi eterosessuali, due figlie ormai maggiorenni, ecc.). Merita ribadire, al riguardo, che tale decisione è sì conseguenza della posizione assunta dalla Corte EDU, ma la soluzione adottata non è l’unica possibile. Infatti, come detto, la Corte di Strasburgo ha affermato la necessità di tutelare il minore riconoscendo il rapporto con i genitori intenzionali, ma ha rimesso agli Stati la scelta di quali modalità possono essere più convenientemente adottate.
Ed infatti la Corte di cassazione italiana, con una decisione di pochi giorni successiva al parere reso al giudice francese, è pervenuta a una soluzione diversa (Cass., sez. unite, 8 maggio 2019, n. 12193). In questo caso la vicenda riguardava due persone di sesso maschile, che avevano contratto matrimonio in Canada e colà erano ricorse alla procreazione medicalmente assistita, mediante il coinvolgimento di due donne: una aveva messo a disposizione gli ovociti, l’altra aveva provveduto alla gestazione di due minori. Uno dei due uomini aveva messo a disposizione il proprio seme.
Il provvedimento dello Stato estero aveva accertato il rapporto di filiazione tra i minori ed entrambi i componenti la coppia (quello anche con quello non donatore: il cosiddetto genitore d’intenzione). Tuttavia la possibilità di trascrivere tale rapporto è stata ora negata dalla Cassazione, che ha ritenuto il divieto della surrogazione di maternità (sancito dall’art. 12, 6° comma, L. 40/2004), qualificabile come “principio di ordine pubblico, in quanto posto a tutela di valori fondamentali, quali la dignità umana della gestante e l’istituto della adozione”. Ma l’impossibilità di trascrizione dell’atto non significa che l’interesse del minore possa rimanere privo di tutela: la Corte di cassazione italiana ritiene al riguardo che tale interesse possa essere perseguito “mediante il ricorso ad altri strumenti giuridici, quali l’adozione in casi particolari (art. 44, 4° comma, lett. D, L. n. 184/1983)”.
In sostanza, dunque, (almeno) nell’ipotesi in cui uno dei componenti la coppia (non importa se questa sia etero o omosessuale) sia genitore biologico, l’altro può essere riconosciuto come genitore: non però mediante pura e semplice trascrizione dell’atto di nascita redatto all’estero, bensì mediante – qualora ne ricorrano le condizioni – il ricorso all’adozione (che richiede, lo si ricorda, la verifica di particolari e specifiche idoneità).
Personalmente ritengo che la soluzione “italiana” sia più adeguata alle circostanze: sebbene debba rilevarsi l’estrema difficoltà di negare l’adozione quando sia già passato molto tempo dalla nascita e quindi il rapporto di convivenza si sia consolidato (ricordiamo, come già detto, che nel caso francese le due figlie convivevano con la coppia da 19 anni, mentre nella vicenda italiana il tempo trascorso tra la nascita e la pronuncia della Cassazione era di 8 anni).
Una doppia e contrastante esigenza
Tornando dunque alla domanda posta inizialmente, emerge da tali vicende come il nodo di fondo sia costituito da una doppia e contrastante esigenza: da un lato, impedire – negli Stati in cui la pratica della surrogazione di maternità è vietata – il ricorso a tale pratica, considerata negativamente per una serie di ragioni; dall’altro, tutelare il minore che, senza nessuna colpa, è stato concepito da una donna e accolto da altre persone, che magari lo hanno accudito per un periodo di tempo e gli hanno quindi creato un ambiente familiare dal quale potrebbe essere pregiudizievole uscire.
Potremmo dire, “figli di una colpa”, ma nondimeno da tutelare pienamente (anche perché in alcun modo responsabili di quella – eventuale – “colpa”), in forza del best interest da garantire a tutti i minori (come stabilisce l’art. 24, par. 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea “in tutti gli atti relativi ai bambini (…) l’interesse superiore del bambino deve essere considerato preminente”).
Questa è dunque l’alternativa spesso “tragica” che si pone: preferire soluzioni che facciano applicazione della scelta di opposizione netta a pratiche di violazione della dignità delle donne (anche nell’ipotesi in cui queste siano consenzienti: aspetto che apre ad altre prospettive delicate), magari allontanando il bambino da quelle persone che ne hanno voluto la nascita e che lo hanno accudito per un po’ di tempo (anche 19 anni, come nel caso francese); oppure, viceversa, privilegiare l’interesse del minore ad avere comunque una famiglia e una stabilità, in certa misura passando sopra a come è venuto al mondo?
La Corte EDU, nel parere sopra indicato (ma anche in precedenti decisioni), ha chiaramente indicato che è la seconda via quella da privilegiare: ma ciò deve far riflettere su quali armi gli ordinamenti possano utilizzare per impedire o limitare il ricorso alla surrogazione di maternità, specie quando questa si realizza all’estero (cioè in ordinamenti che consentano il ricorso a tale pratica).
Il tema della maternità surrogata, segnato dall’intreccio di numerosi profili eticamente sensibili, mette a dura prova la tenuta delle nostre categorie giuridiche e valoriali.
Emanuele Rossi è professore ordinario di Diritto costituzionale alla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa. Dirige il Laboratorio di ricerca WISS (Welfare, Innovazione e Sviluppo) e la collana, curata da tale Laboratorio, per il Mulino, e la rivista Forum di Quaderni costituzionali. E’ autore di numerose pubblicazioni su temi vari di diritto costituzionale.
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