
17 Nov Contro il proporzionale
di Enrico Morando
“Ogni voto deve essere contato”. Lo abbiamo sentito ripetere centinaia di volte durante le ore e i giorni dell’estenuante scrutinio delle schede delle presidenziali americane. E ogni volta -non solo quando i conteggi parziali erano a favore di Trump, ma anche dopo, quando la cavalleria amica dei voti anticipati e di quelli per posta era in procinto di arrivare- abbiamo pensato: “È ovvio. Ci mancherebbe non fosse così…”.
Il caso americano
Sulle ovvietà -quando sono veramente tali- non si perde tempo a riflettere. In questo caso, però, non è inutile chiederci perché ogni voto deve essere contato, quale che sia stata la sua forma di espressione (purché legittima). La risposta è persino più ovvia della domanda: perché -Stato per Stato- ogni voto poteva risultare decisivo per assegnare all’uno o all’altro i grandi elettori dello Stato stesso e, dunque, contribuire in modo determinante a decidere chi, tra i candidati, dovesse diventare Presidente degli Stati Uniti d’America.
In sostanza, ogni voto deve essere contato, per la buona ragione che ogni voto conta.
É la straordinaria potenza mobilitatrice di questa banale verità -ogni singolo elettore poteva effettivamente decidere con il suo voto individuale e segreto chi, tra Trump e Biden, doveva diventare il 46º Presidente-, che spiega perché un numero senza precedenti di cittadini americani ha deciso che doveva essere della partita, doveva partecipare. Certo, l’esasperata polarizzazione del conflitto politico interno -portata al parossismo da Trump e dall’acritico accomodamento del GOP alla sua cultura politica, ai suoi metodi e al suo estremismo-, ha creato l’ambiente nel quale ogni cittadino ha sentito “il dovere” di andare a votare, quasi che non farlo equivalesse ad una diserzione di fronte all’incombere del nemico. Ma la regola politico-istituzionale che ha consentito agli attivisti di ognuna delle due parti di sollecitare con tanto successo alla partecipazione elettorale è stata l’ovvietà da cui siamo partiti: “Vieni a votare perché è vero che il tuo voto conta, decide. E il sistema garantisce che sarà contato”.
Il potere di decidere del cittadino elettore
Se il sistema politico-istituzionale è organizzato in modo tale da mettere nelle mani del cittadino elettore il potere effettivo di decidere -con il suo voto individuale e segreto- sia sulla rappresentanza (la composizione del Parlamento), sia sulla formazione del Governo, una buona base di partecipazione al voto è comunque assicurata. La qualità dell’offerta politica, la forza (o la debolezza) delle leadership individuali e collettive che si confrontano, il loro carattere più o meno divisivo, la profondità dei problemi aperti nel Paese e la qualità delle soluzioni prospettate dai contendenti, l’incertezza o meno dell’esito, potranno aggiungere qualcosa (a volte, come in questo caso negli Stati Uniti, anche molto). Ma un “buon” risultato democratico, legittimante per il vincitore, sarà stato comunque raggiunto.
Non è così quando il sistema politico-costituzionale riconosce al cittadino elettore solo il potere di assegnare ai numerosi partiti in campo -ciascuno con la sua proposta di leadership e di programma- le carte con cui presentarsi al tavolo (il Parlamento) dove si gioca la partita decisiva sulla formazione del nuovo Governo. Quando, in poche parole, si usa un sistema elettorale proporzionale (per corretto che sia da clausole di sbarramento, di solito -almeno in Italia- alte nei disegni di legge e basse nelle leggi effettivamente approvate). Il voto, in questo caso, è sempre individuale e segreto, ma è meno “potente“, perché di fatto privo della capacità di decidere immediatamente (cioè, in modo non mediato dai partiti che lo usano e lo interpretano), sul Governo.
Un indebolimento del voto che -anche quando non induce all’astensione (se la sbrighino “loro“, io non centro)- incoraggia ad usarlo per la protesta e l’insulto, che tutti accomuna (la V grande e rossa che campeggia nel simbolo del M5S). È vero che il principio di realtà vuole poi la sua parte, per cui capita che il principale partito italiano alle elezioni politiche del 2018 sia impegnato da un anno -nella sua azione di governo col PD – a fare il contrario di ciò che era previsto dal suo programma elettorale. Nella specifica contingenza italiana, meglio così: grazie a questo brusco mutamento di posizione politica abbiamo evitato di rompere con i nostri partner europei e contribuito ad aprire la strada verso quella capacità fiscale dell’Area euro, che i due partiti vincitori delle elezioni del 2018 proponevano di abbandonare (“recuperare sovranità monetaria“: così Lega e M5S nei loro programmi). Ma è difficile pensare che la credibilità della politica come tale ne sia uscita rafforzata, agli occhi dei cittadini che in due anni hanno visto formarsi, con lo stesso Presidente, due governi, uno con la destra e l’altro con la sinistra; e ben 110 parlamentari (110 in due anni) cambiare casacca politica.
Il tradizionale bipolarismo tra centrodestra e centrosinistra
Le elezioni regionali e comunali che si sono susseguite dopo il 2018, hanno confermato che anche i cittadini italiani -quando sono messi in grado di decidere col voto sulla formazione del Governo- ragionano sulla qualità della leadership e dei programmi, oltre che sulla performance dei governi uscenti, e decidono per un campo o per l’altro, lungo il tradizionale bipolarismo tra centrodestra e centrosinistra. Ed è facile prevedere che altrettanto avverrà nelle grandi città chiamate al voto nella primavera prossima.
Ecco perché credo che sia un gravissimo errore -non soltanto per il PD e i riformisti impegnati nella difficile azione di governo con il M5S, ma per il Paese- l’approvazione di una nuova legge elettorale proporzionale. Non si tratta (solo) di mantenere una coerenza rispetto al voto plebiscitario degli italiani a favore del maggioritario… Per quanto, il totale rovesciamento dell’esito di un referendum non sia mai una buona cura per la grave malattia di disaffezione degli italiani dalla Politica e dai suoi interpreti (o vale solo per il referendum sul finanziamento pubblico dei partiti?). Né della fedeltà a principi astratti (in questo caso, il maggioritario), che trasforma “la politica in speculazione, ricerca filosofica, dottrina“ (Bettini Il Foglio 21-8-20). Si tratta del Paese e della sua drammatica esigenza di stabilità e di cambiamento.
Stabilità e cambiamento
Stabilità e cambiamento: non è una contraddizione. Il Paese ha bisogno di stabilità, perché vive una esperienza drammatica, “per le decine di migliaia di persone morte, per i ragazzi che non vanno a scuola, per le persone che perdono il lavoro e per le imprese che chiudono, per il grande debito che stiamo contraendo” (Veltroni la Repubblica 10-11-20). Dunque, per la stessa ragione per cui è giusto rivendicare la bontà della scelta che ha portato il PD a far nascere l’attuale Governo e affermare ora l’esigenza che questo Governo conduca il Paese fino all’esito naturale della legislatura, perché questa è l’unica stabilità oggi possibile…, per questa stessa ragione è almeno altrettanto giusto rivendicare per il Paese, per la prossima legislatura, una stabilità qualitativamente più elevata: quella che può nascere da un voto degli italiani che sia in grado di fornire piena legittimità politica ad un Governo che, guidato dal leader del partito o della coalizione vincente, possa credibilmente proporsi di durare per tutta la legislatura, attuando il programma presentato agli elettori prima del voto.
Ora, se è vero che non esiste sistema elettorale maggioritario che sia infallibilmente in grado di garantire questo tipo di “stabilità decidente“, è almeno altrettanto vero che, per definizione, le deboli coalizioni che nascono non prima, ma dopo il voto (dopo che, per dirla con Bettini, i partiti avranno avuto “la possibilità di esprimere pienamente di fronte agli elettori le loro caratteristiche“, predisponendosi “dopo il risultato elettorale, ad un compromesso di coalizione“), non sono neppure in grado di prometterla credibilmente.
Maggioritario vs proporzionale
Il Paese ha bisogno anche di cambiamento: nessuno dei problemi che ne affaticano il cammino -dalla mancata crescita economica all’accentuarsi della disuguaglianza; dal cattivo funzionamento della PA al deficit di formazione del capitale umano; dal divario centronord-sud all’eccesso di pressione fiscale sui produttori; dall’ingigantirsi del debito pubblico all’incapacità dello Stato di realizzare gli investimenti infrastrutturali che pure programma e finanzia- è nato con la pandemia, che li accentua e li aggrava tutti, fino a mettere a rischio la tenuta del Paese.
È inutile farsi illusioni: nessuno di questi fondamentali fattori di difficoltà potrà essere rimosso senza un progetto di cambiamento molto radicale, messo a base di una lunga stagione di governo riformista. Ma né l’uno, né l’altra potranno mai essere prodotti dai “contratti“ faticosamente conclusi, dopo il voto, da partiti che decidono di dar vita al governo dopo essersi duramente contrastati nel corso della campagna elettorale. A partire dalla guida del governo -certamente “altra“ rispetto a quelle avanzate da ogni singolo partito (magari col nome scritto addirittura nel simbolo)-, per finire al programma (risultato di una somma tra scelte incompatibili -modello giallo verde-, o di una sottrazione: si tolgono tutte le misure “bandiera“ di ciascuno dei partiti che entrano nella coalizione), non potrà che trattarsi di governi strutturalmente deboli, con orizzonte temporale di breve termine e, per ciò stesso, incapaci sia di progettare, sia di realizzare il cambiamento necessario.
Come funziona il sistema tedesco
Già sento il coro di obiezioni: “non sempre, col proporzionale, le cose vanno così male. Guarda la Germania: quello cui lavoriamo è proprio il sistema tedesco“. Guardiamola, allora, questa Germania: legge elettorale proporzionale con sbarramento al 5%. In Italia faremo altrettanto? Col voto determinante (per approvare la nuova legge elettorale e per continuare a tenere in vita il Governo) di partiti che non hanno nessuna credibile speranza di raggiungere questa soglia?
Non sembra probabile, ma proseguiamo: membri del Parlamento in numero variabile, perché nei collegi uninominali il primo classificato viene sempre eletto, sicché il riproporzionamento avviene aumentando i seggi da assegnare a liste bloccate nazionali? Noi abbiamo appena fissato -con tanto di referendum- i numeri di Camera e Senato. Dunque, sul punto, non possiamo copiare la Germania. Non si tratta di un aspetto decisivo?
Sia pure, ma si riconosca che in questo modo ci si allontana dal modello; che poi abbandoniamo definitivamente quando siamo costretti a prendere atto che non ci sono le condizioni per introdurre, cambiando la Costituzione, la sfiducia costruttiva. E, soprattutto, quando prendiamo atto che non è in vigore, in Italia, una convenzione costituzionale-cruciale per il sistema tedesco-, secondo la quale il leader del maggiore partito della coalizione -proposto agli elettori come candidato cancelliere- è automaticamente il capo del nuovo governo. Una regola che non ammette eccezioni e che è posta a presidio anche dell’asse del programma di governo. Esso è certamente frutto di un minuzioso accordo tra le forze della coalizione, ma si costruisce attorno al posizionamento ideale e programmatico della leadership legittimata dal voto e accettata da tutta la coalizione.
Morale della favola: l’Italia non è la Germania, e il proporzionale che si può tornare ad avere in Italia non assomiglia, neppure alla lontana, al modello tedesco.
“Altrimenti vince Salvini”
I sostenitori della svolta (a rigore, sarebbe meglio chiamarla inversione) verso il proporzionale hanno però in serbo l’argomento che tutti li sovrasta: torniamo al proporzionale, altrimenti vince Salvini. Lo ha sostenuto, in contraddittorio con Claudia Mancina, Goffredo Bettini: “Il realismo politico è prendere atto che si può perdere? Sì: quando non è in gioco la natura democratica del Paese. A quel punto una questione prevale su tutto… Questo va fatto anche in condizioni quasi impossibili“. Eccolo, l’orco cattivo. Che giustifica ogni soluzione -compresa quella di cambiare con maggioranze ristrettissime, per l’ennesima volta, il sistema elettorale- sia capace di impedirne la presa del potere: con regole elettorali maggioritarie vince Salvini. Dunque, cambiamole, tornando al proporzionale.
Ripeto: l’Italia governata da Salvini ha corso -e continuerebbe a correre domani- rischi enormi. E i rapporti di forza -attuali e prevedibili nel medio tempo- all’interno del centro-destra attestano la sua egemonia nella coalizione Lega-Fratelli d’Italia-Forza Italia, che, ad oggi, ha elevate probabilità di risultare maggioritaria.
Questa consapevolezza non mi induce a ritenere né giusta, né utile una iniziativa dell’attuale maggioranza di governo per cambiare -unilateralmente- le regole del gioco. Un po’ perché credo che sia un approccio da rifiutare in via di principio. Un po’ perché i tentativi in extremis di cambiare la legge elettorale per impedire la vittoria dell’avversario hanno sempre portato chi li ha compiuti alla sconfitta. E un po’ (di più) perché penso che questo tentativo costituisca il miglior viatico… per la vittoria di Salvini. Vediamo rapidamente perché.
Ma il proporzionale avvantaggia Salvini
Il primo vantaggio, non particolarmente grande, ma significativo, verrà a Salvini dal farsi difensore -da subito, già nei giorni della discussione parlamentare sulla legge per il ritorno al proporzionale- della acquisita abitudine degli italiani a votare per il governo, oltre che per eleggere la rappresentanza: Sindaci e Presidenti di Regione, da quasi 30 anni. Ma anche Presidente del Consiglio: c’è qualcuno che pensa che i Presidenti della Repubblica pro-tempore avrebbero potuto incaricare di formare il governo qualcuno diverso da Berlusconi nel 1994, da Prodi nel 1996, da Berlusconi nel 2001, da Prodi nel 2006, da Berlusconi nel 2013…? Salvini avrebbe un terreno fertile dove seminare la sua protesta contro lo scippo del potere del “popolo“ di decidere col voto chi governa.
Il secondo vantaggio è quello che gli risparmia la fatica di decidere, prima del voto, sulla leadership del centro-destra: potrà proporre come cosa ovvia, lui sì, la soluzione “tedesca“-ognuno presenta agli elettori il suo candidato Presidente del Consiglio: chi avrà più voti e più seggi, sarà capo del governo- e avrà la ragionevole certezza che sarà lui la personalità indicata all’inquilino del Colle per l’incarico di formare il governo.
Il terzo e più importante vantaggio deriva dal secondo: se prima del voto il centro-destra designasse Salvini come proprio leader e candidato Presidente del Consiglio -e qualsiasi sistema anche blandamente maggioritario lo obbligherebbe a farlo, pena una drastica caduta di credibilità e di appetibilità elettorale-, le chances di vittoria elettorale del centrodestra si ridurrebbero drasticamente. Salvini e la sua Lega sono molto forti, ma sono e restano -malgrado i tentativi di Giorgetti di mascherare questa cruda realtà-, forze estremiste e antisistema, in particolare in tema di rapporto con l’Unione Europea e l’accelerazione finalmente in atto nel processo di integrazione. E la competizione per il governo, tra due schieramenti che abbiano più o meno le stesse probabilità di vincere, viene quasi sempre persa da quello che ha selezionato una leadership estremista, antisistema (o percepita come tale: Sanders per il Partito Democratico americano; Corbyn per il Labour).
“Quasi sempre“ non significa sempre? Certo. Ma il ritorno al proporzionale ci propone -come ho cercato di dimostrare- un rischio molto più elevato.
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