Cooperazione nel Mediterraneo: a 25 anni dalla Dichiarazione di Barcellona - Fondazione PER
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Cooperazione nel Mediterraneo: a 25 anni dalla Dichiarazione di Barcellona

di Rosario Sapienza

 

Presi com’eravamo tutti da ben più concrete urgenze, è passato quasi sotto silenzio il venticinquesimo anniversario della Dichiarazione di Barcellona, adottata il 28 novembre 1995, che avviò il progetto di una cooperazione multilaterale tra gli Stati dell’Unione europea e alcuni Paesi del Mediterraneo. L’anniversario è stato celebrato dalla Unione per il Mediterraneo con la solennità consentita dalla pandemia dilagante, ossia con una conferenza on line dei Ministri degli Esteri degli Stati membri.

L’Unione per il Mediterraneo, che porta avanti oggi la strategia della cooperazione nell’area avviata a Barcellona, è una organizzazione internazionale creata nel 2008 con una conferenza di fondazione tenutasi a Parigi e che raccoglie oggi i 27 Stati membri dell’Unione, l’Unione stessa e 15 Stati mediterranei (Albania, Algeria, Bosnia-Erzegovina, Egitto, Israele, Giordania, Libano, Mauritania, Montenegro, Principato di Monaco, Marocco, Palestina, Siria, Tunisia e Turchia).

In questa occasione sono state ribadite le ragioni della cooperazione nell’area del Mediterraneo ed è stato pure deciso che il 28 novembre sarà d’ora in poi celebrata la Giornata Internazionale del Mediterraneo, al fine di riaffermare e rafforzare l’idea di una comune identità dei popoli che vivono lungo le sponde del Mediterraneo.

Il fatto merita qualche parola di commento, sia pur tardiva. È frequente, infatti, e non da ora peraltro, riferirsi all’area del Mediterraneo come ad un sistema integrato, qualcosa all’interno del quale possa utilmente inquadrarsi ogni attività di cooperazione. È proprio in relazione a questa affermazione che conviene esprimere qualche perplessità.

Tanto per cominciare sul versante della reale … comunanza dei valori condivisi.  Già nel preambolo della Dichiarazione di Barcellona che nel 1995 troviamo ampi riferimenti all’esigenza di porre la salvaguardia della democrazia e dei diritti dell’uomo alla base della cooperazione euro-mediterranea. E qui cominciano i problemi perché in fatto di democrazia e diritti dell’uomo i Paesi dell’Unione europea e i Paesi della sponda sud del Mediterraneo hanno idee differenti, in alcuni casi profondamente differenti. Ciò dipende sicuramente da una differente concezione in tema di organizzazione complessiva dei rapporti fra Stato e società civile. È notorio infatti che alcuni Paesi della sponda sud del Mediterraneo, ove più forte è l’incidenza dell’islam, possiedono una organizzazione pubblica che non può paragonarsi a quella in uso nei Paesi di democrazia occidentale e che si riverbera anche sulle differenti concezioni in materia di protezione dei diritti dell’uomo. E ciò dipende da differenti visioni politiche e culturali. Pensiamo ai diritti della donna, classicamente un tema divisivo nelle relazioni tra l’Europa e l’Islam.

Per non dire poi dell’esistenza nell’area di regimi decisamente autoritari e di politiche repressive, clamorosamente in violazione dei diritti fondamentali, quale che ne sia la concezione. A ciò si aggiunga che, dal punto di vista tecnico-giuridico, gli strumenti che possono utilizzarsi per la costruzione di questo ipotizzato Sistema Mediterraneo sono tali da produrre frammentazione di regimi, piuttosto che coordinamento. Essi sono strumenti legislativi nazionali, trattati internazionali bilaterali e multilaterali, atti dell’Unione europea che talvolta non riesce nemmeno a coordinare le proprie differenti strategie. Strumenti tutti che costruiscono regimi settoriali che non è sempre facile coordinare fra di loro, ma che anzi contribuiscono alla frammentazione del panorama giuridico.

Occorre dunque che ci si metta al lavoro tanto sul versante politico-diplomatico, quanto su quello del coordinamento normativo perché possa emergere quel quadro d’insieme, quel Sistema Mediterraneo senza il quale i pur lodevoli sforzi della cooperazione nell’area mediterranea non potranno indurre reali mutamenti.

E, a proposito di cooperazione nel Mediterraneo, una ulteriore considerazione deve necessariamente riguardare il carattere, diciamo così, eccessivamente eurocentrico di questa cooperazione. La costruzione di un’area di cooperazione nel Mediterraneo, infatti, è dovuta principalmente all’iniziativa, certamente lodevole, dell’Unione europea. E questa circostanza ha fatto sì che sulla costruzione di istituzioni comuni e sui livelli e le modalità di cooperazione abbiano finito per riverberarsi tutte le contraddizioni e i limiti della integrazione europea.

La cooperazione nel Mediterraneo è parte integrante della politica di vicinato dell’Unione europea prevista dall’articolo 8 del Trattato sull’Unione europea, a termini del quale:

“1.   L’Unione sviluppa con i paesi limitrofi relazioni privilegiate al fine di creare uno spazio di prosperità e buon vicinato fondato sui valori dell’Unione e caratterizzato da relazioni strette e pacifiche basate sulla cooperazione.

2.   Ai fini del paragrafo 1, l’Unione può concludere accordi specifici con i paesi interessati. Detti accordi possono comportare diritti e obblighi reciproci, e la possibilità di condurre azioni in comune. La loro attuazione è oggetto di una concertazione periodica”.

Ora, questo articolo rappresenta la base giuridica di tutte le iniziative che l’Unione svolge anche nel Mediterraneo, che è una delle due principali aree alle quali si applica la politica di vicinato (l’altra è quella dei Paesi del cosiddetto Partenariato Orientale che interessa Armenia, Azerbaigian, Bielorussia, Georgia, Moldova e Ucraina). E già dalla lettura di questo articolo 8 si evince che la politica di vicinato dell’Unione non solo viene vista come qualcosa che l’Unione “concede” ai Paesi coinvolti in queste “relazioni privilegiate”, ma come un’occasione di riverberazione delle politiche europee al di fuori dell’Unione stessa. Si dice infatti che la politica di vicinato ha come scopo “al fine di creare uno spazio di prosperità e buon vicinato fondato sui valori dell’Unione”.

Quegli stessi valori, di cui all’articolo 2 del Trattato sulla Unione europea, secondo il quale:

L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini”.

Valori che, lo abbiamo detto sopra, sono visti e interpretati in maniera diversa dai vari Paesi che sono impegnati nella complessa vicenda della costruzione dell’area di cooperazione nel Mediterraneo. Non ci si deve dunque meravigliare se l’intero progetto viene guardato con sospetto e cautela dai Paesi extra-europei coinvolti. A ciò si aggiunga che gli Stati europei non hanno mancato di operare con tratti di ambiguità in relazione a tutto questo dossier mediterraneo. Si pensi solamente al fatto che, mentre l’Unione per il Mediterraneo cerca faticosamente di costruire spazi di dialogo e comprensione, l’Unione europea e per essa i suoi Stati membri hanno continuato e ancora continuano a gestire, ad esempio, una politica migratoria evidentemente e platealmente mirata più alla difesa delle frontiere europee che all’accoglienza dei migranti.

Certamente, c’è ancora tanto lavoro da fare.

Rosario Sapienza
sapienza@per.it

Direttore di Autonomie e Libertà in Europa, contenitore di iniziative e ricerche sulla protezione dei diritti umani nei diversi territori europei. Professore ordinario di diritto internazionale nell’Università di Catania, ha dedicato particolare attenzione alle politiche di riequilibrio territoriale dell’Unione europea, collaborando con la SVIMEZ. E’ vicepresidente di Coesione & Diritto, associazione per la tutela dei diritti umani sul territorio.

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