Coronavirus, come si conciliano prudenza e ottimismo - Fondazione PER
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Coronavirus, come si conciliano prudenza e ottimismo

di Enrico Bucci

 

Alcuni accusano coloro che, per metodo, utilizzano prudenza, di essere inguaribili catastrofisti. A loro dedico qualche riga.

Vorrei innanzitutto ricordare che la vigilanza epidemiologica che si invoca, il tener l’occhio puntato su situazioni di potenziale pericolo o il ricordare che il virus non è affatto estinto, così come il ricordare che la ritirata italiana non è completa ed è suscettibile di peggioramento, considerato l’andamento mondiale, sono tutte azioni e considerazioni che possono presupporre due atteggiamenti opposti.

Il primo atteggiamento è sostanzialmente ottimista: è quello di chi, come il sottoscritto, ritiene che vi sia possibilità di fare molto per impedire un ritorno epidemico, e punta sulla preparazione – sull’agire in tempo e bene per evitare di rivedere certe scene. Prudenza nel dar corso alle previsioni necessarie, ottimismo nel pensare che esse serviranno ad evitare il peggio e nel credere che, nonostante tutto, abbiamo la possibilità di organizzarci per bene senza buttare a mare la nostra economia, la nostra vita, la nostra scuola e con essa il futuro delle generazioni future. Il contrario di chi prospetta un’inevitabile apocalisse, insomma: una vigile, operosa e ottimistica preparazione al futuro. Il tutto, naturalmente, condito con l’inevitabile prudenza legata al metodo scientifico, che non consente di accettare comunicati stampa, senza prima aver visionato dati e basi delle affermazioni. Chiamiamo questo primo atteggiamento “prudenza scientifica”.

Il secondo atteggiamento invece è quello di chi sulla continua percezione di emergenza e di pericolo imminente guadagna consenso politico. In questo caso, mi riferisco a chi sfrutta mediaticamente i “worst cases” dei modelli, facendoli indebitamente filtrare alla stampa, e realizzando nei media uno spettacolo che ovviamente attrae, e in politica un guadagno che consente tramite la prospettazione di un’emergenza imminente sia di cancellare gli errori commessi, sia di impedire o ridurre al minimo la necessaria discussione di ciò che va fatto e di ciò che sta succedendo, sia infine di rimanere saldamente al governo, invocando una sorta di spirito di unità nazionale.
Questo secondo atteggiamento è quello che invoca la prudenza in modo generico, troncando ogni discussione, non per provvedere ed agire, in modo da mettere in sicurezza gli italiani, ma per bloccare a proprio vantaggio la vita del paese: prudenza come una clava, prudenza pretesa dai cittadini e non dalle istituzioni, prudenza che in realtà non provvede, ma dispone obblighi ed introduce assurdità per dimostrare di fare, senza in realtà procedere alle uniche cose che servirebbero davvero (dati decenti, tracciamento dei contatti di chi è infetto, medicina del territorio e ricerca) ed invece si preoccupa di definire nei dettagli la distanza da mantenere al ristorante, differenziandola da quella da tenere in spiaggia.
Chiamiamo questo secondo atteggiamento “falsa prudenza”.
La falsa prudenza, naturalmente, si nutre di scenari catastrofici – irrealistici perchè nemmeno teoricamente possibili, se non nei numeri di un modello mal applicato o francamente erroneo – fatti filtrare alla stampa e nelle televisioni per chiudere la discussione sulla ripresa della vita del paese; con il corollario che, naturalmente, questo tipo di atteggiamento previene anche l’individuazione e l’attuazione di quella “prudenza scientifica” ancorata invece ai dati e all’attuazione di misure razionali, spingendo in direzione di misure inopportune, inattuabili, casuali e francamente inadatte a fronteggiare un’epidemia esattamente quanto il non fare nulla.

Ora, sebbene faccia comodo a taluni accusare me o la maggioranza dei ricercatori del secondo atteggiamento quando ci si oppone a chi senza evidenza scientifica sostiene certe sue teorie sul virus, sull’andamento dell’epidemia o su qualunque altro argomento, il nostro atteggiamento è il primo: e non rinunceremo certo al metodo scientifico di fronte a ridicole accuse di catastrofismo, provenienti fra l’altro da chi a febbraio negava il rischio.

Di converso, chi crede che qualunque invito all’ottimismo, derivante per esempio dai progressi nella cura (che ci sono stati, e sono innegabili), dalla comprensione dell’efficacia delle misure preventive (anche questi avvenuti, pur se con ritardi notevoli) ed infine, per quel che riguarda il nostro paese, dalla discesa lunghissima della prima onda epidemica, che ci permette appunto di riorganizzarci al meglio e di affrontare il futuro, sia un invito vacuo, fa lo stesso errore della opposta fazione: ignora l’evidenza, per sostenere la propria ed altrui paura.

I ricercatori, almeno quelli che conosco io (e sono tanti), sono così: prudenti e ottimisti.

Polarizzarsi fra ottimisti e prudenti, utilizzando accuse di catastrofismo o di vacuità, non può appartenere alla discussione che ci serve per uscire non solo dall’epidemia, ma pure dalla crisi di identità in cui siamo sprofondati come paese.

Enrico Bucci
bucci@per.it

Adjunct Professor presso la Temple University di Philadelphia (dove conduce attività di ricerca sulla biologia dei sistemi del cancro). Si occupa di dati biomedici, frodi scientifiche e biologia dei sistemi complessi. Fondatore di Resis Srl, piccola azienda dedicata all’analisi dei dati scientifici, con particolare riguardo alla loro integrità. È autore di circa 80 pubblicazioni peer-reviewed e di un libro divulgativo dedicato alla frode scientifica pubblicato nel 2015 (Cattivi Scienziati, ADD editore, Torino). Collabora con Scienzainrete e con Il Foglio.Ph.D. in Biochimica e Biologia molecolare (2001), è professore aggiunto alla Temple University di Filadelfia (USA). È membro della rete SeTA.

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