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Cosa bisogna ricordare il 10 febbraio di ogni anno

di Alberto De Bernardi

 

Le foibe sono una invenzione del fascismo e una riscoperta di Berlusconi
Predrag  Matvejevic’, uno degli intellettuali croati  di maggio spicco della Jugoslavia comunista, poi dissidente e esule durante la guerra civile degli anni novanta, professore anche alla Sapienza di Roma, in occasione dell’istituzione della Gionata del Ricordo nel 2005, pubblicava sulle pagine della rivista fiumana “Novi List” questo articolo in cui metteva in evidenza i suoi dubbi su questa nuova data del calendario civile dell’Italia: dubbi che riguardavano i rischi di strumentalizzazione da parte delle destre interessate a riappropriarsi di questa ricorrenza per poter riesibire il loro armamentario ideologico fatto di nazionalismo e razzismo a disprezzo della storia e dei fatti.
Sono ritornato a questo testo perchè in questi giorni è stato riproposto da più come sintesi ancora attuale delle problematiche storiche e politiche che sottendono la Giornata del Ricordo: una festa di destra, voluta dalla destra,  da osteggiare e denunciare. Ne propongo i due brani piu significativi.
1) < Le fosse, o le foibe come le chiamano gli Italiani – scriveva –  sono un crimine grave, e coloro che lo hanno commesso si meritano la più dura condanna. Ma bisogna dire sin da ora che a quel crimine ne sono preceduti degli altri, forse non minori. Se di ciò si tace, esiste il pericolo che si strumentalizzino e “il crimine e la condanna” e che vengano manipolati l’uno o l’altro>. E proseguiva: <il 20 settembre 1920 Mussolini tiene un discorso a Pola (non scelse a caso quella città). Annuncia: “Per la creazione del nostro sogno mediterraneo, è necessario che l’Adriatico (si intende tutto l’Adriatico, ndr.), che è il nostro golfo, sia in mano nostra; di fronte alla inferiorità della razza barbarica quale è quella slava”. Il razzismo così entra in scena, seguendo la “pulizia etnica” e il “trasferimento degli abitanti”. Le statistiche che abbiamo a disposizione fanno riferimento alla cifra approssimativa di 80.000 esuli Croati e Sloveni durante gli anni venti e trenta… Gli Slavi perdono il diritto, che avevano prima in Austria, di potersi avvalere della propria lingua sulla stampa e a scuola, il diritto al predicare in chiesa, e persino l’iscrizione sulla tomba. Le città e i villaggi cambiano nome. I cittadini e le famiglie pure… Proprio in questo contesto per la prima volta si sente la minaccia delle foibe. Il ministro fascista dei lavori pubblici Giuseppe Caboldi Gigli, che si attribuì l’appellativo vittorioso di “Giulio Italico”, scrive nel 1927: “La musa istriana ha chiamato con il nome di foibe quel luogo degno per la sepoltura di quelli che nella provincia dell’Istria danneggiano le caratteristiche nazionali (italiane) dell’Istria” (“Gerarchia”, IX, 1927 ) Le “foibe” sono, quindi, un’invenzione fascista>.
2)  < Non siamo ingenui – concludeva il suo articolo Matvejevic’-   Si tratta di una mobilitazione eccezionalmente riuscita del berlusconismo nello scontro con l’opposizione, con la sinistra e le sue relazioni col comunismo che, secondo le parole di Berlusconi, ha sempre e solo portato “miseria, morte e terrore”, e persino anche quando sacrificò 18 milioni di vittime di Russi nella lotta per la liberazione dell’Europa dal fascismo. Questa campagna meditata è iniziata 5-6 anni fa, al tempo in cui fu pubblicato “Il libro nero sul comunismo”, distribuito pubblicamente dal premier ai suoi accoliti. Essa è condotta, pubblicamente e dietro le quinte, abilmente e sistematicamente. Il suo vero scopo non è nemmeno quello di accusare e umiliare gli Slavi, ma danneggiare i propri rivali e diminuire le loro possibilità elettorali. Ma gli Slavi – in questo caso perlopiù Croati e Sloveni – ne stanno pagando il conto>.
I punti salienti di questo impianto interpretativo giunto intatto fino a oggi e al centro della narrazione prevalente che i custodi della memoria della sinistra dal 2005 mettono al centro della rievocazione pubblica delle foibe sono dunque due. Il primo riguarda la natura delle foibe il secondo l’uso politico che ne fa la destra dopo l’inserimento della Giornata del ricorso tra le giornate memoriali della nazione.
Lo scontro tra  fascismo e antifascismo
Stiamo sul primo punto.
Le foibe nell’ottica proposta dallo scrittore croato  sono state l’esito delle violenze perpetrate dai fascisti sul confine orientale fin dagli anni venti e proseguite soprattutto dopo il ‘41 durante l’occupazione italiana in Slovenia e nei territori sotto il suo controllo dopo la spartizione della Jugoslavia tra le potenze dell’Asse. Sono quindi una reazione dell’”antifascismo” titino contro l’oppressore a cui dettero man forte le brigate garibaldine che combattevano nello stesso “fronte” e si iscrivono in quel clima di rifiuto dell’occupante italiano e fascista, di vendetta contro le ingiustizie patite, ma anche di aspettative palingenetiche che il messaggio della resistenza iugoslava guidata dai comunisti lanciava tra le masse dei lavoratori non solo croati o sloveni, ma anche italiani. Il “ricordo” che bisogna alimentare il 10 febbraio di ogni anno riguarda dunque la violenza fascista nel confine orientale, piuttosto che il martirio degli infoibati, che nella loro stragrande maggioranza erano stati aguzzini fascisti e non “italiani brava gente”.
Le foibe del ‘43
Come è stato messo in evidenza dalla storiografia più accreditata questo quadro interpretativo regge per la prima ondata di infoibamenti: quella  del ’43, dopo l’ 8 settembre e la battaglia di Gorizia, che si configura come un capitolo della guerra civile europea tra fascismo e antifascismo. La critica della storiografia militante alle rievocazioni “di stato” riguarda quel nesso messo in evidenza da Matvejevic’ tra volenza antifascista e la lunga catena delle violenze fasciste: separare le due dinamiche e trasformare uno degli episodi più drammatici della lotta di liberazione in una sorta di  “olocausto italiano” – una riedizione in sedicesimo della Shoa –  determina una distorsione dello sguardo che la costruzione di una memoria condivisa sul quella tragica pagina alle origini della Repubblica e alimentava il riemergere delle pulsioni per “la Dalmazia e l’Istria italiane” e la condanna del trattato di Osimo da sempre costitutive della cultura nazionalista della destra neofascista italiana.
Anche se in questo approccio riemerge la tentazione di “giustificare” le violenze degli antifascisti con quelle precedenti dei fascisti, che sia dal punto di vista storiografico, che da quello etico-politico va sempre evitato e criticato, esso aveva dei solidi ancoraggi con i dati di fatto. Non solo grazie alle ricerche recenti,  stimolate paradossalmente proprio dai dibattiti innescati dalla Giornata del ricordo, è emersa la violenza genocidaria dell’occupazione italiana della Slovenia guidata da un vero e proprio carnefice come il generale Roatta, ma soprattutto   nelle foibe del ’43 non si rintracciano componenti etniche significative, ascrivibili ad una persecuzione nei confronti degli italiani perpetrata dai partigiani jugoslavi.  Emergono invece tutte le dinamiche dello scontro tra fascismo e antifascismo che in quel martoriato confine non riguardano solo la guerra civile italiana, ma anche la lotta di librazione delle popolazioni slave dalla nostra oppressione.
Ciò non toglie che molte di queste violenze nei confronti dei fascisti, veri o presunti,   o nei confronti dei proprietari terrieri,  non abbiano nessun rapporto diretto con violenze precedenti: sono spesso gratuite, prive di fondamenti giuridici o fattuali; esprimono la rabbia dei “vincitori” contro i “vinti” – tra i quali stavano non pochi collaborazionisti sloveni -, a parti rovesciate rispetto al passato, che punteggia tutte le resistenze  europee che hanno accompagnato la seconda fase della guerra mondiale.  E anche in questo caso la violenza raggiunse livelli spaventosi acclarati da storie esemplari come quella di Norma Cossetto, figlia di un dirigente locale del Pnf,  infoibata a Pisino nel ’43 dopo essere stata torturata e ripetutamente violentata da partigiani jugoslavi,
Antifascismo e comunismo
Non bisogna però dimenticare che la  questione nazionale su quel confine giochi un ruolo del tutto particolare. Infatti fin dal 1941 il Partito comunista sloveno rivendicò l’annessione di tutte i territori ad est dell’Isonzo, mettendo in discussione   la legittimità del confine. Inoltre  il Fronte di Liberazione Sloveno pretese di avere il comando di tutte le operazioni militari sottoponendo al controllo del Esercito popolare di liberazione della Jugoslavia le altre formazioni partigiane secondo i dettami della III Internazionale in accordo con quella del Partito comunista. Il “nemico”, dunque, non era soltanto l’occupante nazifascista ma anche tutti coloro i quali si opponevano alle rivendicazioni territoriali jugoslave  dettate dal progetto di fondare la nuova Jugoslavia comunista. Solo le brigate comuniste accettarono questa imposizione in nome della identità ideologica, determinando però l’esito nefasto di spezzare l’unità antifascista del CLN. Questa frattura sarebbe stata  gravida di conseguenze perché in quel controverso confine i comunisti accettarono di cancella  il carattere “nazionale” della lotta di liberazione contro il nazismo, che connotava la loro azione nella Resistenza: sul fonte orientale i comunisti scelsero di stare con l’Internazionale comunista contro la nazione italiana, assecondando la repressione delle formazioni militari  jugoslavi  contro le bande  partigiane italiane democratiche e anticomuniste.
Le seconde foibe
Rapporto tra nazione italiana e rivoluzione comunista che rimase in ombra nella crisi del ’43 e che potè fare iscrivere gli infoibamenti istriani di quei giorni nella dicotomia tra  fascismo e antifascismo esplose invece nell’aprile-maggio ‘45  durante l’occupazione jugoslava di Trieste, quando la città e tutta l’area giuliana vengono sottoposte a un governo dittatoriale che opera con l’intento di costituire le condizioni di un annessione di quei territori alla nuova Jugoslavia comunista. E qui lo schema analitico basato su quella unica dicotomia salta e si dimostra debole e incapace di comprendere le dinamiche di fondo che caratterizzano la seconda stagione degli infoibamenti. Qui come ha sottolineato la commissione italoslovena incaricata di fare luce su quella tragedia la violenza che si scatena sulle vittime non è più legata all’azione di bande di combattenti che operano in un contesto di guerra civile all’interno di una guerra tra stati ancora in pieno svolgimento: è  violenza di una potere statale in costruzione che combatte i suoi “nemici”, che non sono più solo i fascisti ma sono quegli italiani,  anche antifascisti,  che si oppongono non solo a cedere la sovranità nazionale, ma rifiutano l’esito comunista della guerra contro il fascismo: rifuggono cioè dall’idea di passare da un totalitarismo all’altro.
Porzus
La lotta per la costruzione dello stato-nazione comunista entra dunque in rotta di collisione con l’unità antifascista facendo precipitare nelle foibe anche italiani colpevoli solo di essere potenziali avversari del potere titino o antifascisti additati come “nemici del popolo”. Le conseguenze di queste scelte emersero ben prima della seconda ondata di infoibamenti,  che fu, è bene ricordarlo, assai più estesa della prima,  quando nel gennaio gappisti comunisti passarono per le armi 17 partigiani che operavano nella Brigata Osoppo composta da elementi cattolici e socialisti, accusati di “intendenza con il nemico” per un presunto accordo tra la brigata e la X Mas. In realtà si trattava dell’esito tragico di un conflitto irresolubile iniziato nella seconda metà del ’44 quando il Pci decise di assecondare la richiesta titina di integrare le brigate comuniste nell’esercito dui liberazione jugoslavo, determinando l’interruzione di ogni rapporto con le altre bande partigiane, ma mettendo in atto una pressione sempre più forte perché seguissero la scelta comunista a costo di un crescente isolamento: secondo Vincenzo Bianco luogotenente di Togliatti nell’Alta Italia  chi non si integrava era un “nemico del popolo italiano” perché invece di scegliere la “democrazia popolare”  sceglieva la “democrazia borghese”, e disse il Commissario politico della Brigata Natisone,  mai il Pci avrebbe favorito la creazione di  «regime democratico che facesse comodo all’Inghilterra».  In realtà pochi mesi dopo sarebbe accaduto proprio questo, ma in virtù di questo assioma politico allora operante  i 17 osovari vennero uccisi senza prove.  Quando i corpi dei partigiani uccisi erano ancora caldi in un volantino dei partigiano sloveni si poteva leggere: “Essi non sono più combattenti per la libertà, ma falliti politici, essi non sono più partigiani! Perché non hanno voluto sottostare agli ordini del Maresciallo Tito Comandante in Capo delle Forze di Liberazione”. La rottura ideologica tra comunisti e democratici faceva riprecipitare l’antifascismo negli anni ’20 quando i comunisti tacciavano di “socialfascismo” i socialisti e i democratici.
In realtà gli accordi tra Togliatti e Tito prevedevano una Trieste jugoslava, ma per fortuna la sovradeterminazione degli accordi tra le grandi potenze rispetto a quelli locali fece naufragare questo progetto anche se le perdite territoriali italiane furono ingenti perché si tornò di fatto ai confini precedenti la Prima guerra mondiale con l’aggiunta della breve lingua di terra triestina.
La questione comunista
Dietro le foibe del ’45 emerge dunque un’altra dicotomia: non più quella tra fascismo e antifascismo, ma quella tra antifascismo e comunismo, che aveva attraversato il campo antifascista per tutti gli anni trenta. La responsabilità di quelle morti e di quegli eccidi non rimanda al fascismo oppressore, ma alla volontà di potenza del comunismo jugoslavo, che usa l’antifascismo come paravento ideologico di stato per consolidare la sua egemonia nell’area. Ma su questo mutamento di orizzonte vacilla la narrazione della sinistra militante, perché vittima di una resistenza ideologica a prendere atto che antifascismo e comunismo sono due campi di forza ideologici e politici che solo in determinate circostante possono essere sovrapposte e omologate: fu così solo dopo l’VII Congresso dell’IC fino al Patto Ribbentrop-Molotov e tra il ’43 e il ’45. Per il resto il faticoso cammino dell’antifascismo impegnato nella rifondazione democratica dell’Italia e la strategia comunista basata sulla rivoluzione proletaria e sul fare “come in URSS” seguirono percorsi diversi, in qualche caso antagonisti. E sul fronte orientale queste divergenze assunsero la forma più drammatica, non solo per i fatti di sangue che determinarono, ma anche perché il Pci si trovò nella difficile condizione di combattere per obbiettivi e fini diversi da quelli che perseguiva nel resto del paese: qui la rinascita della nazione, là l’egemonia comunista a dispetto proprio dell’integrità della nazione.
Per Galli Della Loggia questa vicenda costituiva la conferma dell’alterità tra Pci e nazione, tra identità ideologica e identità nazionale, che esemplificava il senso profondo della “morte della patria” verificatosi tra il ’43 e il ’45. Se su scala nazionale questa valutazione era in parte infondata e la resistenza rappresentò il laboratorio nel quale al collasso della nazione fascista travolta dalle sconfitte miliari e dalla crisi di legittimità del dominio totalitario si venne sostituendo la nazione democratica, a cui contribuì anche il Pci,  sul fronte orientale emerge invece come quell’alterità avesse reali fondamenti e quanto la scissione tra comunismo e patriottismo fosse profonda.
Nella  Giornata del Ricordo quindi non si può omettere questa parte della storia, né ritenere retorica di destra l’evocazione del dramma degli italiani, colpiti in quanto nemici potenziali o reali del nuovo regime. Anche se non si trattò di genocidio e nemmeno di pulizia etnica, troppo spesso evocata dalle ricostruzioni scientificamente poco fondate da cultori di storia neofascisti,   in Istria, Dalmazia e Venezia Giulia si verificò una effettiva rappresaglia del nuovo governo comunista che aveva per oggetto la comunità italiana in quanto tale. Anche perché come ha ricordato lo storico Pupo «le “foibe”… sono state una variante locale di un processo generale che ha coinvolto tutti i territori in cui si realizzò la presa del potere da parte del movimento partigiano comunista jugoslavo».
Negazionismo
Per decenni il negazionismo del governo jugoslavo che aveva costruito su di esso uno verità di stato che occultava la repressione, le violenze e le confische forzate costituì il fondamento delle ricostruzioni memoriali della sinistra, i cui strascichi  lugubramente giungo fino a oggi: negazionismo che si combina alle ricostruzioni giustificatorie di tanti storici e intellettuali croati o sloveni, cui appartiene, seppur in parte lo stesso Matvejevic’, o Jože Pirjevec, che negli ultimi decenni hanno alimentato la tesi  che i  partigiani jugoslavi non volevano colpire gli italiani,  ma giustiziare fascisti e collaborazionisti; una memoria speculare e altrettanto infondata del martirio nazionale evocato dalla destra del movimento sociale.  Di questa contrapposizione nonostante vent’anni di ricerca storica siamo ancora in parte prigionieri, basta leggere o ascoltare cosa anno detto e scritto in questi giorni storici come D’Orsi, Greppi e altri.
Esodo
Il dramma del confine orientale però non si ferma con il maggio ’45, né con il Trattato di Parigi del ’47 che riconobbe alla Jugoslavia  la provincia del Carnaro, la provincia di Zara (gran parte della provincia dell’Istria, del Carso triestino e goriziano, e l’alta valle dell’Isonzo, ma si dispiega fino alla fine  degli anni Cinquanta quando cessò l’esodo degli italiani da quelle zone, che avevano abitato per moltissimo tempo, e che ora erano parte integrante della democrazia popolare costruita dal Maresciallo Tito. La perdita della cittadinanza italiana, l’adesione coatta al regime comunista, la manifesta volontà epuratrice del regime titino, mescolate a una crescente clima sociale antitaliano legato alla volontà di “slavizzare” molto rapidamente quei nuovi territori entrati a fare parte dello stato comunista, spinse molti italiani ad abbandonate le loro case, le loro proprietà che vennero immediatamente confiscate e riparare in Italia. L’esodo giuliano dalmata non è un unicum nella storia europea del secondo dopoguerra perché  spostamenti forzati di popolazioni per il cambiamento dei confini e di regimi politici tra il ’45 e il ’48 investirono secondo le stime più accreditate circa 30 milioni di persona: riguardò circa l’% di questo amplissimo fenomeno, che non necessariamente può essere definito di pulizia etnica, perché aveva comunque più motivazioni ideologiche che razziali.
Ciò non toglie che in molti casi di persecuzione e di espropri coatti si trattò, che decimò la popolazione italiana di quelle zone costringendola ad un esodo che aveva anche il l’amaro sapore dell’esilio: se ne andarono circa 250/300 mila persone e oggi gli italiani rimasi soprattutto in Istria sono poco più di 20.000.
Il dramma è che  ne andarono con il marchio di fascisti, e con lo stesso marchio vennero accolti anche in Italia,  soprattutto dal Pci, che li condannò per non aver aderito al sogno del socialismo reale e di essere portatori di una ideologia nazionalista e reazionaria. Su questi italiani “a metà” soggetti a numerose tribolazioni, venne poi steso un velo di oblio, che solo di recente è stato parzialmente squarciato anche se il risarcimento morale e stato più debole e parziale di quanto non lo furono le risorse messe a disposizione dai nuovi stati nati dopo il crollo della Jugoslavia comunista.
E poi c’è Berlusconi
Predrag  Matvejevic’ non si limita a ribadire la natura antifascista delle foibe, ma va oltre. Attribuisce a Berlusconi allora leader del centrodestra italiano e campione dell’anticomunismo nostrano il disegno di utilizzare le foibe e il loro ricordo per un opera subdola di rimemorizzazione del passato per colpire l’antifascismo e la sinistra. Come si evince dalle sue parole il problema, più che la difesa dell’antifascismo, è il giudizio sul comunismo una parte della cultura di sinistra non riesce a mettere in discussione, trincerandosi allora come oggi dietro i 20 milioni di morti sovietici nella seconda guerra.  Ora che il comunismo abbia portato prevalentemente morte e miseria è difficile da negare guardando alla storia del XX secolo e in particolare anche quella della Jugoslavia, dove il tentativo di una via autonoma al di fuori di un modello di sviluppo i cui erano iscritti quei tragici esiti, falli miseramente, portando il paese alla disintegrazione. Le foibe e l’esodo chiamano dunque in causa un giudizio sul comunismo e sui meccanismi di potere che lo hanno caratterizzato, che non può essere celato dietro il paravento dell’antifascismo e dei crimini del regime in quel martoriato confine; nè tanto meno  la lotta contro la destra,  allora come oggi,  non può essere condotta in nome di quei frusti ideale tragicamente smentiti dalla storia. Ricordare quei morti è possibile se si tiene insieme in una sintesi culturalmente avanzata antifascismo e anticomunismo.
Le foibe e l’esodo mettono in evidenza la profondità delle divisioni della memoria che ancora abitano il corpo sociale in Italia e la ricorrente strumentalizzazione delle stesse ai fini della lotta politica: contrapporre  i fratelli Cervi  a Norma Cossetto, o a Giuseppina Ghersi, la sedicenne fascista violentata e uccisa a Noli il 30 aprile 1945 non ha ormai più senso, Siamo ormai nel tempo del reciproco riconoscimento, lasciando a minoranze sempre più piccole di continuare a combattere una guerra della memoria che e ormai fuori dalla spirito repubblicano.
Alberto De Bernardi
debernardi@perfondazione.eu

Professore onorario Alma Mater dell’Università di Bologna, dove ha insegnato Storia contemporanea e Storia Globale. Ha compiuto numerosi soggiorni di studio a Parigi presso Université Paris Diderot 7 e in Portogallo presso l’Università di Coimbra e l’Università di Lisbona. E’ stato visiting professor presso la Brown University (Providence RI) e l’Ucla (Università della California) di Berkeley. E’ stato direttore scientifico e poi vicepresidente dell’Istituto Nazionale Ferruccio Parri (2011-2018). E’ stato presidente dell'Istituto storico per la storia e le memorie del '900-Parri Emilia-Romagna (2010-2016). Ha fondato e diretto le riviste “Società e Storia”, “I Viaggi di Erodoto”, “I Democratici”, “Storicamente”. E’ presidente di REFAT, Rete internazionale per la studio del fascismo, autoritarismo, totalitarismo e transizioni verso la democrazia, e della Fondazione PER – Progresso,Europa,Riforme. Le sue ultime pubblicano sono: "Un paese in bilico. L’Italia negli ultimi trent’anni" (Laterza,2014), "Fascismo e antifascismo. Storia, memoria, culture politiche" (Donzelli,2018), "Il paese dei maccheroni. Storia sociale della pasta" (Donzelli, 2019)

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