
01 Lug Cosa deve fare lo Stato (e come deve farlo) per non essere un peso
di Carlo Stagnaro
Quale equilibrio tra Stato e mercato? Probabilmente non esiste un’unica risposta valida per tutti i luoghi e tutte le epoche. Nell’Italia post-Covid, però, sembrano esserci pochi dubbi: più Stato, qualunque sia il contesto specifico e qualunque sia il livello dell’intervento pubblico precedente, e anche senza troppo riguardo alla qualità della spesa pubblica.
Ritorno dell’intervento pubblico? Il caso delle telecomunicazioni
Un’immagine abbastanza esplicita viene dal dibattito attorno al riassetto del sistema delle telecomunicazioni, da tempo oggetto di torsioni stataliste nonostante i risultati tutto sommato soddisfacenti raggiunti con la liberalizzazione del mercato e la privatizzazione di Telecom (pur senza nascondersi tutti i limiti di quel modello).
Il tema è interessante perché consente, partendo da una vicenda specifica, di estrapolare alcune considerazioni generali. Tutto inizia il 22 giugno, con la pubblicazione sul blog di Beppe Grillo di un post intitolato perentoriamente “Ci deve essere una rete unica” (qui il link). Prima di entrare nel merito della tesi di Grillo e soprattutto delle reazioni che ha (o non ha) suscitato, serve un minimo di contesto.
Come migliorare la connettività del nostro paese?
Da tempo si discute su come migliorare la connettività del nostro paese, con riferimento sia alle reti mobili (frazionate tra diversi operatori) sia alla rete fissa (in gran parte in pancia a Tim).
Il Governo Renzi era intervenuto coi sussidi del Piano per la Banda ultralarga e la creazione di Open Fiber, una società controllata da Enel e Cassa depositi e prestiti, che si è aggiudicata tutti i bandi per raggiungere le aree prive di copertura. Chiaramente, quella di Open Fiber rappresenta un’operazione di “politica industriale”, che tentava di forzare (ma non scardinare) le regole del mercato.
E’ dopo che le cose si complicano, con l’ingresso di Cdp nel capitale di Tim (di cui oggi detiene circa il 10 per cento) e un ampio dibattito sull’opportunità, da un lato, di imporre a Tim uno spinoff della propria rete, per conferirla a un unico soggetto a trazione pubblica, e, dall’altro, di aumentare il controllo statale su Tim.
Grillo invoca la statalizzazione di Tim
E’ qui che si inserisce il post di Grillo. L’ex comico bolla come fallimentare l’esperienza di Open Fiber e invoca la statalizzazione di Tim e la concentrazione al suo interno non solo della rete fissa e a banda ultralarga nella sua interezza, ma anche delle reti mobili e del 5g. Questo intervento così radicale non solleva alcuna presa di posizione da parte della politica, se non una sostanziale adesione da parte del Premier, Giuseppe Conte: “è una buona idea” (articolo a questo link). Non è questa la sede per entrare nel merito della sparata di Grillo, né di fare un bilancio della vicenda Open Fiber (su entrambi i temi, e sulle implicazioni della Grillonomics, vale quanto ha scritto Franco Debenedetti).
Vale invece la pena svolgere due considerazioni, che poi ci consentiranno di ampliare l’argomento. La prima è questa: siamo sicuri che il panorama italiano delle telecomunicazioni sia tanto disastroso da richiedere un intervento a gamba tesa dello Stato?
L’Italia digitale è un paese arretrato proprio dove è cruciale il ruolo dello Stato
Quasi in contemporanea col post di Grillo, è uscito il consueto rapporto della Commissione europea sull’Economia e la società digitale. Il nostro paese ottiene effettivamente una valutazione molto severa, classificandosi al quartultimo posto. Ma, se si guarda dentro la costruzione dell’indice, si vedrà che – dei cinque indicatori considerati – l’unico rispetto al quale l’Italia ottiene un punteggio in linea con la media europea è proprio quello legato alla connettività, cioè alla copertura e performance delle reti fisse e mobili.
In pratica, l’Italia appare come un paese estremamente arretrato, dal punto di vista delle opportunità digitali, in tutti quegli ambiti dove è cruciale il ruolo dello Stato (capitale umano, servizi digitali della pubblica amministrazione) e in quelli dove conta molto la struttura del sistema economico, e in particolare la dimensione delle imprese, che a sua volta è largamente endogena alle regole fiscali, lavorative, ecc. (uso e integrazione dei servizi digitali nei processi produttivi).
L’Italia ottiene invece un punteggio dignitoso nell’unico indicatore che, per come è disciplinato il settore, riflette la qualità degli investimenti privati e la dinamica della concorrenza. Ecco: il dibattito pubblico in materia di telecomunicazioni e digitale, anziché ruotare attorno alle nostre debolezze strutturali fotografate dal Digital Economy and Society Index, si focalizza su quell’unica area nella quale siamo al pari degli altri Stati membri dell’Unione europea.
Contro la libertà economica tra strabismo e ideologia
E lo fa, oltre tutto, non con l’atteggiamento di chi voglia cogliere le ragioni di questo relativo successo e promuoverlo ulteriormente, ma con l’obiettivo quasi iconoclasta di far piazza pulita della libertà economica e imprimere al paese una decisa retromarcia.
Dietro questo incredibile strabismo c’è freddo calcolo oppure cecità ideologica? E’ difficile dirlo, ma è verosimile che ci siano entrambe le cose.
E’ ovvio che, attorno al controllo di Tim, si gioca una partita di potere, nella quale spesso le scelte di posizionamento sono strumentali. Ma è ugualmente vero che la mitologia della rete pubblica (e perciò pura e neutrale) alimenta questo scontro e offre un terreno assai favorevole a chi intende sovvertire l’attuale disegno di mercato. Anche se non c’è alcuna evidenza che la proprietà pubblica garantisca alla rete quell’immacolata concezione che, invece, verrebbe meno col peccato originale della partecipazione privata: anzi, ci sono molti indizi del contrario.
Ed è questo che ci porta ad ampliare l’argomento e, con qualche cautela, generalizzarlo. L’idea, infatti, che lo Stato debba riconquistare spazi di intervento discrezionale si ripropone continuamente in una pluralità di settori economici: l’energia, l’acqua, l’acciaio, le autostrade, i trasporti aerei, il digitale e via contando.
Stato e mercato sono sempre intrecciati
Prima di proseguire, bisogna mettere un punto fermo: nella semplificazione retorica si tende spesso a contrapporre un ideale moloch statalista onnipresente a un ipotetico mercato acchiappatutto e sregolato. Nella realtà, nessuna di queste due opzioni è concretamente disponibile. Per un verso, spazi di libertà economica – magari informali – esistono anche negli ambienti apparentemente più lontani dal modello capitalistico. Persino nell’Unione Sovietica di Stalin, nella Cina maoista e nella Corea del Nord, infatti, la proprietà privata e lo scambio si presentano in qualche forma, al limite nel mercato nero.
D’altro canto, per quanto uno si sforzi di immaginare mercati anarchici, dovrà riconoscere che i mercati non esistono nel vuoto, ma si calano in una realtà dove la presenza dello Stato, anche solo in forma di regole generali, è comunque palpabile. Ciò di cui concretamente si discute, allora, è il ruolo e la modalità dell’intervento pubblico: lo Stato deve sostituirsi ai privati nella produzione di beni e servizi oppure deve disciplinarne la condotta, nel rispetto dei principi della concorrenza e della libertà d’intrapresa?
Il ruolo dello Stato: regolatore o imprenditore?
La domanda è tutt’altro che oziosa o teorica. Riguarda, anzitutto, il ruolo dello Stato: esso deve assumere la forma prevalente del regolatore oppure dell’imprenditore?
Nel primo caso, dovrà scrivere le regole del gioco, per esempio dettando i requisiti tecnici per l’immissione in commercio di un certo prodotto, i vincoli ambientali a cui produzione e consumo dovranno sottostare, la normativa a tutela di lavoratori e consumatori, e così via.
Alternativamente, lo Stato potrà partecipare – da monopolista oppure in concorrenza coi privati – alla produzione di beni e servizi. Le ultime vicende, per esempio quelle dell’ex Ilva, di Alitalia e ovviamente di Tim, suggeriscono che lo Stato imprenditore stia oggi prendendo sempre più quota.
Poi c’è l’aspetto legato alle modalità dell’intervento: lo Stato deve cercare di mantenersi neutrale nel modo in cui interviene nel mercato, oppure deve di volta in volta fare scelte di campo?
Per fare alcuni esempi concreti: nel campo delle telecomunicazioni, lo Stato deve promuovere – attraverso la concorrenza e la regolamentazione tecnica – il raggiungimento di certi standard minimi prestazionali oppure dettare opzioni tecnologiche? Per perseguire la sostenibilità ambientale, deve imporre obiettivi di riduzione delle emissioni (per esempio emissioni unitarie o cap globali alle emissioni) oppure indicare specifiche tecnologie (fotovoltaico, eolico, efficienza energetica, ecc.)?
Ma lo Stato non ha a disposizione tutte le informazioni: il pasticcio delle mascherine
La risposta a queste domande deriva non solo da una scelta valoriale, ma anche da una diversa comprensione del funzionamento del sistema economico.
Se si ritiene che lo Stato sia in grado di possedere più informazioni e migliori rispetto a qualunque soggetto privato, allora lo statalismo aggressivo appare come una strategia forse brutale ma certo efficiente.
Se invece si ritiene – e i fatti sembrano avvalorare questa seconda tesi, specie in un mondo sempre più sfaccettato e complesso – che le informazioni siano necessariamente disperse e che solo quel processo di “trial & error” consustanziale alla concorrenza possa farle emergere, allora bisogna essere molto più cauti nell’attribuire allo Stato mansioni sempre più dilaganti.
Una delle più clamorose manifestazioni dello Stato onnipotente – il pasticcio delle mascherine durante la fase più acuta dell’emergenza Covid) – avvalora la prudenza. Proprio in quel frangente, è emerso come la pretesa pubblica di imporre metodi produttivi, prezzi, costi e canali di rifornimento – cioè la presunzione di conoscere ogni aspetto della realtà – ha finito per acuire, anziché alleviare, la scarsità di dispositivi di protezione individuale, proprio quando ce n’era il massimo bisogno.
L’integrazione nei mercati europei
In questo ragionamento si inseriscono due ulteriori elementi. Uno riguarda i vincoli politici ed economici a cui l’Italia deve adeguarsi. Finché il nostro paese resterà membro dell’Unione europea, dovrà accettare dei limiti alla propria facoltà di mettere i piedi pubblici nel piatto del mercato.
Ciò non deriva da una qualche vocazione “neoliberista” del disegno europeo, ma dalla consapevolezza che, per raggiungere l’integrazione dei mercati europei, è necessario costruire un contesto di regole eque per tutti. Altrimenti, gli Stati politicamente e finanziariamente più forti potrebbero imporsi sugli altri.
Il paradosso è che gran parte della polemica anti-europea muove proprio dalla negazione di questo fatto – quando invece è sotto gli occhi di tutti che uno dei maggiori risultati dell’Ue sta proprio nell’aver definito un set di regole uguali per tutti e che tutti devono rispettare – e che la sua sottovalutazione spiega perché anche una parte significativa del cosiddetto establishment europeista si colloca, invero, su posizioni anti-europee.
Allo stesso modo, la globalizzazione offre molti vantaggi, ma implica anche la cessione di una fetta di discrezionalità politica perché impone di partecipare a catene globali del valore dove i singoli Stati perdono il controllo delle filiere produttive, guadagnandone in efficienza e progresso.
Lo Stato italiano è in grado di fare più cose?
L’altro aspetto è pratico: anche prendendo per buono che lo Stato, qui-e-ora, dovrebbe fare più cose, siamo sicuri che il nostro Stato ne sia in grado?
Tutte le indagini sulla qualità della spesa pubblica e della regolamentazione sono concordi nell’indicare l’Italia come un paese dove, per una pluralità di ragioni, il pubblico tende a essere assai inefficiente.
Lo vediamo, tra l’altro, negli esercizi di valutazione che sono stati condotti sull’efficacia delle politiche pubbliche, nei diversi indicatori di performance dei servizi pubblici quali i test Ocse-Pisa per l’istruzione, nell’incapacità di spendere interamente i fondi europei, e in maniera sintetica attraverso i risultati del nostro paese in rapporti quali Doing Business o il Global Competitiveness Report.
A dispetto di una spesa pubblica molto elevata in relazione al Pil, persino l’azione redistributiva dello Stato appare viziata, nel senso che – pur partendo da un livello di diseguaglianza pre tax relativamente bassa – l’Italia ha una divaricazione sociale (e territoriale) piuttosto elevata dopo le tasse. Per cui, se anche fosse vero che questa è l’epoca dello Stato, dovremmo comunque fare i conti col fatto che quello italiano è un secchio bucato.
La funzione dello Stato sul fronte pandemico
Tutti questi argomenti acquistano ancora più importanza e urgenza nell’epoca del Covid-19. Se c’è un momento in cui lo Stato svolge una funzione essenziale, è adesso. L’Italia è uno dei paesi più colpiti, sia sul fronte epidemico, sia su quello economico (in parte anche a causa delle scelte fatte in risposte all’emergenza).
Per stimolare la ripresa, il paese si trova a gestire una quantità immane di fondi, ricavati in parte attraverso l’indebitamento, in parte dai finanziamenti europei. E’ cruciale che queste risorse siano impiegate nel modo migliore. Infatti, se ben utilizzate possono aiutare le imprese a superare la fase drammatica che stanno attraversando, e magari anche creare le condizioni per mettere in atto quelle riforme strutturali che attendiamo fin dalla lettera di Jean-Claude Trichet e Mario Draghi nel 2011.
Ma, se spesi male, quei denari possono addirittura amplificare i problemi, per esempio creando forme di dipendenza dal welfare o mantenendo in vita imprese zombie, che non hanno alcuna speranza di tornare a generare utili, ma che in tal modo bloccano al proprio interno capitale e lavoro.
Come abbiamo scritto con Guglielmo Barone e Marco Percoco, come minimo è essenziale che l’Italia si doti di adeguati strumenti di valutazione e che soprattutto metta i dati a disposizione della ricerca indipendente, in modo da poter correggere eventuali errori che dovessero emergere e riallocare i fondi verso gli impieghi più proficui.
Queste, però, sono considerazioni di metodo. Prima ancora ce n’è una di merito: quali sono gli obiettivi che dobbiamo perseguire nell’allocare le immense risorse che si stanno rendendo disponibili?
Una possibile risposta è che dovremmo usarle per ampliare gli spazi dell’economia a controllo pubblico diretto o indiretto. Il governo sembra guadare in questa direzione, continuando a nazionalizzare le imprese di medio-grande dimensione, incrementando gli stanziamenti per pagare le persone che non lavorano (cassa integrazione, reddito di cittadinanza e quota 100), impedendo gli aggiustamenti e le trasformazioni dell’economia (per esempio col divieto di licenziamento).
Una risposta alternativa è che, invece, dovremmo individuare le cause della stagnazione della produttività – la qualità dei servizi pubblici, il sotto-investimento in capitale umano, la scarsa concorrenza, il sistema giudiziario, la frammentazione delle imprese ecc. – e intervenire sugli elementi strutturali che ne determinano l’attuale condizione.
Strettamente connessa a questa è un’altra scelta: la politica economica dovrebbe mirare a proteggere e isolare l’economia italiana dal resto del mondo, oppure a favorirne l’integrazione in Europa e nei mercati globali? Si tratta solo all’apparenza di un tema separato e che, nell’arco di questo articolo, è rimasto sullo sfondo, perché anzi rappresenta l’orizzonte ultimo rispetto al quale tutto va misurato: uno Stato interventista, ossessivo e autoreferenziale non può che calarsi nella dimensione nazionale e vivere con insofferenza qualunque limitazione, di fatto (la globalizzazione) o di diritto (l’Europa), alla sua sovranità. Viceversa, uno Stato regolatore, leggero e pro-concorrenziale si coniuga naturalmente con la tendenza a cercare apertura e diversità, all’interno e all’esterno.
In altre parole, la questione fondamentale non sta tanto in quale sia il “peso forma” dello Stato (che semmai ne è una conseguenza). La questione è cosa debba fare e come farlo.
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