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20028
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Dal Congresso del Pcc, una Cina sempre più minacciosa

di Vittorio Ferla

 

Il 20° Congresso del Partito comunista cinese si concluderà con il terzo mandato a Xi Jinping. Una rottura con il passato, visto che Deng Xiaoping aveva posto un limite costituzionale di due mandati nel 1982. Come ogni autocrate che si rispetti Xi ha rimosso il limite nel 2018 e adesso continuerà a consolidare il suo potere con la prospettiva di renderlo permanente. È del tutto evidente che in un regime totalitario come quello del Dragone, una leadership senza limiti peggiorerà notevolmente il quadro con conseguenze letali sulla stabilità internazionale. Con il rafforzamento della sua posizione personale, Xi cercherà di dare seguito al sogno di un futuro egemonico del suo paese. Per farlo, interverrà sempre più direttamente nelle controversie alla periferia della Cina e aumenterà la sua pressione contro la presenza degli Stati Uniti nel Pacifico. 

In verità, il 2022 non è stato un anno positivo per il leader cinese. In primo luogo, la politica fortemente restrittiva nei confronti della pandemia da Convid-19 ha provocato importanti contraccolpi. I lockdown sistematici e permanenti hanno fiaccato e irritato la popolazione, scatenando anche delle proteste. Le chiusure rigide hanno avuto anche un impatto negativo sull’economia. Proprio a causa delle restrizioni , il pil di Shanghai, per esempio, si è contratto del 5,7% nella prima metà del 2022. La crescita complessiva del pil cinese nel secondo trimestre del 2022 è stata dello 0,4%, il tasso più basso degli ultimi decenni. 

In secondo luogo, la guerra della Russia in Ucraina rischia di rompere quegli equilibri e quella quiete internazionale che finora hanno permesso al colosso comunista di sviluppare i propri affari. All’inizio Xi aveva mostrato la massima disponibilità verso l’alleato di Mosca. Ma, con il passare del tempo, la determinazione dell’imprevista resistenza ucraina, il sostegno economico e militare dell’Occidente a Kiev e i passi falsi dell’esercito russo nei territori occupati hanno cambiato la prospettiva anche di Pechino. Putin diventa sempre di più un alleato scomodo che produce reazioni politico-economiche e alterazioni del mercato globale capaci di danneggiare anche gli interessi economici del Dragone. Non a caso, dunque, il sostegno economico e militare alla Russia è stato sorprendentemente scarso rispetto ai timori della comunità internazionale. Certo, a livello diplomatico la Cina ha difeso le azioni della Russia e ha accusato la Nato di aggressione, ma la paura di fronte alle sanzioni statunitensi e all’ulteriore interruzione delle relazioni cino-americane ha reso assai guardingo l’atteggiamento di Pechino.

In terzo luogo, se il modello cinese di sviluppo ad alto investimento degli ultimi decenni è stato utile per risolvere i ritardi del paese, adesso rischia di volgersi nel suo contrario. Secondo la Banca mondiale, gli investimenti rappresentano in genere circa il 25 per cento del pil globale, con un range dal 17 al 23 per cento per le economie più mature al 28-32 per cento per le economie in via di sviluppo, nelle loro fasi di crescita elevata. Nell’ultimo decennio, però, la Cina ha investito ogni anno una cifra pari al 40-50 per cento del suo pil annuale. Deve ridurre di molto questo livello insolitamente elevato, ma con una crescita così dipendente dagli investimenti, probabilmente non può farlo senza un forte rallentamento dell’attività economica complessiva. In sostanza, Pechino sarà costretta a riflettere sulle sue politiche economiche. Le strade sono due. Uscire da un modello di crescita economica che ha generato una grande quantità di ricchezza, anche se al prezzo di profonde disuguaglianze, dell’aumento del debito e di uno spreco crescente di risorse pubbliche. Oppure continuare con l’attuale modello economico ancora per qualche anno finché non sarà costretta da questi costi in aumento a una transizione ancora più dolorosa. Secondo numerosi osservatori, troppi investimenti della Cina sono diretti, per necessità, a progetti che creano attività economica (e debito) ma che non creano valore economico reale. Ecco perché è improbabile che la Cina possa ancora continuare a investire in modo produttivo quasi lo stesso importo ogni anno. Pechino sembra al bivio. O si riducono rapidamente gli investimenti con la conseguenza di una crescita molto più bassa. Oppure si mantengono gli attuali tassi di investimento con l’esplosione dell’onere del debito. In un modo o nell’altro, la crescita cinese rallenterà bruscamente con profonde conseguenze per il paese, per il partito e per l’economia globale.

A tutto ciò si aggiungono le tensioni sul fronte della sicurezza internazionale. Come si è visto nello scenario ucraino, Xi ha mostrato di non gradire conflitti che possano distrarlo dalle battaglie politiche interne (che infatti ha vinto a mani basse) e ha evitato iniziative di politica estera che potrebbero aggravare le tensioni con i vicini. Ma fino a un certo punto. Basti pensare alle tensioni economico-strategiche con l’Australia. Xi cercherà di riaffermare il potere cinese in aree di priorità strategica nel Pacifico occidentale. Così si spiegano le tensioni con la Corea del Sud e con il Giappone. E soprattutto il caso di Taiwan. Nella sua relazione al Congresso, Xi ha chiarito che la prospettiva della riunificazione con l’isola autonoma è già scritta. E che sarà perseguita anche con l’uso della forza, se necessario. Sul piano militare, Pechino ha equipaggiato almeno tre isole artificiali con aerei, sistemi missilistici antinave e antiaerei e tecnologia laser e di disturbo.

Sperare che il rallentamento economico della Cina possa frenare l’ambizione di Xi sarebbe un calcolo sbagliato. Il comportamento adottato da Xi fino ad oggi dimostra che il despota cinese è convinto che il suo paese abbia accumulato abbastanza ricchezza e tecnologia per farle valere sullo scacchiere internazionale. Con l’obiettivo finale di guadagnare una supremazia globale a scapito degli Stati Uniti. Di fronte a questa minaccia – che per adesso è solo economica ma che potrebbe diventare qualcosa di peggio – Washington cerca di rafforzare le sue alleanze nell’area del Pacifico. Xi Jinping, nel frattempo, ha mobilitato una macchina propagandistica anti-Stati Uniti, che alimenta le fiamme del nazionalismo. Pure l’Europa dovrà guardare con sempre maggiore attenzione ai focolai di crisi nel lontano Pacifico.

Vittorio Ferla
vittorinoferla@gmail.com

Giornalista, direttore di Libertà Eguale e della Fondazione PER. Collaboratore de ‘Linkiesta’ e de 'Il Riformista', si è occupato di comunicazione e media relations presso l’Ufficio di Presidenza del Consiglio regionale del Lazio. Direttore responsabile di Labsus, è stato componente della Direzione nazionale di Cittadinanzattiva dal 2000 al 2016 e, precedentemente, vicepresidente nazionale della Fuci. Ha collaborato con Cristiano sociali news, L’Unità, Il Sole 24 Ore, Europa, Critica Liberale e Democratica. Ha curato il volume “Riformisti. L’Italia che cambia e la nuova sovranità dell’Europa” (Rubbettino 2018).

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