Dati Ocse-Pisa, diagnosi e proposte per la scuola italiana - Fondazione PER
16538
post-template-default,single,single-post,postid-16538,single-format-standard,theme-bridge,bridge-core-2.0.5,woocommerce-no-js,ajax_fade,page_not_loaded,,qode-title-hidden,columns-4,qode-child-theme-ver-1.0.0,qode-theme-ver-21.0,qode-theme-bridge,qode_header_in_grid,wpb-js-composer js-comp-ver-6.0.5,vc_responsive

Dati Ocse-Pisa, diagnosi e proposte per la scuola italiana

di Mauro Piras

 

I dati del rapporto Ocse-Pisa 2018 dipingono questo quadro della scuola italiana, dal 2000 a oggi: non migliorano le competenze in lettura, che mediamente restano stabili; c’è un miglioramento iniziale nelle competenze in matematica, stabili però negli ultimi anni; peggiorano quelle in scienze, su tutto il periodo.

 

Le competenze (inadeguate) degli studenti italiani

La percentuale degli studenti italiani che raggiungono il livello adeguato di competenze in lettura è uguale alla media Ocse, ma inferiore alle economie avanzate con cui dovremmo confrontarci; l’Italia è più debole nella percentuale di studenti che raggiungono i livelli più alti di competenze; ha anche una percentuale elevata di studenti che restano al di sotto della soglia di adeguatezza.

Il divario nella formazione causato dalle origini sociali è meno ampio della media Ocse; però è una maggiore equità “verso il basso”, perché in generale gli studenti italiani raggiungono risultati meno soddisfacenti. Inoltre, su questo terreno, bisogna notare altre due cose: in Italia c’è una percentuale piuttosto elevata di studenti che, pur raggiungendo elevati livelli di formazione, non continuano gli studi per mancanza di mezzi; inoltre, c’è una segregazione sociale sulla base degli indirizzi scolastici piuttosto elevata, dal momento che le classi sociali più agiate mandano i propri figli ai licei e quelle meno agiate e gli immigrati prevalentemente agli istituti tecnici e professionali.

 

I divari tra Nord e Sud

Spostiamoci da qui ai dati che mostrano i problemi più profondi e i divari più gravi: restano ampi divari tra Nord, Centro e Sud-Isole, in primo luogo. Le due macroregioni del Nord-Ovest e del Nord-Est ottengono risultati superiori alla media Ocse, mentre il Centro è in generale allineato e il Sud e le Isole sono drammaticamente al di sotto. Lo stesso per gli indirizzi: i Licei sono al di sopra della media Ocse, i tecnici sono al di sotto e i professionali molto al di sotto. Questi divari, per aree geografiche e per indirizzi, valgono per tutte e tre le competenze valutate: lettura, matematica e scienze.

Il quadro è molto complesso. Ci sono molte ombre, ma bisogna tenere conto anche di quello che non è del tutto negativo. Dipingere un quadro solo negativo, sulla base della retorica “la scuola è in declino” è non solo inutile ma dannoso. Proviamo quindi a pensare a delle aree di intervento.

 

L’insegnamento dell’italiano

L’insegnamento dell’italiano. Come mostrano anche i dati Invalsi, le competenze in italiano peggiorano con il progredire dei gradi scolastici, e così anche i divari tra Nord e Sud e tra classi sociali. Perché? Perché l’ordinamento italiano abbandona troppo presto il lavoro didattico sulle competenze di base, sovrapponendovi altre richieste che lo mettono in secondo piano. Nella scuola primaria si lavora costantemente in aula sulla scrittura e sulla lettura di testi. A undici anni, con il salto alla scuola media, questo lavoro viene abbandonato. Inizia il lavoro sul “programma di letteratura”, oltre a quello sulla lingua. Accade così che ragazzi figli di classi sociali disagiate o di immigrati, in prima o seconda media, debbano comprendere e commentare “Chichibio e la gru” quando ancora non padroneggiano i fondamentali dell’italiano corrente. L’esigenza di trasmettere il patrimonio letterario frena il lavoro di apprendimento della lingua. Tanto più che quel patrimonio viene trasmesso in chiave storica, partendo dalle origini, dai testi più difficili.

A questo si aggiunge che, alle medie, inizia una differenziazione disciplinare eccessiva: i ragazzi studiano ben dieci materie, senza contare educazione fisica e religione. Tutte e dieci ogni settimana, con una notevole frammentazione oraria. Questo rende difficoltoso il lavoro di approfondimento sulle competenze di base. Tuttavia, la secondaria di primo grado fa ancora parte del “primo ciclo”, che dovrebbe dare le competenze di base.

Infine, si aggiunge un altro problema: i compiti a casa. La quantità di compiti a casa assegnati aumenta notevolmente dalla primaria alla scuola media. Questo vuol dire, per italiano, che il lavoro di scrittura e lettura personale viene demandato sempre di più allo studio individuale, cioè allo studio in famiglia. Le famiglie supportano molto i ragazzi nei compiti a casa, ma questo aumenta i divari di natura sociale e culturale, perché il loro capitale culturale è molto diverso a seconda delle classi sociali. Le famiglie che non hanno affatto tempo né dispongono di un capitale culturale spendibile per la scuola non seguono affatto i ragazzi. Ciò spiega il fatto che i divari aumentano con il progredire dei gradi scolastici.

 

Il problema di scienze

Lasciamo da parte matematica, perché il livello generale non è così negativo. Va però osservato di passaggio che il lavoro a casa negli “esercizi di matematica” cresce notevolmente alle medie, e anche lì accentua i divari di natura sociale. Vediamo invece il problema di scienze, in cui i risultati sono deludenti sia nel breve che nel medio periodo. La frammentazione disciplinare citata sopra spiega anche questa carenza. L’ordinamento italiano è schizofrenico: nelle Indicazioni nazionali del Primo ciclo, in quelle dei Licei e nelle Linee guida degli Istituti è detto che ci sono quattro assi comuni a tutta l’istruzione obbligatoria, dai 6 ai 16 anni: l’asse linguistico (italiano e lingua straniera), quello storico, quello scientifico e quello matematico. In realtà, le ore di scienze sono sempre poche (di solito due alla settimana), quindi in un quadro di frammentazione disciplinare, come abbiamo visto, che non permette affatto di realizzare quei quattro assi. Inoltre, fin dalle elementari, e tanto più alle medie, le scienze vengono insegnate largamente con un metodo nozionistico e mnemonico, del tutto inutile a formare delle vere competenze scientifiche.

 

Il passaggio alla scuola superiore

Tutte queste difficoltà aumentano nel passaggio alla scuola superiore, a 14 anni. Il biennio delle superiori è ancora scuola dell’obbligo, ma accelera il processo di differenziazione disciplinare, con la divisione degli studenti in indirizzi di studio diversi. Questo interrompe la formazione generale quando gli studenti sono ancora nell’obbligo scolastico. Non a caso i più alti tassi di bocciature e di dispersione si trovano proprio nel biennio delle superiori, e soprattutto al primo anno, ovviamente con percentuali crescenti spostandosi dai licei ai tecnici e ai professionali, a causa della “segregazione sociale sulla base degli indirizzi” citata all’inizio.

 

La riforma dei cicli

L’insieme di queste considerazioni sulle difficoltà dell’insegnamento in italiano e scienze, e sulla frammentazione disciplinare portano a una prima proposta: la riforma dei cicli. Se vogliamo veramente realizzare una scuola di base che assicuri a tutti una buona formazione generale, l’attuale struttura dei cicli scolastici va abbandonata.

Oggi infatti gli studenti cambiano scuola e stile di studio troppo spesso nel periodo dell’obbligo; fanno un salto molto forte di metodo didattico a undici anni, quando sono ancora nel pieno della formazione di base; non concludono in maniera coerente l’obbligo con un ciclo scolastico; non lavorano in modo approfondito e con costanza sulle competenze di base nei cinque anni dagli undici ai sedici.

La soluzione potrebbe essere una riforma in cui il ciclo della formazione generale, comune a tutti, si conclude a 16 anni: o con un ciclo unico dai 6 ai 16 anni, o con due cicli 5+5. In ogni caso, bisogna partire dal principio che la formazione generale comune deve essere fondata realmente sui quattro assi: italiano (più inglese), matematica, scienze, storia, senza l’aggiunta e la frammentazione di altre materie. Altre materie formative (arte, musica, educazione fisica) possono essere svolte come attività non valutate. Tutto questo “ciclo di base” dovrebbe avere il tempo pieno, sul modello migliore della primaria, per permettere l’approfondimento, il lavoro di scrittura, composizione, esercizio ecc. in aula, più le altre attività citate. Inoltre il tempo pieno, come diremo più avanti, ha un ruolo fondamentale anche per affrontare i divari territoriali. In questo quadro, diminuirebbe l’importanza dei “compiti a casa”.

 

La questione dei divari

Veniamo ai problemi di segmentazione evidenziati dai dati Ocse-Pisa: i divari territoriali, i divari tra tipi di scuole e la “segregazione scolastica”. Questi ultimi due possono essere affrontati in primo luogo con la riforma dei cicli, dal momento che il biennio delle superiori verrebbe unificato all’interno di un periodo comune fino a 16 anni.

Resta però sempre il problema delle “scuole difficili”, perché collocate in zone disagiate, e del divario Nord-Sud. Quanto al primo, un elemento fondamentale riguarda il corpo docente: in Italia solitamente nelle “scuole difficili” il personale è molto instabile, perché i docenti appena possono chiedono il trasferimento, per andare in scuole più tranquille. Si potrebbe ovviare a questo problema con incentivi mirati, che servano a trattenere i docenti migliori nelle scuole delle zone disagiate; e con una carriera dei docenti, fondata su una valutazione del lavoro docente che dia un peso, al suo interno, anche al contributo dato in situazioni particolarmente difficili.

 

Nord e Sud: l’assenza del tempo pieno

Quanto al divario Nord-Sud, le cose sono più complesse. Non si tratta solo di motivare con incentivi i docenti a restare nelle situazioni più difficili.

Qui un primo problema strutturale è l’assenza del tempo pieno. In quasi tutta la scuola primaria del Sud il tempo pieno è assente. Invece noi dobbiamo andare verso un sistema che preveda il tempo pieno non solo nella primaria, ma fino a 16 anni. Visto il contesto che si è creato, è una rivoluzione culturale.

Nel Sud è particolarmente difficile, perché il problema del tempo pieno si intreccia con i problemi del mercato del lavoro, cioè con un tasso di occupazione femminile molto basso, e con una tradizione di intervento degli enti locali diversa da quella di molte regioni del Nord. Detto fuori dai denti, la presenza degli enti locali nel garantire servizi per la scuola al Sud è spesso molto più debole che al Centro-Nord. Non basta quindi estendere il tempo pieno per legge: bisogna intervenire anche sulle politiche per il mercato del lavoro, per la famiglia, e far muovere gli enti locali.

 

La qualità dei docenti…

Infine, due problemi generali, che ovviamente influenzano tutto l’andamento del sistema scolastico: la qualità dei docenti e dei dirigenti scolastici.

La formazione iniziale e la selezione dei docenti sono fondamentali, tutti lo capiscono. Eppure, proprio su questo terreno l’Italia da molto tempo si muove male, molto male. Senza andare indietro, bastino le ultime vicende: si era trovato finalmente, con la Legge 107/2015 e con il D.Lgs. 59/2017 che ne discendeva, un modello di formazione iniziale e reclutamento dei docenti completo ed esigente. Invece è stato smantellato con la Legge di bilancio 2019, per tornare all’idea che “basta la laurea” per fare il concorso ed entrare a scuola. Notare che si parla della scuola secondaria, non della primaria, per cui resta in vigore un ottimo ed esigente percorso di formazione universitario: questo perché resta radicato in Italia il pregiudizio che il docente della secondaria (che è anche la scuola media, ricordiamolo), non è un “maestro”, ma un “professore”. Le cose cambieranno solo quando capiremo che tutti, a scuola, devono essere “maestri”: a scuola deve entrare solo chi vuole insegnare e ne ha la capacità. Invece noi continuiamo a fare entrare tanti che ripiegano su questo lavoro solo come “seconda scelta”. E i risultati si vedono.

 

…e dei dirigenti scolastici

La questione dei dirigenti scolastici è più complessa. Le forme di reclutamento attuali sono del tutto inadeguate, premiano solo, nel migliore dei casi, le capacità gestionali. Non sanno selezionare veramente chi sa “guidare la didattica”. I dirigenti scolatici italiani fanno pochissimo per guidare e orientare la didattica delle loro scuole, perché sono schiacciati da incombenze gestionali e amministrative, perché hanno paura di scontrarsi con i docenti gelosi della loro “libertà di insegnamento”, perché non ne sarebbero capaci in quanto selezionati in un altro modo. Invece la guida del dirigente, per ogni singola scuola, proprio sulle questioni didattiche è fondamentale: fare in modo che in una scuola si condivida un progetto didattico, un modo di fare scuola, e non solo dei formalismi insignificanti, è fondamentale adesso. E cambia tantissimo i risultati degli studenti. Ma su questo terreno siamo molto indietro.

Mauro Piras
piras@perfondazione.eu

Insegna Filosofia e Storia al Liceo Castelnuovo di Firenze. Si occupa di filosofia politica e politica scolastica. Ha scritto saggi su Rawls, Habermas e i fondamenti della democrazia liberale. Ha pubblicato diversi interventi sulla scuola su il Mulino, Le parole e le cose, Internazionale, Rivista dell'Istruzione, Scuola7, La scuola e l'uomo. Coordina il Forum Scuola PD di Firenze. E' tra i fondatori del gruppo "Condorcet. Ripensare la scuola".

Nessun commento

Rispondi con un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.