
28 Set Difesa comune europea, una sfida per il governo di Berlino
di Vittorio Ferla
Tra gli interrogativi che restano aperti dopo l’esito delle elezioni tedesche c’è il futuro della politica estera e di difesa europea. Quale che sia la coalizione emergente dai negoziati di questi giorni le fondamenta dell’impegno tedesco resteranno intatte: pieno sostegno per una politica estera europea di ampia portata e partecipazione convinta all’alleanza atlantica. Ma il modo in cui questi titoli saranno declinati è tutto da verificare. Certo è che senza il traino del governo di Berlino sarà molto difficile la costruzione di strumenti di hard power per la sicurezza comune europea.
Nell’agenda globale la questione è diventata sempre più urgente dopo il ritiro degli Usa dall’Afghanistan e la nascita dell’Aukus in funzione anticinese.
La Germania ha vissuto in modo amplificato il senso di frustrazione e di sgomento di tutta Europa per l’abbandono di Kabul. La missione in Afghanistan è stato il primo grande dispiegamento di truppe tedesche dalla seconda guerra mondiale. Molto contrastata – l’allora cancelliere Gerhard Schröder dovette superare formidabili resistenze nel suo stesso partito – rappresentava l’occasione per dimostrare che la Germania era cambiata. Sebbene le sue truppe fossero di stanza nella parte settentrionale del paese – relativamente pacifica – quasi 60 soldati tedeschi hanno perso la vita lì. La Germania ha investito diversi miliardi in Afghanistan durante quel periodo e ha accolto migliaia di rifugiati.
Ma la missione è rimasta controversa. In un film tedesco del 2014, Inbetween Worlds, che racconta la storia di amicizia tra il soldato tedesco Jesper e il suo giovane interprete afgano Tarik c’è un dialogo fulminante: “A volte mi chiedo”, dice il soldato al giovane interprete dopo essere sopravvissuto a un attacco, “facciamo mai la differenza o è solo un fottuto spreco?”. Una domanda che rimbomba ancora nella testa delle autorità tedesche. E che ripropone la necessità di una difesa comune europea per non ritrovarsi di nuovo nei guai di fronte ai cambi di strategia degli Stati Uniti.
Né l’Unione europea può restare ancora vincolata alla tradizionale divisione dei ruoli tra Francia e Germania: con la prima specializzata nelle questioni militari e la seconda a fare da traino dell’economia. Basterebbe pensare ai pasticci provocati da Parigi in Libia e nel Mediterraneo. E, di recente, all’accordo sui sottomarini nell’Indo-Pacifico: una vicenda nella quale la Francia, unica potenza dell’Ue dotata di arma atomica e di un seggio al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, è stata marginalizzata in un baleno dal patto trilaterale tra Usa, Uk e Australia. Senza contare che Emmanuel Macron sarà impegnato nella corsa all’Eliseo fino all’aprile del 2022.
Di fronte ai cambiamenti geopolitici in corso – che rischiano di approfondire il solco tra i “due occidenti”: da un lato, l’Unione europea, e, dall’altro, gli Usa con i loro speciali alleati anglofoni – il prossimo governo tedesco sarà chiamato ad assumere una posizione più netta rispetto al passato. Nei confronti della Cina, per esempio, la Merkel aveva assunto un atteggiamento attendista, ispirato dalla tutela degli scambi commerciali tra i due paesi piuttosto che dalla sfida esistenziale che oggi assilla Joe Biden. Ma è molto difficile capire adesso come la Germania declinerà i principi dell’europeismo e dell’atlantismo in politica estera. Il prossimo governo sarà il frutto di una coalizione di almeno tre partiti e potrebbero servire dei mesi prima di venirne a capo.
La difesa comune europea e la partecipazione agli impegni della Nato saranno tra i temi della trattativa. La Cdu si presenta come il “partito della Bundeswehr” (le forze militari tedesche), pone la massima enfasi sulla difesa e professa il più forte impegno per l’alleanza transatlantica: per il partito guidato da Armin Laschet gli Stati Uniti sono il “partner più importante nella politica mondiale” della Germania e la Nato rappresenta “la spina dorsale della sicurezza euro-atlantica”. Al punto che la Cdu sostiene esplicitamente l’obiettivo di portare al 2% del Pil il finanziamento della Nato (come aveva chiesto anni fa Barack Obama). Sul punto la Spd – che ha vinto di poco le elezioni sotto la guida di Olaf Scholz – pur riconoscendo la Nato come pilastro chiave del partenariato strategico è ancora fredda sia sull’obiettivo del 2% che sulla condivisione del nucleare sotto l’ombrello transatlantico. Per parte loro, i Verdi, rifiutano esplicitamente l’obiettivo del 2% e chiedono una “Germania libera dalle armi nucleari”. La Fdp, il partito liberale democratico, condivide con i Verdi “l’obiettivo a lungo termine di un mondo libero dalle armi nucleari”, ma concorda con la Cdu sull’idea di aumentare i contributi finanziari per la Nato. I liberali, inoltre, si distinguono per la richiesta di “sovranità strategica” europea – espressione che richiama la “autonomia strategica” più volte invocata da Macron in chiave anti-Nato – e di una politica estera e di sicurezza europea più forte, con la realizzazione di un esercito europeo comune. L’obiettivo della autonomia strategica europea potrebbe rappresentare un punto di contatto tra Fdp e Verdi, convinti del ruolo centrale della cooperazione franco-tedesca. Ma i Verdi chiedono anche un cambio di paradigma nella politica migratoria dell’Ue. Visto l’assortimento delle posizioni, sarà davvero complicato trovare un compromesso troppo spinto in ciascuna delle possibili direzioni. E poi si sa: la Germania non è affatto un paese incline a trasformazioni radicali improvvise. Ma l’ampiezza delle sfide globali non può più tollerare timidezze sul fronte della difesa comune.
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