
29 Gen Disuguaglianza: la vera emergenza educativa che investe il paese
di Marco Campione
Questa riflessione vuole partire da una curiosa, ma anche molto istruttiva, coincidenza. Mentre la Camera approvava, il 3 dicembre scorso, la legge di conversione del cosiddetto decreto scuola (il 126/2019), nelle stesse ore veniva presentato il rapporto Ocse-Pisa sugli apprendimenti dei quindicenni nei paesi dell’area Ocse. La legge sarebbe poi stata approvata in via definitiva al Senato senza modificazioni il 20 dicembre.
Il dibattito sul personale oscura i veri problemi del sistema
Considero la coincidenza temporale istruttiva perché ha messo ancor più in evidenza come il dibattito pubblico sulla scuola sia abbastanza scollato dai veri problemi di sistema, quelli per le cui conseguenze a pagare sono prima di tutto gli studenti e quindi – a cascata – il paese. Il dibattito non a caso si scalda solo quando si parla di personale. La politica, in particolare, dopo la parentesi del governo Renzi, che ha provato (fallendo, per ragioni che non c’è modo qui di approfondire) ad alzare lo sguardo, sembra essere tornata ad occuparsi di scuola facendo coincidere le politiche scolastiche con le politiche per il personale, in particolare quello precario.
Voglio essere chiaro sul punto: anche sul tema del precariato il decreto scuola è molto migliorato rispetto a quello uscito “salvo intese” da uno degli ultimi consigli dei ministri del governo giallo-verde, visto che ciò che per Bussetti doveva essere una sanatoria è diventato un concorso riservato. Ciò è avvenuto per tre fattori figli della “Crisi del Papeete”: l’impegno della nuova maggioranza parlamentare coesa sulla richiesta di docenti di qualità; il lavoro delle nuove inquiline di Viale Trastevere, Azzolina e Ascani, sinergico e coerente con questo nuovo orientamento; l’uscita dalla maggioranza del leghista Pittoni (vero ispiratore del decreto poi abortito).
I due tipi di precariato
E voglio essere altrettanto chiaro su un secondo punto: il precariato esiste ed è un problema. Anche per gli studenti. Però ci sono due tipi di precariato scolastico, quello che chiamo «fisiologico» e quello che chiamo «patologico».
Alla prima categoria appartiene il personale che serve per sostituire docenti di ruolo momentaneamente assenti perché in malattia, in maternità o paternità, in comando o altro, ovvero il personale da impiegare per coprire l’ordinario turn over tra un concorso e l’altro.
Alla seconda categoria appartiene invece il personale che viene impiegato per occupare a tempo determinato posti in organico per i quali non ci sono candidati con tutti i requisiti per essere assunti a tempo indeterminato. Alcuni esempi: concorsi con più posti che candidati; vincitori di concorso che chiedono il trasferimento o l’assegnazione provvisoria (legge 104 o altro); per il sostegno, paghiamo anche la mancanza di candidati con relativa specializzazione.
Chi vuole male alla scuola e ai precari usa la fisiologia per giustificare la patologia. Il precariato fisiologico può essere ridotto, ma in parte esisterà sempre; ad esempio con i governi Renzi e Gentiloni in quattro anni di duro lavoro, pagando anche un prezzo in termini di consenso, è stato portato dal 20% circa a poco più del 10%; con Bussetti è tornato a sfiorare (secondo alcuni sindacati a superare) il 20%.
La questione delle diseguaglianze
Lo ribadisco, il precariato patologico è un cancro della scuola italiana ed è alla base di molti dei suoi problemi. Quello che si dimentica, però, è che sta alla base di molti dei suoi problemi, ma non di tutti, come invece si tende a far credere.
Prendiamo ad esempio i problemi di cui ci parlano le rilevazioni nazionali (INVALSI) e internazionali (PISA, che non indica l’Università toscana, come a volte si legge, ma è l’acronimo di Programme for International Student Assessment) e che possiamo riassumere in una sola parola, diseguaglianze. Diseguaglianze tra l’Italia e i paesi comparabili al nostro, tra Nord e Sud del paese, tra liceali e studenti dell’istruzione professionale, tra maschi e femmine, tra chi vive in situazioni di marginalità e chi ha la fortuna di nascere in una famiglia senza particolari criticità sociali o economiche.
Disuguaglianza: questa è la vera emergenza educativa che investe il paese, il principale fallimento del sistema, con il quale le scuole e le famiglie fanno i conti ogni giorno.
La scuola degli editorialisti
E la scuola riflette ogni giorno su come migliorarsi, anche grazie agli strumenti che il sistema di valutazione le mette a disposizione. Noi invece troppo spesso, quando parliamo di qualcosa che non siano questioni micro-settoriali, parliamo di bocciare o rimettere la predella in classe, della nostalgia per il dettato o per le poesie imparate a memoria… e via con gli “ah, signora mia! com’era bella la scuola che facevo io…”, scuola che è quasi sempre il liceo classico, per lo più del centro storico, spesso di una grande città a caso, verosimilmente – vista l’età media degli editorialisti – di più o meno mezzo secolo fa.
Più soldi. Ma per fare cosa?
Quando non si sfiora il paradosso di parlarne per usare le prove Invalsi o Ocse per chiedere più soldi, ovviamente dopo aver progettato di abolire l’obbligatorietà delle prove Invalsi, come nel caso dell’ormai ex Ministro Fioramonti. Più soldi senza mai dire però per fare cosa.
Per consentire a tutte le famiglie che lo desiderano di mandare il proprio figlio al nido servono soldi, ma allora lo si dica così. Per costruire nuove scuole, adeguate ad una didattica più efficace, servono soldi, ma allora lo si dica così. Per mandare i docenti migliori nelle scuole con i risultati peggiori, pagandoli quanto meritano, servono soldi, ma allora lo si dica così. Per riformare il primo ciclo (elementari e medie), imparando dai paesi che hanno risultati migliori dei nostri, non servono soldi (anzi, probabilmente se ne risparmiano pure), eppure non lo si dice mai. E potrei continuare con altri esempi di misure che, è provato da una vasta letteratura, potrebbero – quelle sì – aggredire le disuguaglianze evidenziate dalle prove che stiamo commentando.
Quando i ministri chiedono soldi, invece, lo fanno “per poter pagare di più i docenti”, cosa sacrosanta, ma allora – di nuovo – lo si dica così. Servono mal contati un paio di miliardi solo per adeguare gli stipendi al costo della vita, che si tradurrebbe in un aumento di 80 euro al mese a tutti. Giusto, ma lo si dica così, senza tirare in ballo i dati PISA, che non sarebbero per nulla modificati da un aumento indiscriminato degli stipendi dei docenti. Non ridurrebbe di un epsilon le disuguaglianze che stanno alla base dell’emergenza educativa palesata dai dati e che ho sommariamente riassunto prima.
Alzare lo sguardo e ragionare da riformisti
Non sto mettendo in contrapposizione la rimozione delle diseguaglianze tra gli studenti con il diritto dei precari storici ad essere assunti e quello dei docenti ad essere pagati di più. Dico però che vorrei tornassimo ad alzare lo sguardo e –se si vogliono aggredire i nodi del precariato e degli stipendi– a ragionare da riformisti: ripensare il reclutamento e la formazione dei docenti e implementare finalmente le loro carriere, che oggi non esistono se non per anzianità; unica professione in tutto il mondo lavorativo, pubblico o privato, quella del docente, che non preveda una o più carriere. Questo sì che attirerebbe le migliori intelligenze del paese e ci avvicinerebbe agli altri paesi comparabili al nostro, contribuendo anche a ridurre le diseguaglianze.
Dobbiamo tutti sforzarci di affrontare questi problemi tenendo sempre presente che la scuola è per gli studenti e che se la scuola non riesce ad essere strumento di riscatto e di azzeramento delle diseguaglianze sociali, economiche e territoriali non svolge il compito che la Costituzione impone alla Repubblica: “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. E scusate se è poco.
Nota dell’Autore: il contributo seguente è una versione aggiornata e ampliata di un articolo comparso sul magazine Il Sussidiario il 9 dicembre 2019.
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