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Documento/ “Firma, se vuoi che cambi il paese…”

di Pietro Scoppola

Pubblicato su Repubblica, il 10 aprile 1990

 

La raccolta delle firme per i referendum sulle leggi elettorali ha inizio, oggi, in piena campagna per le elezioni amministrative.

La coincidenza anche se inevitabile, non è felice e rende più urgente un chiarimento e una sottolineatura: questi referendum tendono a mettere in discussione le regole del confronto politico; vogliono modificare per quanto possibile con lo strumento referendario il sistema proporzionale vigente; ma non sono finalizzati al successo di un partito o di uno schieramento.

Il fatto stesso della varietà di orientamenti politici presenti nei comitati promotori dei tre referendum è una garanzia in questo senso; è il segno caratteristico di una iniziativa che fa appello alla società civile prima che ai partiti, che anzi mette in discussione i partiti nel loro rapporto con la società e con le istituzioni. Questa iniziativa referendaria, del tutto nuova ed originale ha l’ambizione di portare almeno un piccolo contributo alla soluzione di un problema civile di grande respiro: quello della costruzione nel nostro paese di un senso e di un esercizio della cittadinanza sin qui incerto e incompiuto.

Circostanze storiche a tutti note dalla lacerazione legata alla questione romana, al riferimento del movimento operaio fin dal primo dopoguerra e per molti decenni ad una patria del socialismo hanno ostacolato il formarsi di quella coscienza di una cittadinanza comune, come dato di cultura popolare, che è operante in altri paesi. La cittadinanza è da noi una nozione giuridica e non ha un forte rilievo antropologico; non esprime il senso di una appartenenza collettiva. Le appartenenze collettive sono rimaste sempre, in Italia, appartenenze di parte.

Dopo che il fascismo aveva costruito una società di massa, aveva realizzato cioè quel processo di nazionalizzazione delle masse, del quale George Mosse ha ricercato le origini, la rinascita democratica non poteva passare che attraverso la mobilitazione di massa di cui i grandi partiti popolari erano capaci. La proporzionale, prima che da ogni altro motivo, fu nell’immediato dopoguerra imposta da questo dato profondo della società italiana: solo in un sistema che consentisse agli italiani di esprimere in forma equilibrata le loro appartenenze separate era possibile la rinascita democratica.

È su questo terreno che si colloca l’insuccesso del partito d’ azione. Giuseppe Tamburrano in cordiale polemica con un mio precedente intervento su queste pagine ha insistito sugli orientamenti presidenzialisti di quel partito. Non li ho negati. Ma si trattava di un presidenzialismo assai diverso da quello oggi rilanciato dal partito socialista: il partito d’ azione guardò al presidenzialismo americano come alternativa al parlamentarismo dell’Europa continentale e mai immaginò di sovrapporre ad un sistema parlamentare l’elezione diretta di un capo dello Stato; e in ogni caso abbandonò la proposta all’inizio dei lavori della Costituente. Ma la ragione vera e profonda del fallimento del partito d’azione, non ostante il suo altissimo impegno intellettuale e morale, fu nella sua incapacità di fare i conti con la realtà nuova della società di massa.

Ora la proporzionale non è più una necessità della democrazia italiana ed è diventata invece lo strumento della partitocrazia, il presupposto della lottizzazione e della corruzione. Passare da un sistema proporzionale ad un sistema in cui i cittadini possano formare con il loro voto una maggioranza ed un governo significa passare, secondo la felice definizione di Maurice Duverger, dalla espressione di una opinione alla espressione di una volontà, dal desiderio al possibile. Il passaggio dal desiderio al possibile è appunto il passaggio della maturità.

Il sistema di alternanza divide il paese ma lo unisce nell’esercizio di una volontà efficace e di una responsabilità comune. I cittadini che decidono, che subiscono le conseguenze delle loro decisioni e che possono cambiare il governo della loro città o del loro paese sono più responsabili e maturi dei cittadini che esprimono in piena libertà solo opinioni e desideri: in una parola sono cittadini in una maniera più compiuta. Questo è il significato di fondo, culturale e civile, della iniziativa: si tratta di un referendum per i cittadini. Su questo significato di fondo si innestano tutti gli aspetti istituzionali.

Augusto Barbera in un saggio in corso di pubblicazione nella rivista Democrazia e diritto ha ben illustrato che questo passaggio ad un sistema più immediato di partecipazione politica non esclude la possibilità di una elezione diretta del primo ministro, ma presuppone comunque la riforma elettorale e il superamento della proporzionale. Una riforma elettorale che garantisca agli elettori la possibilità di formare una maggioranza in Parlamento potrebbe unirsi cioè ad una elezione diretta del capo del governo (una proposta questa discutibile e da verificare sotto altri profili) ma in ogni caso non è fungibile e non può essere cioè scambiata con l’elezione diretta del capo dello Stato.

E’ molto importante e positivo perciò che Achille Occhetto abbia chiarito su Repubblica, senza possibilità di equivoci, che il suo partito, pur cercando un confronto sulle proposte istituzionali socialiste, non rinuncia alla modifica della legge elettorale e perciò non recede dall’orientamento già espresso di interesse e favore al referendum elettorale.

Sul tema della riforma elettorale il riformismo socialista dovrà seriamente misurarsi. Do volentieri atto a Tamburrano di aver sempre sostenuto, distinguendosi dal suo partito, la necessità anche della riforma elettorale: ma questo favore dovrebbe esprimersi, dopo che il Parlamento ha perso l’ occasione che gli offriva, nel gennaio scorso, la discussione della legge sulle autonomie locali, anche in un sostegno ai referendum elettorali. E’ evidente ormai che senza la sollecitazione di una iniziativa popolare la proporzionale non sarà intaccata. Proprio perché questi referendum non sono e non vogliono essere di parte sarebbe assai significativo che la testimonianza di Massimo Severo Giannini in favore dei referendum non restasse isolata in area socialista. Su questa linea si sono già collocati esponenti autorevoli di area laica (come il senatore Valitutti) aderendo al comitato per il referendum o quanto meno riconoscendo il significato positivo dell’iniziativa referendaria come stimolo al Parlamento (si veda in questo senso un recente articolo di Andrea Manzella sulla Stampa).

Nello stesso senso sarebbe auspicabile una maggiore sensibilità della Dc, e in specie di quelle correnti che in essa hanno sempre mostrato una viva attenzione ai temi istituzionali. La preoccupazione che il delinearsi in Italia di un sistema di alternanza, necessariamente bipolare, ponga la sinistra Dc di fronte a scelte difficili, è comprensibile e degna di attenta analisi. Ma non può la sinistra Dc propter vitam vivendi perdere causam: sarebbe davvero incomprensibile che proprio quella componente del partito di maggioranza relativa che nella sua lunga storia ha più tenacemente operato per l’ ampliamento delle basi di consenso alla democrazia italiana, prima con l’impegno per il centro sinistra e poi con quello per la solidarietà nazionale, rinunciasse a dare il suo apporto al passo ultimo e decisivo verso quella che Aldo Moro definiva la democrazia compiuta, che si ha solo là dove, sulla base di un patrimonio comune di valori democratici, gli elettori possono con il loro voto formare maggioranze alternative e reversibili per il governo del paese.

Il referendum è e deve restare una iniziativa della società civile non finalizzata a un predeterminato mutamento dei rapporti di forza fra i partiti: le simulazioni che già si tentano per prevedere cosa accadrebbe se il referendum sul Senato passasse trascurano il fatto che, modificando le regole, anche i comportamenti elettorali cambiano profondamente.

Per questo si è chiesto e si chiede, dai promotori, a tutte le aree culturali e politiche interesse e favore e a tutti gli elettori un impegno attivo per la conquista di un esercizio più pieno dei loro diritti di cittadini.

Pietro Scoppola
scoppola@per.it

Pietro Scoppola (1926-2007) è stato uno dei principali esponenti del cattolicesimo democratico. Docente universitario dal 1973, è stato professore ordinario di Storia contemporanea all'Università La Sapienza di Roma. Dal 1950 al 1973 è funzionario al Senato. Nel 1974 fu tra i promotori dei Comitati per il "no" al referendum sul divorzio. È stato tra i promotori della Lega Democratica (1975). Nella IX legislatura (1983-1987) è senatore indipendente nelle liste della Dc. A partire dal 1990 è tra i promotori dei referendum per la riforma della legge elettorale.

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