Dopo la riduzione del numero dei parlamentari: quali riforme costituzionali? - Fondazione PER
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Dopo la riduzione del numero dei parlamentari: quali riforme costituzionali?

di Salvatore Curreri

 

La netta approvazione referendaria della riforma costituzionale sulla riduzione del numero dei parlamentari pone il tema dell’approvazione di quelle che nella campagna referendaria sono state definite “integrazioni” (dai sostenitori del SI) o “correzioni” (da quelli del NO) costituzionali.

Ciò premesso, come noto sono tre le riforme costituzionali attualmente in discussione conseguenti alla riduzione del numero dei parlamentari.

La prima riguarda la riduzione da tre a due del numero dei delegati per ciascuna regione (Valle d’Aosta esclusa) chiamati ad eleggere il Presidente della Repubblica così da ridurne il numero complessivo (da 58 a 39) e mantenerne l’originaria proporzione rispetto agli altri parlamentari (dall’attuale 6,10% al futuro 6,44%). Personalmente, però, non vedo la necessità di tale riforma perché il maggiore peso percentuale che oggi hanno i delegati regionali (58 su 605 “grandi elettori”, pari al 9,58%) non solo non altererebbe gli equilibri politici delle camere (i due delegati sarebbero con tutta probabilità uno della maggioranza e uno dell’opposizione, visto il limite del 60% dei seggi alla coalizione vincente previsto dalle leggi elettorali regionali) ma anzi risulterebbe funzionale all’elezione di un organo chiamato a rappresentare l’unità nazionale anche in senso territoriale, essendo la Repubblica “costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato” (art. 114.1 Cost.).

La seconda riforma (c.d. Fornaro) riguarda l’abolizione della “base regionale” che oggi caratterizza l’elezione del Senato, così da ovviare al fatto che, in conseguenza della approvata riduzione, il numero dei senatori da eleggere in alcune regioni sarà così minimo (3 in Umbria e Basilicata; 4 in Friuli Venezia Giulia, 5 in Sardegna e Marche) da trasformare in pratica la formula elettorale da proporzionale a maggioritaria. Intento condivisibile che però dovrà tenere conto che la definizione di circoscrizioni pluriregionali comprendenti regioni dalla popolazione non equivalente potrebbe comportare il rischio dell’aggiudicazione di tutti i seggi in palio nella regione maggiore. È quello che accade nella circoscrizione insulare per le elezioni del Parlamento europeo dove, tranne rare eccezioni, i candidati siciliani prevalgono su quelli sardi.

Infine, la terza riforma riguarda la parificazione dell’elettorato attivo e (forse) passivo tra le due camere, cosicché per votare ed essere votati al Senato occorrerebbero la stessa età (rispettivamente 18 e 25 anni) oggi prevista per la Camera, così da ridurre il rischio (di per sé impossibile da eliminare) di avere maggioranze diverse in camere chiamate ad esercitare le medesime funzioni.

Il filo rosso che lega queste ultime due riforme è l’eliminazione dei pur marginali elementi di differenziazione esistenti oggi tra le due camere, con conseguente loro pressoché totale assimilazione, tranne che per il numero dei componenti e la presenza dei senatori a vita. Il fine è chiaro: unificare il più possibile l’attività parlamentare delle due camere, valorizzandone ad esempio gli organi bicamerali.

Non a caso – al di là delle suddette riforme in discussione – il Partito democratico ha di recente presentato una proposta di riforma costituzionale che, tra l’altro, prevede di ampliare le attribuzioni del Parlamento in seduta comune, grazie anche al fatto – a tutti sfuggito benché evidente – che grazia alla riduzione del numero dei parlamentari suoi membri, esso si potrà molto più facilmente riunirsi nell’Aula della Camera.

Obiettivo di tale proposta è fare di questa terza camera, finora dalle limitate attribuzioni per lo più elettorali (a cominciare dall’elezione del Presidente della Repubblica), “la sede unitaria di definizione dell’indirizzo politico nazionale”. Essa infatti, sarebbe chiamata a prendere le decisioni più importanti: voto di fiducia (a maggioranza semplice) e di sfiducia (costruttiva ed a maggioranza assoluta) al Governo; approvazione della legge di bilancio e autorizzazione al c.d. scostamento di bilancio; approvazione della leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali: audizione delle comunicazioni che il Presidente del Consiglio deve svolgere prima (con eventuale formulazione di indirizzi) e dopo i Consigli europei; infine, conversione dei decreti legge.

In attesa di ulteriori approfondimenti, tale proposta di riforma si presta fin d’ora ad un paio di brevi considerazioni

In primo luogo, l’ampliamento delle attribuzioni costituzionali del Parlamento in seduta comune si colloca nella prospettiva del superamento del nostro bicameralismo paritario. La novità sta nel fatto che tale tendenza si traduce nella concentrazione dei poteri di indirizzo politico non, come finora proposto, nella Camera dei deputati, con conseguente trasformazione del Senato in camera “non politica”, ma nel Parlamento in seduta comune, composto da membri eletti allo stesso modo (da qui la proposta di far eleggere i senatori dai diciottenni in circoscrizioni non più regionali).

In secondo luogo l’accentramento del potere fiduciario nel Parlamento in seduta comune dovrebbe garantire, nelle intenzioni dei proponenti, “una più sicura stabilità al Governo”. In questo senso, come detto, vanno: l’attribuzione al Presidente del Consiglio del potere di proporre al Presidente della Repubblica non solo la nomina ma anche la revoca dei ministri; l’introduzione della sfiducia costruttiva e la sua approvazione da parte ora delle camere riunite a maggioranza più elevata (assoluta) rispetto a quella (semplice) richiesta in sede di fiducia, con ulteriore rafforzamento della possibilità – già com’è noto vigente – di governi di minoranza.

Ma l’obiettivo di rafforzare in tal modo la stabilità di governo sembra, per così dire, fuori portata per la semplice, ma decisiva considerazione che, tranne le crisi parlamentari del governo Prodi (1998 e 2008) e quella semiparlamentare del governo Conte I (dimessosi il 20 agosto 2019 a seguito della mozione di sfiducia, poi ritirata, della Lega per Salvini), tutte le crisi di governo sono state extraparlamentari, cioè insorte a seguito di dissociazioni di parte della maggioranza di governo, con conseguenti dimissioni spontanee del Presidente del Consiglio. Sotto questo profilo dunque le disposizioni costituzionali proposte possono solo costituire un deterrente ragionevole alle crisi parlamentari, ma non a quelle extraparlamentari.

Invero, l’obiezione è ben presente agli autori del progetto i quali prevedono l’obbligatoria parlamentarizzazione delle crisi generate dalle dimissioni volontarie del Presidente del Consiglio il quale, prima di rassegnarle al Presidente della Repubblica, sarebbe obbligato a comunicarne le motivazioni al Parlamento in seduta comune. La parlamentarizzazione della crisi risponde senz’altro all’esigenza di renderne pubbliche le motivazioni. Di contro è pur vero che talora questo pubblico passaggio parlamentare è stato evitato proprio per non acuire i motivi di contrasto tra le forze politiche di maggioranza in misura tale da rendere ancor più difficoltoso il compito del Presidente della Repubblica di nomina del nuovo esecutivo. Insomma, la parlamentarizzazione della crisi può risolversi in una forma di “accanimento terapeutico” inutile e anzi dannoso ai fini della prosecuzione della legislatura.

Tirando le somme, il progetto di riforma del Partito democratico va senz’altro nella condivisibile direzione di superare il bicameralismo paritario, concentrando le funzioni d’indirizzo politico non nella Camera dei deputati ma nel Parlamento in seduta comune. La coesistenza di tale terzo organo con le altre due camere pone però problemi di reciproco coordinamento che sono ovviamente non solo tecnici ma politici e che per questo potrebbero aggravare, anziché semplificare, il funzionamento delle nostre istituzioni di governo.

In realtà tale soluzione pare solo un modo di aggirare il vero problema del nostro sistema istituzionale di governo, e cioè quel bicameralismo che, se venissero approvate le riforme di cui si diceva all’inizio in tema di base elettorale ed elettorato attivo e passivo, verrebbe reso ancor più paritario.

Una simile totale assimilazione tra le due camere, unitamente all’accentramento della direzione politica nel Parlamento in seduta comune, potrebbe indurre prima o poi ad interrogarsi se siano ancora attuali e fondate le ragioni per cui debbano esistere due camere pressoché identiche che esercitano le medesime funzioni o se non sia piuttosto arrivato finalmente il momento di fare della Camera dei deputati l’unica camera politica e di trasformare il Senato in sede istituzionale di raccordo tra Stato ed autonomie territoriali, completando a vent’anni di distanza la riforma del Titolo V con quel tassello di cui l’attuale emergenza pandemica ha impietosamente rilevato la mancanza.

  

Salvatore Curreri
curreri@perfondazione.eu

Professore in Istituzioni di Diritto pubblico – Libera Università degli Studi di Enna “Kore”

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