
05 Nov Dopo l’assalto terroristico di Vienna, serve una Ue geopolitica
di Michele Marchi
Uno schiaffo in pieno volto. Questo è stato, per il Vecchio continente, l’assalto di Vienna, a pochi giorni dalla strage nella cattedrale di Nizza e a due settimane dalla decapitazione del martire laico, il professor Samuel Paty.
Rispetto al contesto francese, ci si è dovuti sorbire la solita penosa litania di interventi, la maggior parte dei quali ancorati saldamente al “vangelo laico” del politicamente corretto e alla nouvelle vague post-coloniale. Sono stati elencati in ordine sparso: la tradizione imperiale, gli errori in Algeria, il fallimento del modello di integrazione, la laicité del 1905 da leggersi come laicismo assoluto, la legge sul velo, le bombe in Libia, quelle in Siria e la missione in Mali. Per concludere, in fin dei conti, con il grossolano (e in alcuni ambienti compiaciuto) “se la sono cercata, i soliti francesi”. Non vale la pena sprecare righe per replicare a chi, nemmeno troppo indirettamente, ritiene che da Chirac in poi la Francia della Quinta Repubblica in fondo sia causa del proprio male. Ma quando ad essere attaccata è l’immune, almeno nell’ultimo trentennio, Austria anche i più accaniti benpensanti qualche domanda se la cominciano a porre. E assieme alle domande vale forse la pena fermarsi a riflettere e almeno sospendere per un secondo la giustificata ma a tratti eccessiva, isteria da Covid 19, per rendersi conto che il mondo della pandemia non ha annullato altre e allo stesso modo pericolose minacce. Il rischio terrorismo, in parte chiuso fuori dalla porta, oggi rientra dalla finestra. Cosa ci ricordano i tragici fatti di Conflans, Nizza e Vienna?
Prima di tutto dovrebbero ricordarci il primato e l’importanza del sistema educativo. Per questa ragione il professore di storia, geografia ed educazione civica è un martire laico e quell’orrendo sgozzamento recide, anche simbolicamente, quella che dovrebbe essere l’arteria vitale dello sforzo europeo per l’educazione, la civilizzazione e di conseguenza l’integrazione. Limitarsi a definire quello accaduto a Conflans il gesto di un folle ed esaltato significa rendere quella morte del tutto inutile. L’Europa dovrebbe guardare all’interno del buco nero che si è spalancato a Conflans e da quello specchio infranto prendere atto dei propri fallimenti. Ma ripartire dalla scuola, non a parole e con i fatti, significherebbe inondare il comparto educativo di fondi e progetti innovativi, per costruire lì il primo argine ad ogni forma di violenza e discriminazione.
In secondo luogo il ritorno del jihad nelle nostre città impone un ripensamento nell’allocazione delle risorse, siano esse nazionali o di provenienza europea. L’emergenza pandemica ha spostato tutta l’attenzione e con essa le risorse sul comparto sanitario. Tutto corretto, così come è condivisibile il rilancio all’insegna del green e del digitale. Ma attenzione il rischio è doppio. Da un lato la “coperta è corta” e tirandola tutta da una parte si finisce per lasciare ampie zone senza tutela. Dall’altro lato sicurezza significa polizia, ma anche intelligence e innovazione scientifica applicata alla difesa (con ricadute certe in ambito civile), così come alta formazione ed investimenti in progetti di ricerca che, anche dal punto di vista delle scienze sociali, storiche, politologiche e antropologiche aiutino a comprendere ed approfondire le aporie della nostra contemporaneità. I tagli ai fondi solitamente destinati a questi ambiti sembrano dimostrare quanto le istituzioni europee non abbiano a fuoco la situazione.
Infine il nuovo composito attacco al cuore dell’Europa riporta in primissimo piano l’importanza di una Ue geopolitica, evocata da von der Leyen di recente, ma anch’essa in larga parte travolta dall’ondata epidemica. Senza dilungarsi sull’ennesimo richiamo alla necessità di una politica estera comune, ciò che drammaticamente sembra mancare in questa delicata fase è un senso di comunità, un idem sentire de re publica e la convinzione che esistano interessi comuni e strumenti allo stesso modo “europei”, accanto a e oltre a quelli nazionali, per affrontare alcune sfide, prima di tutto quella turca nell’area mediterranea, alla quale aggiungere quella cinese e quella russa. L’obiettivo non è quello di edificare la cosiddetta “fortezza Europa”, materialmente almeno quanto idealmente fuori tempo e fuori luogo. Se il Covid 19 ha evidenziato tutti i rischi di dipendere dalla produzione estera per il materiale sanitario, l’ennesimo attacco terroristico al cuore dell’Europa impone l’articolazione di una complessiva strategia di contrasto ad ogni forma di estremismo, con gli strumenti della politica, dell’economia e della cultura. Sovranità industriale e investimenti sulla sicurezza (in una declinazione articolata e multiforme) sono due facce della stessa medaglia. E solo un apparato istituzionale moderno ed efficiente può permettere di affrontare più crisi contemporaneamente.
L’avvio di questo terzo decennio del XXI secolo sembra presentare all’Europa un conto salatissimo, paiono venire al pettine tutti i nodi le cui radici affondano nell’incapacità di rivedere la propria missione nel mondo, il proprio modello di sviluppo economico e di convivenza una volta esauritasi la rendita di posizione connessa con lo scontro bipolare. L’Europa, e in particolare il suo progetto comunitario, nel post ’89 avrebbero dovuto adattare l’architettura istituzionale e di governance in modo da autonomizzarsi progressivamente (prima di tutto dalla tutela statunitense) con un unico e coerente obiettivo: quello di trasformarsi in una potenza regionale. Tempo scaduto?
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