Giorgio Armillei: Il sogno di una sinistra liberale del XXI secolo - Fondazione PER
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Giorgio Armillei: Il sogno di una sinistra liberale del XXI secolo

di Carlo Fusaro*

 

Sono qui raccolti cinquanta articoli in tema di politica ed istituzioni scritti da Giorgio Armillei nell’arco dei dodici anni che vanno dalla fine del 2010 alla fine di maggio del 2021, a una sola settimana dalla sua improvvisa scomparsa. I curatori li hanno selezionati fra molti di più, perché Armillei è stato un commentatore attento, costante, puntuale delle vicende politico-istituzionali del nostro paese.

Questi scritti ce lo presentano nella sua veste di coerente ed impegnato protagonista del gracile riformismo italiano, vera e propria coscienza critica di una sinistra che egli vedeva troppo spesso vittima dei suoi falsi miti identitari (e perciò incapace di vero buon governo e a rischio permanente di sconfitta elettorale).

Proprio per la ricerca di un’altra (terza, quarta?) via, egli era stato sin dall’inizio convinto sostenitore del progetto – prima di tutto culturale, poi politico – che aveva dato luogo alla nascita del Partito democratico: progetto al quale rimase fedele, come vedremo, fino all’ultimo, segnalando implacabilmente l’apparentemente ineluttabile precoce tradimento di esso da parte di buona parte dei dirigenti di quel partito (diciamo a partire dalle dimissioni-rinuncia di Walter Veltroni, con la sola parentesi della segreteria di Matteo Renzi fra 2013 e 2016).

Questi articoli costituiscono perciò la testimonianza coerente e lucida di una battaglia culturale cui Armillei non rinunciò mai, convinto che, al di delle contigenti, molteplici sconfitte (prima fra tutte il «no» al referendum che affossò la riforma costituzionale nel dicembre 2016), l’approccio ai problemi italiani che egli, e coloro che la pensavano e la pensano come lui, propugnavano fosse ciò da cui il paese dovesse partire, se davvero voleva fare i conti con le proprie arretratezze: la vera rivoluzione democratica e liberale alla quale, invece, buona parte delle classi dirigenti ha sempre trovato il modo di sottrarsi, col sostegno di quella corposa parte della società civile che continua a rifiutarsi di fare definitivo ingresso nella modernità.

Il Giorgio Armillei di questa emblematica selezione emerge come un intellettuale informato e colto, mai provinciale o banale, sempre attento ai principali contributi del panorama internazionale, capace di muoversi con competenza e cognizione di causa nel grande campo delle scienze sociali, fra sociologia, scienza della politica, diritto, economia; in grado di ricondurre la valutazione puntuale degli eventi politici del momento a un proprio solido quadro interpretativo.

La lettura in successione dei testi che seguono ci restituisce un uomo dalla straordinaria freschezza di pensiero, mai schiavo dei luoghi comuni, specie della sinistra (anzi con la propensione a farsene, proprio da progressista, censore), rispettoso degli interlocutori quanto determinato a non farsi intimidire, coraggioso, a volte spregiudicato nei giudizi, scevro di diplomaticismi ed ipocrisie, senza sconti per nessuno né falsi timori (si pensi alla polemica retrospettiva contro l’atteggiamento di superiorità morale del Pci di Berlinguer, contro certi miti dell’azionismo statalista, contro parte dello stesso mondo cattolico democratico, a lui per tanti versi così vicino, per esempio contro Rosy Bindi: e altri esempi verranno nel prosieguo).

Gli articoli di questa prima parte del volume trattano una varietà di temi, alcuni occasionali, alcuni ricorrenti. Si occupano, secondo la distinzione di cui si serviva lo stesso Armillei, di politics e di singole policies. Fra queste ultime: politica delle istituzioni, riforme costituzionali ed elettorali, politiche del lavoro, pubblica amministrazione, rapporti centro-periferia (la questione del regionalismo differenziato), legislazione sulle grandi questioni etiche (fine vita, eutanasia, norme contro l’omofobia), ruolo delle corti e rapporti con la politica, giustizia e magistratura (con attenzione particolare negli ultimi anni e notevole approfondimento). Accanto a questi interventi tematici si ritrova una serie ricorrente di articoli sulla situazione politica più generale, sui partiti, sul Pd in particolare, e sulla sinistra in generale.

Gli uni e gli altri però, sia gli articoli sulle singole policies sia gli articoli di politica, risultano, e ci pare la cosa più importante, sorretti e argomentati sulla base di una precisa analisi di ciò che caratterizza oggi lo scontro politico nella società italiana e nelle altre democrazie occidentali.

A monte di questa impostazione analitica si collocano naturalmente le sue opzioni di fondo, le scelte valoriali (di principio e di metodo) dalle quali egli prende le mosse: ed è, naturalmente, ciò che conferisce coerenza ed omogeneità ad ogni singola sua valutazione, critica e proposta.

Giorgio Armillei si definisce a più riprese (tiene a definirsi si potrebbe dire), in riferimento al suo agire politico (ma vedi, con assoluta coerenza, la parte terza di questo libro), cattolico democratico liberale: laddove la sottolineatura sta in quel «liberale», nel quadro del filone cattolico autonomista e robustamente anti-statalista.

È proprio quell’aggettivo, cioè quella scelta ideale fondamentale, che lo mette in permanente rotta di collisione nei confronti di tutto il campo, in Italia così largo, dello statalismo, ovviamente di destra ma soprattutto di sinistra; contro una certa coniugazione dell’azionismo; contro quella che definisce la «sinistra del Novecento»; contro concezioni socialdemocratiche antiquate; contro il «dossettismo» (secon- do il quale allo stato spetterebbe, in ultima analisi, comunque e sempre, egli scrive, una funzione di ricapitolazione della dinamica sociale: si noti che mai una sola volta il termine «stato» compare con la maiuscola nei suoi scritti); contro il dirigismo; e prima di tutto contro le chiusure sovraniste nazionaliste e il populismo di destra e di sinistra, caratterizzati proprio da un mix pernicioso di statalismo e sovranismo.

Allo statalismo Armillei contrappone una concezione «poliarchica e non perfettista della società», che diffida di qualsiasi visione unificatrice dell’ordine (egli parla di ordini sociali e di beni comuni sempre al plurale mai al singolare). In un bell’articolo polemico nei confronti di Guido Rossi, dice, concludendo: «non c’è da qualche parte, là fuori, un ordine giusto con il quale salvarci dal male». Società aperta (quasi una citazione di Karl Popper), poteri divisi e condivisi appunto, poliarchia alla Robert Dahl, sussidiarietà, responsabilità di singoli e comunità. Ciò spiega, per esempio, il

«no» convinto (pur perdente) di Armillei ai mal concepiti e dannosi referendum sull’acqua del 2011: perché egli respinge in radice, da cattolico liberale, l’idea che lo stato e la pubblica amministrazione debbano detenere, quasi per definizione, il monopolio della tutela dell’interesse pubblico. E nell’ottobre 2011, significativamente, intitola un altro suo articolo così: Inscrivere lo stato nella sussidiarietà, non viceversa.

Coniugando l’alternativa apertura/chiusura in chiave sia interna sia internazionale, proprio quella egli considera la frattura oggi più rilevante: quella sulla quale ha vero senso politico dividersi, prima di quella destra/sinistra. Siamo del resto negli anni della grande crisi finanziaria, e del rivelarsi, in Italia, del vincolo europeo pur con le rigidità successiva- mente lamentate, ma causato soprattutto dall’irresponsabile e duratura leggerezza di quasi tutta la nostra classe dirigente: certo, con le eccezioni dei Carli, degli Andreatta, dei Ciampi, degli Amato e del primo Prodi. Del resto, statalisti (e aperturisti) ci sono sia a destra sia a sinistra.

Attardarsi, invece, a costruire strategie politiche su quell’antica e residuale frattura non porta la sinistra da alcuna parte: di qui la critica sempre severa in chi indulge in tale approccio. Al contrario, l’analisi di Armillei spiega il suo convinto impegno nei confronti della costruzione del Partito democratico quale partito a vocazione maggioritaria di tipo essenzialmente elettorale, dotato di leadership personalizzata scelta in forme aperte e competitive (le primarie): con tanto di necessaria eventuale identificazione fra guida del governo e guida del partito. Non a caso ricorrenti risultano i riferimenti alla relazione Vassallo ad Orvieto del 2006. Invece Armillei riteneva che l’ossessione per il fondamento sociale del partito e la pretesa di considerare il lavoro subordinato luogo privilegiato della dinamica sociale (tipici del laburismo socialdemocratico del Ventesimo secolo) nascondessero il vero bersaglio: quel tipo di nuovo partito. Insomma, accanto ai riflessi identitari e a non nascosti interessi personali (la ditta concepita come cosa propria), v’era (e vi è: da Zingaretti a Letta) il rifiuto di concorrere lealmente a costruire il Pd.

L’idea del partito a vocazione maggioritaria come strumento per candidarsi a governare efficacemente la modernizzazione del paese si iscrive per Armillei, a sua volta, in una strategia coerente di riforme costituzionali ed elettorali: fino all’espresso favore verso una revisione della forma di governo in senso semi-presidenziale, e comunque verso norme elettorale majority assuring. Di qui il suo appoggio verso il tentativo di Matteo Renzi, il sostegno convinto alla revisione costituzionale del 2014-2016: che partiva anche dalla persuasione che si trattasse di costruire i presupposti istituzionali del riformismo, e che proprio dalla riforma costituzionale, coordinata con quella elettorale, occorres- se partire («i partiti si cambiano cambiando la forma di governo», non viceversa). Coerentemente Armillei sarà a favore anche della riduzione dei parlamentari nel 2020, considerandola giustamente una piccola riforma che tutti hanno sempre voluto. Ci vorrebbe ben altro, ma non vedo, scrive, come il «no» renderebbe più agevole la strada verso quella seria revisione che ci vorrebbe.

Con questa impostazione Armillei si inserisce nel pieno solco del cattolicesimo democratico politico: non a caso, uno degli articoli più belli fra quelli che seguono è quello in cui, polemizzando con chi s’era azzardato a sostenere che la fascinazione dei cattolici democratici per il maggioritario fosse stata concausa del populismo (Francesco Cundari), rivendica con orgoglio le ragioni del movimento referendario di cui richiama tutti i padri nobili da Segni a Ruffilli a Barbera e l’impegno decisivo di Fuci ed Acli: è tutto l’opposto, ci dice, son le riforme incompiute, bloccate, sabotate, invertite che han concorso a produrre populismo. In realtà, «democrazia governante e sistema elettorale majority assuring sono le migliori polizze di assicurazione contro il populismo».

Altrove vanno cercate le radici del populismo: fra le quali Armillei non esita ad indicare il Berlinguer post-solidarietà nazionale con la sua affermazione della diversità del Pci, la sottolineatura della questione morale, il via libera strumentale al giustizialismo.

Coerenti con questa impostazione le sue polemiche contro il conservatorismo di tanti costituzionalisti, e contro le sentenze della Corte costituzionale 1/2014 e 35/2017 sulle leggi elettorali, il suo rifiuto dell’idea delle elezioni come – essenzialmente – strumento di rispecchiamento delle di- visioni esistenti nella società; e anche il rifiuto del mito del partito politico non come mero strumento per organizzare la selezione dei governanti (visione liberale), ma come «stru- mento collettivo della supremazia organizzata della politica sulla società» (visione statalista).

La convinzione che ciò che rimane della frattura destra/ sinistra vada iscritta nelle nuove e più rilevanti fratture aper- tura/chiusura, unionismo (europeo)/sovranismo, pluralismo/ populismo, garantismo/giustizialismo spiega perché l’ultimo Armillei sostenga con vigore la tesi dell’impercorribilità di qualsiasi collaborazione con il M5S: nella formazione del governo Conte I egli vede la conferma delle sue analisi, con gli opposti populismi che vanno a braccetto. La stessa suc- cessiva formazione del governo Conte II lo vede perplesso, anche se non rigidamente ostile (ma il titolo dell’articolo che scrive alla nascita dell’alleanza Pd-M5S, annunciata come eccezionale, significativamente recita: Ricordarsi di staccare la spina). Coerentemente il suo dissenso alla trasformazione in strategica di quella alleanza (con Zingaretti-Bettini prima, ma poi sostanzialmente anche con Letta: sia pure in condi- zioni assai diverse per l’indebolimento fortissimo del M5S) è totale: fino a fargli sperare che per contrastarla possa risultare utile la nascita di Italia viva, il partito fondato da Matteo Renzi uscendo dal Pd.

Armillei fece in tempo a vedere la nascita del governo Draghi e i suoi primi quattro mesi di attività (col Pd che si dava l’ennesima segreteria per cooptazione, con l’elezione interna di Enrico Letta).

L’ultimo articolo (29 maggio 2021) ci resta come il suo testamento  politico  perché,  nell’analizzare  criticamente «dove sta andando il Pd di Letta», ripropone efficacemente ciò che era andato scrivendo per oltre un decennio. Non condivide, va da sé, la riproposizione come fondamentale dell’asse destra/sinistra, e ciò che essa comporta, a partire da quello che definisce l’inseguimento del pikketysmo e da certe battaglie identitarie che considera buone per ricompattare la vecchia sinistra del Novecento, ma non a costruire l’alternativa che servirebbe.

Lasciamolo parlare direttamente: questa ostinazione

deriva dall’aver in tutti i modi cercato di evitare di fare una irreversibile scelta di fondo tra […] la prospettiva di governare […] le economie di mercato delle democrazie capitalistiche […] e dall’altra parte quella di immaginare indefinite uscite, supera- menti, riforme di struttura […],

quasi affermando di fatto una sorta di equidistanza tra quelle democrazie capitalistiche e i sistemi totalitari. Fra Sanders e Ocasio Cortez da una parte e Tony Blair dall’altra, egli sta col secondo (e pure con Craxi e Renzi): contro la politica kamikaze di una sinistra che batte la strada del progressismo radicale, delle «culture wars», del «woke». Il suo sogno, e il messaggio che ci trasmette, è quello di una sinistra che sappia modernizzare il proprio messaggio economico liberale, che parli il linguaggio della ragionevolezza e del buon senso, che cerchi gli ingredienti essenziali per vincere le sfide post- pandemia, che sappia mettere all’angolo – con alternativa intransigente, «le chiusure e le fobie del nazional-populismo»: perdendo magari alcuni dei voti delle minoranze militanti e rumorose, ma legandosi al solido e spesso silenzioso centro. Rievocando una volta di più il superamento del tradizionale cleavage destra/sinistra Armillei ci ammonisce:

L’alternativa al partito della modernizzazione liberale a vocazione maggioritaria che combatte i radicalismi e non cerca la loro rovinosa alleanza, al partito del NextGeUE, non è oggi [in Italia] il centro-destra. È al contrario […] l’alleanza nazional-populista.

Leggere questi articoli significa ripercorrere il più recente pezzo di storia del nostro paese, ritrovare problemi e questioni irrisolti: e anche, ovviamente, ripercorrere la storia di ciascuno di noi, lettori postumi, indotti a riflettere cosa non ha funzionato, dove abbiamo collettivamente e individualmente sbagliato, ragionare della perdurante validità dell’impostazione delineata da Armillei.

Per alcuni di noi, in particolare, poi, la lettura di queste pagine ha comportato, anche più di quanto avessimo potuto nel tempo immaginare, la rivelazione di quanto profonda ed estesa fosse (qualcuno potrebbe dire: quasi totale) l’identificazione culturale e intellettuale con questo amico perduto. Ingenuamente si potrebbe dire, quasi una sorpresa: almeno per chi deve confessare la propria scelta agnostica, assai lontana dalla pur laica fede cristiana e cattolica di Armillei (sorpresa ingenua, però, se è vero come è vero, che la religiosità non è esclusività di coloro che credono a un dio e appartengono a una chiesa).

Infine, la lettura di questi articoli e di questi saggi fa capire quale importante voce il gracile, ma pur resiliente, riformismo italiano abbia perduto con la sua prematura scomparsa.

Ai riformisti di oggi e di domani non resta che trarre ispirazione, ed insistere: perché se è vero, come ricordava Armillei, che in politica ha ragione chi vince (e non si vince perché si «ha ragione»), chi vince non ha affatto il monopolio della verità, e anche perdendo, se lo si fa difendendo le proprie coerenze, si può concorrere utilmente a quei grandi processi di maturazione sociale dai quali dipende il progresso dei popoli, e si possono porre le basi di autentiche alternative.

 

*Prefazione ai testi politici del volume Giorgio Armillei, La forza mite del riformismo, Il Mulino

Giorgio Armillei è morto appena un anno fa, il 5 giugno 2021

Carlo Fusaro
fusaro@lib.it

Già professore ordinario di Diritto elettorale e parlamentare nell’Università di Firenze e già direttore del Dipartimento di diritto pubblico. Ha insegnato nell’Università di Pisa ed è stato “visiting professor” presso le università di Brema, Hiroshima e University College London. Presidente di Intercultura ONLUS dal 2004 al 2007, trustee di AFS IP dal 2007 al 2013; presidente della corte costituzionale di San Marino dal 2014 al 2016; deputato al Parlamento italiano per il Partito repubblicano (1983-1984).

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