I cinque populismi nella storia dell’Italia contemporanea - Fondazione PER
20203
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I cinque populismi nella storia dell’Italia contemporanea

di Nicolò Addario

 

“This is the Chrysis of Parliaments; we shall know by this if Parliaments life or die” – Sir Benjamin Rudyard, 1627

 

1. Una non breve premessa

Vi sono tre aspetti del populismo dell’Italia di oggi che non credo siano stati discussi, quantomeno a sufficienza. Essi sono suggeriti dal semplice costatazione che, guardata da una prospettiva storica l’Italia figura come il paese di bengodi del populismo.

Il primo riguarda la particolare forma politico-ideologica che l’attuale populismo ha ereditato dalla storia dell’Italia, almeno dal primo dopoguerra. Parlare infatti di populismo al singolare mette in ombra sia le sue radici storiche sia il fatto che in realtà oggi siamo di fronte ad almeno cinque tipi di populismo, considerando anche quello di tradizione fascista.

Il secondo riguarda una questione generale, ossia che per definire il populismo non sia affatto sufficiente considerare il rinvio alla contrapposizione tra popolo ed élites, soprattutto se teniamo conto delle molteplici forme storiche del populismo, che possiamo far risalire persino alla rivoluzione francese. L’aspetto più rilevante del ricorso a questa contrapposizione come specifica di ogni variante populista credo che sia il fatto che esso sia sempre declinato in base a schemi morali e che questo, a sua volta, consenta di ricorrere a misure demagogiche. Sono demagogiche quelle policies che non si curano minimamente degli effetti che quelle misure avranno su altri e più realistici piani. Ma il caso forse più eclatante è che sebbene Trump sia definito populista lui non rientra certo nelle schema “popolo vs élites” e che lo stesso vale per Berlusconi, nonché per gli eredi del fascismo. È quindi consigliabile considerare il populismo, come ha suggerito Margaret Canovan, in chiave di “somiglianze di famiglia”  (ripreso da Wittgenstein). È probabile che l’ambiguità nasca dal rapporto tra democrazia occidentale e l’idea di sovranità popolare.

Il terzo aspetto non considerato (anche dalla letteratura internazionale: si veda il mio articolo http://www.libertaeguale.it/i-pericoli-del-populismo-che-la-sinistra-non-vede/ 2018) riguarda, dunque, il rapporto tra populismo e l’idea di “sovranità popolare” (sottolineato anche da Canovan). Si tratta di una rapporto storicamente ambiguo, perché, sebbene la “sovranità popolare” sia stata posta a fondamento della democrazia, essa in realtà risale almeno ai Conciliaristi che si opponevano all’affermazione del Papa-Re. Idea ripresa dalla Riforma e la sua interpretazione del diritto naturale in chiave di “diritti soggettivi”. In ogni caso nel populismo l’idea di popolo è altamente mitizzata in chiave di “comunità” del tutto omogenea e altamente solidale. Come disse E. Shils, “il populismo identifica la volontà del popolo con la giustizia e la moralità”.

Di fatto anche l’Europa medioevale (in Occidente) aveva delle rappresentanze cetuali che rinviavano al “popolo”, pur dando al termine popolo significati molto diversi (si veda Aurora Savelli, “Sul concetto di popolo: percorsi semantici e note storiografiche”, in https://journals.openedition.org/laboratoireitalien/392). Fu in questo contesto cetuale che, con la riforma protestante e le conseguenti guerre civili di religione, sorse l’idea di “diritti soggettivi” (G. Buchanan, De jure regni apud Scotos, 1579). Essa si affermò istituzionalmente nell’Inghilterra del XVII-XVIII secolo ed è alla base della nascita del pensiero politico liberale (il Locke dei Due trattati sul governo), influenzando molto sia la rivoluzione americana sia la stessa rivoluzione francese. Non a caso la separazione dei poteri di Montesquieu viene dall’Inghilterra. I cosiddetti moti del ‘48-’49 furono quasi ovunque d’impronta liberale. Qui rammento queste vicende perché è innegabile che in Occidente l’affermazione della politica liberale coincidette largamente con l’affermazione dell’idea di nazione. Per usare una felice espressione di R. Bendix, in Occidente il “nation building” spesso coincise con lo “state building” e ambedue furono identificati con il popolo-nazione, un concetto di recente formazione che serviva a dare una nuova legittimazione allo stato. Tuttavia, e ora veniamo al punto che ci interessa, in tutti i paesi cattolici, o a grande maggioranza cattolica, lo stato-nazione fu fortemente contrastato da due concezioni antimoderne, esplicitamente antiliberali e con accenti chiaramente populisti.

Mi riferisco, in primo luogo, alla presa di posizione della chiesa cattolica, soprattutto in Francia e poi in Italia, in particolare al suo influente intellettuale Joseph de Maistre. Per molti aspetti egli può essere considerato qualcosa di più di un precursore del fascismo. Per dirla in modo assai stringato, de Maistre si rifaceva al principio dell’unità di trono e altare, posto in termini di un organicismo gerarchico e provvidenzialista. Era la proposta di tornare, in aperta opposizione alla modernità liberale dei diritti soggettivi, alla “Communitas Christianorum” dell’era medievale, in cui il potere temporale (lo jus gladi di principi e nobili) doveva essere al servizio del “potere spirituale” di Santa Madre Chiesa. Sin dal suo nascere (riconosciuto da Paolo III nel 1540), è stato soprattutto l’ordine dei Gesuiti che ha diffuso sistematicamente nel mondo questa concezione nella forma di un populismo gerarchico, organicista e allo stesso tempo pauperista. Lo si vede bene nell’America Latina dove tanto il peronismo che il chavismo, passando per “l’ultimo re cattolico” (come lo ha definito Loris Zanatta), ossia Fidel Castro, arriva al populismo sistematico nel permanente sottosviluppo cronico.

Riallacciandosi a questa tradizione, il grande giurista tedesco Carl Schmitt è stato, come noto, il fondatore di una vera e propria “teologia politica” molto influente. Questa teologia politica era fondata sulla distinzione “amico/nemico”, una distinzione facilmente manipolabile a piacere da qualche capo cesaristico (come in effetti furono Mussolini e Hitler), soprattutto appellandosi al nazionalismo xenofobo. Qualche anno prima (nel 1923) Schmitt aveva tentato di trovare un fondamento al “politico” nella Auctoritas della chiesa di Roma in quanto unica istituzione portatrice di simboli e di credenze capaci di trascendere la “tecnica” e i singoli interessi, e di creare così quell’unità della nazione altrimenti irraggiungibile. Ma poiché gli “assoluti” nella società moderna, con il suo “secolarismo” e nonostante la sua pretesa “meccanicità”, non si danno perché in essa tutto cambia in continuazione, poco dopo Schmitt cercò invano altre vie. A mio modesto parere, ciò che fece Schmitt fu di contrapporre una “teologia politica” ad un’altra “teologia politica” a cui era profondamente avverso, perché era ancora legato alla Vecchia Europa gerarchica ed era decisamente antislavofilo, antibolscevico e contrario alla modernità liberale, giudicata irrimediabilmente individualistica.

La seconda importante tradizione apertamente antisistema e che, seppur per vie traverse, darà fiato tra le masse al populismo contemporaneo, è quella socialista e poi comunista. Essa aveva elaborato la prima “teologia politica” della storia del pensiero occidentale. Una “teologia politica” incentrata sulla protesta che si era fatta partito e in Russia aveva trionfato. In questa teologia, sotto la voce “classe proletaria”, è facile ritrovare il “popolo”. Soprattutto quando le masse che si vogliono conquistare alla causa della “lotta allo sfruttamento” sono in breve tempo trasformate in piccola e media borghesia, come accadde in Occidente a seguito del formidabile sviluppo economico dalla fine degli anni Cinquanta: il cosiddetto operaio massa si era portato dietro milioni di quadri e di piccoli impiegati. Peraltro, e non a caso, molti paesi caduti sotto un regime sovietico si chiamavano Democrazie Popolari, visto che la stragrande maggioranza dei cittadini era costituita da contadini analfabeti, che aspiravano ad avere della terra. La collettivizzazione forzata, tanto in Russia quanto in Cina, è stato un disastro epocale proprio perché il “servire il popolo” si scontrava con una realtà sociale assai lontana da quella idealizzata dal comunismo. Questo era accaduto perché le masse, con il loro preteso senso innato di giustizia sociale e di uguaglianza, erano state elevate a entità ipostatizzata (basti pensare alla cuoca di Lenin che alla mattina si dilettava di poesia, al pomeriggio di filosofia e infine alla sera di questioni di governo). So bene che il grosso della letteratura ha sottovalutato (o persino ignorato) il legame tra il comunismo e il populismo attuale. Non mancano tuttavia delle eccezioni che sottolineano il carattere in realtà interclassista e quindi necessariamente “popolare” dei partiti comunisti saliti al potere. Cosa che peraltro ancor più valeva nell’Occidente sviluppato, dove la competizione elettorale spingeva necessariamente a ricorrere i voti di tutti. È l’effetto pratico della necessità politica di passare dalla ipostatizzazione idealizzata delle masse alla politica concreta nelle situazioni date. In termini marxisti si potrebbe dire che “le classi non possono affermare la loro egemonia senza articolare il popolo nel loro discorso, e la forma specifica di questa articolazione … sarà il populismo” (E. Laclau). I populismi cambiano storicamente a seconda dei contesti sociali e delle circostanze: dal populismo russo della fine dell’Ottocento a quello americano dei primi del Novecento e a quello del Sudamerica (non solo nell’Argentina di Peron); ma se ne possono trovare tracce che, partendo almeno dalla rivoluzione francese, riemergono fortemente nella Comune di Parigi del 1871 o in numerosi intellettuali del romanticismo tedesco, sino ad arrivare a Heidegger (e passando per Nietzsche, il “populista elitario”).

Naturalmente si trattava inizialmente di un populismo particolare, sotterraneo alla dottrina ufficiale, che aveva come riferimento il “proletariato”. Ma già con l’unione antifascista e la Resistenza del “Fronte popolare” il PCI andava decisamente in questa direzione. Cosa che peraltro aveva già esplicitamente teorizzato Gramsci con la sua concezione dell’unità nazionale come unificazione del popolo per realizzare la vera “rivoluzione democratica” (contro la “rivoluzione passiva” del Risorgimento e dell’Unità d’Italia). Era peraltro la linea che improntava la lotta di liberazione dal fascismo come un secondo Risorgimento, nonché la forma di democrazia diretta esercitata dai Comitati di Liberazione nazionale. Lo stesso Togliatti si appellava all’unità delle classi popolari (rappresentate dal PCI) contro una piccola minoranza di privilegiati e di grandi capitalisti. La stessa accettazione della democrazia costringeva il PCI a ricercare il consenso bel aldilà del proletariato propriamente detto. Il PCI era necessariamente un “partito pigliatutto”, ma poiché restava anticapitalista le sue proposte erano demagogiche e ancor più le sue pratiche.

Questa visione viene ulteriormente sviluppata nella strategia del “compromesso storico” di Berlinguer, che peraltro era l’unico modo per provare ad andare verso il “socialismo” senza suscitare una forte reazione degli Alleati. Ma poiché la “via italiana al socialismo”  comportava sia la democrazia che il socialismo, nell’ideologa comunista restava un’insolubile paradosso: abolire il capitalismo con lo statalismo e mantenere al tempo stesso la democrazia era impossibile perché in gioco c’era la libertà (anche di fare impresa). Per questo l’anticapitalismo del PCI si trasformò di fatto in “assistenzialismo”, cioè in una spartizione di risorse pubbliche distribuite a pioggia. Soprattutto se consideriamo che questo avvenne nel contesto della “guerra fredda”, e non era certo pensabile di poter fare la rivoluzione, anche se i comunisti (come aveva insegnato la chiesa cattolica) erano sempre in attesa della catarsi della “crisi finale” del capitalismo. Credo sia plausibile ritenere che, seppur in modo “sotterraneo”, vi sia stata una sorta di osmosi tra il populismo cattolico nella sua versione di “sinistra”, quello di origine comunista e persino quello fascista (testimoniato dalla “conversione” di molti ex fascisti al comunismo).

Una conferma della validità di questa ipotesi si è avuta con l’instaurazione di un “consociativismo spartitorio” che, a partir almeno dai primi anni Sessanta, è arrivato sino ai giorni nostri e il cui risultato è l’enorme debito pubblico che ci trasciniamo  dagli anni Novanta. Era l’alternativa pratica a una rivoluzione comunista impossibile nell’epoca della “cortina di ferro”. I dirigenti del PCI non negarono mai l’anticapitalismo e che proprio la “via italiana al socialismo” in qualche modo confermava. Le “riforme di struttura” di Berlinguer erano il mantenimento dell’anticapitalismo, dell’ideologia che i dirigenti comunisti non potevano ufficialmente abbandonare senza perdere del tutto la loro “identità”, ma che poteva quindi assumere solo la forma di uno statalismo esasperato che si accordava con quello della DC. Fu solo la montagna di debiti che avevano accumulato le industrie di stato che pose fine a questo scempio, senza peraltro arrestare i flussi di denaro pubblico che si disperdevano per mille rivoli e che sono all’origine e al consolidamento del “consociativismo spartitorio” (Giuliano Amato parlava di governo spartitorio). Tutto questo sullo sfondo di un paese che non cresce più dalla metà degli anni Novanta). Nel 2021 abbiamo avuto un PIL che era ancora alquanto inferiore a quello che avevamo nel 2000. Il “consociativismo spartitorio” è stato il risultato di una politica della classe politica che prometteva soldi e posti in modo demagogico, senza preoccuparsi di crescita e debito pubblico e che dunque costituisce almeno un “populismo economico”. Evidente nei sindacati che si sono occupati di contratti nazionali basati soltanto sull’anzianità, disinteressandosi del tutto dei meriti e della crescita della produttività. Anche il “compromesso storico” e l’“euro-comunismo” andavano in questa direzione, sebbene qui si proponesse un accordo politico anche per evitare i pericoli di eventuali guerre civili, colpi di stato (come in Cile o in Grecia) e frenare le tensioni provocate dal  terrorismo. Aldilà dell’esplicito riferimento al popolo indistinto e idealizzato, ciò che accomuna questa politica ai populismi di oggi è un approccio di fatto ugualmente demagogico, confuso e moralista.

Si tratta quindi di cercare di capire come si sia passati da quello che potremmo chiamare un “populismo anticapitalistico” a un populismo esplicito e con un approccio ideologico in parte nuovo, nel contesto di una crescente sfiducia nella democrazia da parte dei cittadini,  sicuramente dovuto alla ventennale mancanza di crescita economica. Scontento che si riverserà in gran parte a favore dei Cinque Stelle. La mia ipotesi è che questo populismo esplicito inizia a prendere piede con l’avanzare della crisi della Prima Repubblica, che vide la fine dei grandi partiti di massa del secondo dopoguerra e quindi l’esaurirsi delle ideologie catartiche. La “questione morale” sollevata da Berlinguer (e da Scalfari) era già una forma di populismo abbastanza esplicito, perché indicando i partiti di governo come immorali  identificavano l’establishment con la corruzione. Quando la morale diventa il fuoco della politica, l’avversario diventa necessariamente “nemico” e così si stabilizza una polarizzazione ideologica che permea il tessuto culturale (con l’aiuto di molti intellettuali).

Qui conviene soffermarsi sull’irrisolta crisi della sinistra, a partire dagli anni 1989-1998, ossia il periodo tra il crollo del muro di Berlino e la trasformazione del PCI prima in PDS-DS e poi in PD. Credo che il punto cruciale sia stato la totale assenza di una manifesta e approfondita critica della propria vecchia identità comunista. La falce e il martello su campo rosso restavano nell’emblema, lasciando intatta, nel contempo, la demagogica pratica del “consociativismo spartitorio” con il relativo populismo economico. Il punto cruciale fu probabilmente l’altolà posto da Cofferati (segretario generale della CGIL) al progetto di D’Alema di provare a trasformare i DS in un partito socialdemocratico alla tedesca (era il 1999). Chiaramente il sindacato continuava a guardare il mondo con le lenti deformanti dell’anticapitalismo e con lui una parte del partito, anche se praticava un assistenzialismo sempre più inefficace.

  Un altro momento critico è stato probabilmente quello dell’esplosione della crisi del 2007 e quella seguente dello spread (con Berlusconi che fu costretto a dimettersi). La sinistra non capì che, aldilà di Berlusconi, la questione cruciale era la debolezza strutturale dell’economia, aggravata da un debito insostenibile. Nonostante la permanenza del debito e della sua dispersione in mille rivoli, lo stato è stato infatti costretto a ridurre le spese, o a cercare di non farle aumentare, ponendo così una sorta di blocco all’assistenzialismo. È in questa fase (era il 2013) che assistiamo all’inizio del successo del populismo di nuovo tipo (i 5S), perché, restando a metà del guado e con una crisi economica che non si arrestava ma anzi peggiorava, la crisi dell’assistenzialismo avrebbe fatto saltare i vecchi legami, anche culturali, tra la sinistra e ampi settori di elettori. “L’evoluzione delle fratture tradizionali che da lungo tempo avevano strutturato la via politica, la diminuzione dei sentimenti d’appartenenza di classe, l’affaticamento del conflitto sinistra-destra, l’opacità crescente dell’offerta politica classica, le importanti mutazioni delle nostre società, la disgregazione dei loro quadri collettivi di comprensione … autorizzano l’emergere di soggetti politici dispensatori di qualche ricetta miracolosa per la crisi economica e sociale” (M. Lazar, ivi, p. 130, tr. m.).  È il passaggio da una demagogia diciamo  implicita a una demagogia in forma esplicitamente populista. Inizialmente questo riguardò il versante di centro-destra (Forza Italia e la Lega). I primi segnali a sinistra si erano però già avuti con i Girotondini, Italia dei valori e il diffuso giustizialismo (amplificato dai mass-media), ma questo sarà solo l’inizio.

2. I cinque populismi

Per riassumere, i due tipi di populismo implicito – che alimentavano interessi assai disparati tra loro, senza riguardo alle conseguenze sul piano dello sviluppo e del debito pubblico: questa è l’essenza del “consociativismo spartitorio” e che con la crescita del debito si è andato trasformando in grave disaffezione per la politica (da qui la presa della critica alle élites) con “Mani pulite” e la caduta del muro di Berlino si trovarono in gravissime difficoltà. Di lì a poco la DC, travolta dagli scandali, scomparve e il PCI, anch’esso coinvolto negli scandali e accusato di corruzione come tutti gli altri, cercò di trasformarsi in qualcos’altro, senza sapere cosa dovesse essere questo “altro”. Come ha ben detto Y. Mény “se la destra è intrappolata nel suo stesso radicalismo, la sinistra è inascoltata o senza voce, per non aver saputo  ripensare il proprio ruolo, la propria funzione e la propria ideologia”. Venuto meno il  ruolo “tribunizio” , quando la protesta era la fonte primaria del consenso, le sinistre non sono state capaci di trasformarsi in partiti realmente riformisti, perché restava il tarlo dell’anticapitalismo statalista. In Italia la “via democratica al socialismo” doveva appellarsi al popolo per battere il grande capitale e il “compromesso storico” era il modo per “egemonizzare” le masse che votavano la DC o il PSI e realizzare una “vera alternativa democratica”.  Così la “svolta di Salerno” compiuta da Togliatti si sarebbe infine realizzata, assicurando la “vittoria del popolo”.

Sotto gli impulsi degli scandali che fecero crollare la DC, il primo risultato fu l’emergere della Lega Nord e la sua affermazione aldiquà del Po. Il suo è un populismo che fa del localismo e del provincialismo antintellettuale l’arma principale: famoso lo slogan “Roma ladrona”, che è chiaramente un’espressione di anti-élitismo moralistico. Non a caso ebbe successo nei piccoli centri, specie  dell’area pedemontana, dove era molto diffuso il voto alla DC e caratterizzato dalla presenza di moltissime micro-imprese, assimilabili ai ceti medi tradizionali esaltati dalla dottrina cattolica per contrapporli al capitalismo della grande industria. Lo stesso nome di “Lega” anticipa chiaramente quell’antipolitica (di facciata) che sarà tipica di ogni populismo di oggi.

Con la formazione del PD si può dire che, grosso modo, in questo partito si siano ritrovati i primi due populismi. L’ipotesi è che quello d’impronta cattolica si sia diviso a sua volta, da una parte verso la Lega, dall’altra verso il PD. Si ricordi che la Lega è rimasta nella CGIL, che “Quota cento” è stata una misura populista, e che votò, insieme ai sindacati, contro la riforma costituzionale che mirava a permettere una migliore governabilità. Il populismo localista della Lega si fa forte dell’estensione dell’industrializzazione ben aldilà del famoso “triangolo industriale”. Un’industrializzazione però caratterizzata da “nanismo”, diffusa sul territorio e sovente orientata ancora oggi a un’alta evasione fiscale. Un’ipotesi da non trascurare è che si tratti in prevalenza di un capitalismo familiare assai poco propenso ad assumersi i rischi tipici dell’impresa che vuole crescere: la mancanza di crescita degli investimenti privati dalla metà almeno degli anni novanta, insieme ai dati sulla assai bassa produttività e sull’evasione sembrano una conferma di questa valutazione

Il quarto tipo di populismo è quello dei 5S. Un populismo particolarmente ideologico e altamente aggressivo, che mischia aspetti di sinistra radicale e di destra, forse altrettanto radicale. Vorrei sottolineare che il rapido e importante successo elettorale dei Cinque Stelle ha stupito molti osservatori. Stupore che nasceva, oltre che dalla rapidità del successo, anche dalla proposta di superare la democrazia rappresentativa con una supposta democrazia diretta. Se si fosse tenuto conto del populismo implicito nel “partitismo” altamente ideologico del dopoguerra nonché del suo collasso con Mani Pulite, ci si sarebbe stupiti molto meno.

Sebbene tutti i populismi coltivino una buona dose di demagogia (in qualche modo insita nella stessa democrazia, come osservò Max Weber), una demagogia così estrema e allo stesso tempo raffazzonata non si era vista mai. Basta pensare al “reddito di cittadinanza”, soprattutto per il modo in cui  è stato organizzato, che induce le persone a non cercarsi più un lavoro o, spesso, ad abbandonare quello che avevano, soprattutto nel Mezzogiorno. Il risultato elettorale dei 5S nel 2018 non per caso è fortemente correlato con bassi livelli di reddito pro capite su base regionale, esattamente l’inverso di quello della coalizione di centro-sinistra, riproponendo così una nuova versione delle “tre Italie” (vedi i grafici in appendice). E’ fortemente plausibile, vista anche la provenienza di molti capi e capetti 5S, che essi rappresentino, almeno in parte non indifferente, quei cittadini che si erano allontanati dai partiti classici di riferimento, compresa una componente di estrema destra. Non dobbiamo dimenticare che v’è stato un populismo fascista, quello che in origine rappresentava la componente sindacale-corporativa e popolare e su cui dirò qualcosa tra poco.

Questa sindrome ha avuto un precedente nei “nuovi movimenti sociali” degli anni 70-90 del secolo scorso, che si autodefinivano “alternativi” indipendentemente dal tema di volta in volta indicato come centrale: dall’ambiente ai No-Tav e No-Vax, dalla questione femminile a quella del Terzo mondo e dell’imperialismo, sempre imputato agli americani!: una chiara eredità dell’ideologia comunista. Questi movimenti si fondavano sulla protesta fine a se stessa, era come se arrivassero da un altro mondo per distruggere questo mondo. Perciò si può dire che usavano la stessa tecnica di osservazione un tempo attribuita al diavolo: “quella di tracciare un confine entro l’unità contro quella stessa unità; il fatto di considerarsi migliori in modo irriflesso. Si lavora in modo corrispondente con l’attribuzione di colpe. Il destino della società non risiede nell’imperscrutabile deliberazione di dio. Il destino della società – sono gli altri” (N. Luhmann). Tuttavia, mentre il diavolo sprofondava nell’inferno, perché aveva osato osservare dio e le sue creature stando sul versante opposto, i movimenti di protesta salivano nel cielo dell’alternativa. Alternativa che consisteva essenzialmente nella protesta stessa, tramite le dimostrazioni di piazza e i cortei organizzati perché ne parlassero i media. In questo senso erano “extraparlamentari”, la loro opposizione non era interna alla politica (come nel parlamento dove ci sono sia il governo sia l’opposizione), ma esterna, un esterno che però si auto-collocava al di fuori della società. La pretesa dell’uguaglianza oscurava questo paradosso, quello della protesta dentro la società contro la società (come peraltro era nel PCI), perché, imputando le disuguaglianze alla “società capitalistica”, essi non si chiedevano quali sarebbero state le conseguenze di una tale uguaglianza, anche per loro stessi. Ancora una volta si trattava di un’Utopia che, nel proporre “un’isola che non c’è, ma che potrebbe esserci se solo la si volesse veramente”, serviva a contestare radicalmente quello che realmente c’era e che non poteva certo essere cambiato con la protesta. “In quanto alternativi si è, e non si è, dall’altra parte. Si pensa in senso proprio nella società per la società contro la società”. Una sindrome non diversa riguardava molto probabilmente un settore importante dell’elettorato di sinistra.

I “vaffa day” di Grillo (che non a caso era un attivo seguace dell’Italia dei Valori) rientrano in questa sindrome, ne sono un aggiornamento in senso esplicitamente populista: il confine è quello tra il popolo e la “casta”. Nella concezione dell’ “Elevato”, il nuovo “guru”, il popolo sale, la casta scende; la democrazia diretta va nel paradiso della “comunità solidale”, quella rappresentativa è cacciata nell’inferno a fare compagnia all’angelo Satana. Perciò credo che per i 5S sia molto pertinente il seguente giudizio di Isaia Berlin, se al posto della “ragione” mettiamo la convinzione che la “volontà popolare” sia di per sé sufficiente ad assicurare la “vera” democrazia se questa diventa “democrazia diretta”.

“Rousseau formula la concezione di base del comunismo, del fascismo e di tutti gli altri totalitarismi, precisamente che se uno è certo di avere la corretta soluzione della questione «Come devono vivere gli uomini?», allora può, nel nome della ragione, imporla in modo spietato agli altri, poiché se essi sono esseri razionali allora vorranno aderirvi volontariamente; se non sono d’accordo, questo significa che non sono razionali. Tutto questo nega che ideali differenti della vita, non necessariamente tra loro riconciliabili,  siano ugualmente validi e degni. … Ciò non solo dà un potere illimitato … [ai] Guardiani, siano essi seguaci di Platone o di Marx, … sui loro simpatizzanti, ma nega totalmente il valore dell’esperienza individuale in raffronto ai bisogni impersonali della società, i quali sono considerati indipendenti da ciò che gli individui ritengono sia buono, vero o meraviglioso. … Se avete una scarsa concezione della natura umana … la società è un’istituzione correzionale … governata da uomini che sono un composto di ispettori di prigione e di Dr. Squeers [l’educatore bastonatore del romanzo di C. Dickens La vita e avventure di Nicola Nickleby]. Se avete una visione più benevola, la società è un enorme ospedale e tutti gli uomini sono degli internati, poiché ciascuno soffre, in misura maggiore o minore, di qualche tipo di malattia o disturbo, ed è doveroso rieducarli ad aver cura della vita o almeno a renderla sopportabile” (The Isaia Berlin Literary Trust, 2004, pp. 1, 5 e 6; tr. m.)    

Questa valutazione è un’epitome dei “Vaffa day” di Beppe Grillo e dei suoi accoliti, ma anche della pretesa “democrazia diretta” che, pur non considerando il modo oscuro in cui è stata organizzata e diretta da una società privata di marketing, nega la fondamentale importanza delle competenze e delle conoscenze nella decisione politica, anche e soprattutto per valutarne le possibili conseguenze. Cosa, peraltro, che lo stesso Rousseau, nonostante il suo moralismo totalitario, non trascura del tutto. Nel Contratto sociale sostiene che in una fase di transizione ci vorrà un Legislatore che educhi il popolo affinché pervenga alla “alienazione totale” da qualsiasi interesse e pregiudizio, cosicché non si formino “consorterie e associazioni particolari”. I Giacobini pretesero di essere loro il Legislatore di Rousseau e instaurarono il Terrore. Il marxismo-leninismo, rifacendosi esplicitamente al giacobinismo, ne fece una virtù del Partito-Stato, così il Gulag, con i suoi lager, divenne un’istituzione di schiavitù che di fatto continuò fino al crollo dell’URSS, pur non raggiungendo più le punte di parossismo che ebbe sotto Stalin. L’utopia si era tramutata nella distopia del “Terrore Rosso” eretto a sistema onnipervasivo.

In una battuta, i militanti Cinque Stelle assomigliano molto agli Hooligans di cui parla J. Brennan nella sua tipologia degli elettori: propensi alla partecipazione, ma altamente faziosi e facinorosi, come gruppi di tifosi che si trovano insieme avendo un “nemico comune”: la “casta”. Perciò sono altamente propensi a usare invettive come fossero manganelli contro tutti coloro che considerano “casta”. Esattamente come l’ “Elevato”, che in realtà è il loro “padre-padrone” pronto a usare lo stesso manganello, di cui è indubbiamente maestro come il suo precursore Giannini dell’Uomo Qualunque, contro tutti coloro che non si uniformino ai suoi “ordini”. L’ “Elevato” afferma di essere estraneo alla politica, ma nei fatti agisce come una sorta di Dr. Squeers, ventriloquo di una supposta base popolare, pronto a bacchettare tutto e tutti nel nome della lotta contro i molteplici “poteri occulti” che manovrano la “casta”. Ma neppure Giannini era arrivato ai “Vaffa-day”. Le “potenze plutocratiche” (controllate dagli ebrei) e le “classi sfruttatrici” sono state sostituite dalla “casta” e dai “poteri occulti”.

Naturalmente, il presupposto di una tale visione populista della politica necessita dell’idealizzazione del popolo, un popolo fatto tutto di “persone per bene”: “L’Italia deve essere, prima di ogni altra cosa, una comunità. In una comunità, tra i valori più importanti vi è il senso di solidarietà. Il cittadino deve essere il centro della politica” (Blog, 30 gennaio 2013). Quindi, niente democrazia rappresentativa, perché crea solo potentati, ma democrazia diretta, dove il “web” sostituisce le assemblee di Jean-Jacques Rousseau e il Governo è fatto solo di “commissari”, cioè di supposti meri esecutori della volontà popolare. Insomma, un mix di estrema superficialità e demagogia a piene mani, saldati insieme da un moralismo da quattro soldi, personalismo estremo (il vero stratega era R. Casaleggio) e da una parola magica: “comunità”. Al Terrore di Robespierre è sostituito il bastone degli insulti dell’auto-elevatosi a “garante”. Va ricordato che in origine i fascisti si erano dichiarati “né di destra né di sinistra”, esattamente come i Cinque stelle. Sembra proprio vero che a volte la storia si ripeta in farsa, sperando che non diventi tragedia.  È il paradosso per cui il popolo è nello stesso tempo il dominatore e il dominato da una qualche “Elevato” che si erige a vero interprete della “volonté de tous”.

Veniamo, infine, al populismo fascista, che in Italia ha lasciato radici che non sono state bruciate dal tracollo del regime a seguito della guerra. Seppur lentamente, con alterne vicende di riprese e di sconfitte, esso è tornato recentemente ad un certo vigore. Questo forse si deve, per contrasto, al fatto che in Italia si sviluppò il più forte partito comunista dell’occidente. Come è noto, un’importante componente del successo del fascismo era stata la radicale contrapposizione al bolscevismo (sebbene in origine Mussolini sia stato socialista). Con il crollo della DC nei primi anni novanta, l’ascesa di Berlusconi fu in buona parte dovuta all’esplicita ripresa della contrapposizione tra comunisti e anticomunisti (non quella tra élites e popolo). Sono le avvisaglie di un esplicito populismo, che peraltro erano già chiare nell’Italia dei Valori di Di Pietro. Questa manifestazione esplicita di populismo è quasi sicuramente dovuta al fatto che, diversamente da PCI e DC che erano partiti di massa, sia Forza Italia che il partito di Di Pietro erano partiti quasi esclusivamente basati su un leader che si era inventato politico, e la cui popolarità era dovuta essenzialmente agli scandali, enfatizzati dai mass-media, e all’anticomunismo. Forse è proprio questo l’aspetto centrale del populismo contemporaneo: la sostituzione di partiti di massa con partiti centrati su leaders demagogici amplificati dai mass-media, anche perché i partiti di militanti non hanno più senso, come vedremo.

Il populismo fascista era stata una forma di cesarismo plebiscitario (l’idolatria del “capo”), caratterizzato da un’esaltazione del mito di un eroico passato (la Roma imperiale) in funzione nazionalistica (Tocqueville inventò il termine di “cesarismo” per definire il regime di Napoleone III, ad un tempo popolare e autoritario). Esso aveva forti tendenze ideologiche al totalitarismo, anche se politicamente dovette fare dei compromessi sia con la monarchia che con la chiesa (non per caso padre Gemelli parlò di “missione cattolica dello stato italiano”). Sotto molti profili il fascismo era lo sviluppo di alcuni aspetti del “romanticismo senza freni” (Berlin) della seconda metà dell’Ottocento  e di ideologie ribelliste e nazionaliste estreme che venivano dalla Francia, a cui si sommarono (ma in modo estemporaneo) temi ripresi dalle filosofie vitalistiche in chiave di “attualismo” contrapposto a ogni filosofia della storia.  Benedetto Croce non denunciò mai il fascismo come dittatura (si veda il fondamentale lavoro di R. Dahl).

Per la sua rapida e inaspettata affermazione è sicuramente decisivo considerare la grave crisi innescata dalla prima guerra mondiale e dalle conseguenze devastanti che ne derivarono su milioni di individui mobilitati in quell’occasione e poi abbandonati al loro destino. Questi si lasciarono catturare, per un verso, dal “mito della comunità e del cameratismo”, per un altro verso, si fecero portatori di “una sorta di etica della militarizzazione e della totalitarizzazione della vita e della lotta politica”, arrivando, come scrisse Renzo De Felice, a “derivare da tutto ciò una forza e un dinamismo sino ad allora ignoti, nei quali larga parte aveva tutta una serie di stimoli vitalistici che facevano ritenere ai fascisti che tutto fosse lecito e, volendolo, realizzabile” .

Peraltro, sul piano storico, come ha mostrato la ricerca di Zeev Sternhell, essi in fondo ripresero temi e atteggiamenti che erano stati sviluppati in Francia già almeno dai due decenni che precedettero la fine dell’Ottocento e che avevano portato i sindacalisti rivoluzionari a esaltare l’idea di popolo-nazione e a contrapporre la “rivoluzione spirituale” (il nazionalismo radicale) alla “rivoluzione materiale” del marxismo e del liberalismo. La nazione era appunto intesa come una “comunità”, fatta di tradizioni storiche che risalivano alla notte dei tempi, di sentimenti di solidarietà e “cameratismo”, in cui era però rispettata al massimo la gerarchia di status sociali organizzata per funzioni (da cui la centralità del partito). Perciò essi affermavano di non essere “né di destra né di sinistra”.

Ai nostri fini può essere utile rifarsi al già citato cattolico radicale Joseph de Maistre. Ne parlo perché, sebbene le sue idee al tempo in cui visse non ebbero successo, esse si affermarono proprio in Francia nell’ultimo decennio dell’Ottocento e rivelano un sotterraneo collegamento tra l’intransigente opposizione di certo cattolicesimo alla modernità liberale e le due forme di totalitarismo che caratterizzarono l’Europa tra le due guerre mondiali, e i cui eredi sono arrivati sino ai nostri giorni senza che (al pari degli eredi del comunismo) abbiano fatto un’effettiva ed esplicita autocritica pubblica. De Maistre fu molto più di un cattolico reazionario e oscurantista. Fu infatti “il primo teorico della grande e poderosa tradizione che sarebbe culminata in Charles Maurras, che fu un precursore dei fascisti, e di quei cattolici antidreyfusardi e fautori del regime di Vichy di cui si è detto talvolta che erano cattolici prima di essere cristiani. Alcuni dei motivi che indussero Maurras a collaborare con il regime hitleriano erano forse gli stessi che attiravano de Maistre verso Napoleone … e che lo portarono a rispettare il suo arcinemico, Robespierre, molto più dei moderati annientati dai giacobini” (I. Berlin). Questo perché de Maistre ha una sorta di idolatria del potere, convinto com’è, che esso provenga da leggi eterne volute da dio. 

“La concentrazione del potere in un’unica sede – che è poi l’essenza stessa del governo dispotico di Robespierre e dei suoi accoliti … – è agli occhi di de Maistre infinitamente preferibile alla sua dispersione in conformità a regole dettate dagli uomini. Ma naturalmente l’intelligenza, la saggezza politica e morale esige che il potere sia là dove verità e sicurezza vogliono che sia: nelle antiche istituzioni costituite … e non in individui scelti democraticamente … Ogni usurpazione deve fallire, alla fine, perché è un insulto alle leggi divine dell’universo: ed è il legittimo detentore del potere solo chi è strumento di queste leggi. Resistere ad esse significa opporre le fallibili risorse di un singolo intelletto alla corrente cosmica; e ciò è sempre un’infantile pazzia; peggio, una follia criminale che va contro il futuro dell’uomo” (Berlin).

Come più tardi Pareto, Mosca e Michels, de Maistre credeva solo nelle élites e nella loro capacità di guidare le masse. Come Sorel e altri di quel periodo (tanto in Francia quanto in Germania) “credeva nella necessità di una mitologia sociale e nell’ineluttabilità delle guerre … A prezzo di incalcolabili sofferenze umane, la società totalitaria visualizzata da de Maistre … si è materializzata” nei totalitarismi del XX secolo.

Ciò che de Maistre non poteva cogliere era che le sue idee, per affermarsi,  avrebbero dovuto aspettare lo sviluppo della società di massa che solo il capitalismo industriale, ancora di là da venire nella Francia dei suoi tempi, avrebbe generato. La cosa che va però sottolineata, perché sarà tipica dei paesi in cui si affermerà una qualche forma di fascismo (a iniziare dall’Italia del primo dopoguerra), è che sarà un particolare tipo di società di massa. Mi riferisco a quel tipo di sviluppo moderno fortemente accelerato e autoritario che sarà peculiare dei cosiddetti paesi “second comers”, come li definì il Gerschenkron, ossia paesi ancora alla fine dell’Ottocento attardati su economie  agrarie e arretrate e su forme di governo sostanzialmente cetuali. Paesi che furono costretti a modernizzarsi in modo assai accelerato e per ragioni di potenza, spinti a questo dal clamoroso  successo dell’Inghilterra e della sua rivoluzione industriale, e di cui si prese coscienza con le guerre napoleoniche. Non per caso i suoi promotori (ossia i principi) ne parlarono esplicitamente in termini di “rivoluzione dall’alto”, per contrapporla alla “rivoluzione dal basso” (quella francese, che peraltro era stata essenzialmente una rivoluzione di plebi urbanizzate e di contadini che aspiravano ad abbattere ciò che ancora permaneva dell’antico regime).

Lo sconvolgimento sociale e culturale che queste “rivoluzioni dall’alto” generò colpì non solo masse di contadini improvvisamente trasformati in proletari urbanizzati, ma anche masse di artigiani e, soprattutto, di notabili che di fatto nei decenni precedenti erano diventati l’asse portante del potere nobiliare sul territorio, e che furono sostituiti da burocrati controllati centralmente (anche in questo consistette la “rivoluzione dall’alto”). Ciò nell’immediato generò una diffusa deprivazione (sia assoluta che relativa) e, per reazione, un sommovimento contrario alla modernizzazione e assai diffuso, che trovò il suo epicentro intellettuale nella contrapposizione tra una mitica “comunità”, intesa come “naturale” (su modello della famiglia patriarcale e del villaggio), e società, intesa come artificialità, tra Kultur e Zivilisation (si pensi al socialista Tönnies che scrive un libro per contrapporre la comunità alla società). La Kultur sarebbe un prodotto spontaneo della natura umana e della comunità, mentre la Zivilisation sarebbe solo una realtà artificiale, perché, come nelle “societas” commerciali del tardo Medioevo, qui valgono solo le volontà dei contraenti e quindi hanno preminenza gli interessi e gli egoismi individuali. La comunità è invece un Tutto Organico che agisce come fosse un solo individuo e, come un macroanthropos (un termine ripreso dai neoplatonici) ha una testa (i prìncipi), un busto con robuste braccia (la “noblesse d’épée”) e gambe possenti (la massa di contadini e artigiani, con i loro patriarchi). E’ la riproposizione della “universitas christianorum” del Medioevo.

In questa contrapposizione era peraltro necessaria un’esaltazione della tradizione e una sua mitizzazione, come appunto si vede chiaramente nel “Romanticismo senza freni”, che non per caso caratterizzò gran parte dell’Ottocento e i primi decenni del secolo seguente, e che finì per negare in gran parte le idee di razionalità e libertà che si erano affermate con l’Illuminismo, per esaltare l’élan vital. La “decadenza dell’Occidente” e della sua Zivilisation erano annunciate, così come dalle sue ceneri era annunciata la rinascita della Comunità, con il suo uomo nuovo, l’“uomo fascista” di cui vaneggiava Mussolini, ma che era appunto intesa come una “rivoluzione spirituale” che non aveva niente da spartire con i vari materialismi, anzi era il suo contrappasso antropologico. La guerra mondiale era in questo senso la manifestazione concreta del collasso della Zivilisation. Essa, in effetti, offrì l’occasione perché, soprattutto là dove il liberalismo era più debole tra le masse e le stesse élites, i movimenti antimodernisti, mobilitati dagli effetti della guerra, venissero in breve tempo egemonizzati dal fascismo. In Francia, che pure era stata la culla dell’ideologia fascista, il fascismo per affermarsi dovette aspettare l’occupazione nazista, perché nei momenti topici il centro si alleava sempre con la sinistra riformista, impedendo così che la destra fascista salisse al potere. Ma va ricordato che a Vichy insieme a Maurras salirono al potere quei personaggi di cui si diceva che erano cattolici ancora prima di essere cristiani.

In conclusione, oltre al mito della comunità, fatta “tutta di persone per bene” tra le quali regna sovrana la solidarietà, un tratto comune al populismo dei 5S e a quelli storici è che la demagogia si sostanzia in un’utopia. È un’utopia politica che, a parte i diversi mezzi (il mito del web), rinvia alla “volonté generale” di Rousseau e al relativo governo di “commissari”, perché vi sarà la scomparsa dei partiti e dello stato, sostituiti dall’auto-governo dei cittadini, come nel comunismo mitizzato di Marx e Lenin. Ma, come tutte le utopie, anche questa ha bisogno del suo Caronte, il traghettatore che di volta in volta assume le sembianze di Mussolini, Hitler, Lenin, Stalin, Mao, Pol Pot e infine il “guru” Grillo, l’Elevato. A differenza degli altri, l’Elevato non brandisce apparati di stato, bensì manganelli verbali e il potere di cacciare dal movimento chi gli pare e piace, tanto è lui il proprietario del simbolo 5S, su cui compare la scritta: “beppegrillo.it”! Si, proprio quello “dell’uno vale uno”. Il tutto sanzionato, ovviamente, dalla “democrazia diretta”, che è soltanto la nuova forma di plebiscito con cui un nuovo capo “carismatico”, ex comico da operetta, decide in realtà per tutti attraverso il suo blog. Ma le costituzioni delle democrazie rappresentative, come disse un importante giurista, “legano le mani al popolo” perché senza  le mani legate da un diritto superiore, (vanno infatti coinvolte le opposizioni parlamentari per modificarle), “il popolo non ha infatti vere mani”. L’essenza della democrazia non è tanto la periodica e libera partecipazione alle elezioni, ma, in primo luogo, la protezione sistematica delle minoranze (R. Dahl) e, in secondo, che non esiste una Verità Politica, data una volta per tutte. Come ha mostrato Sartori, in democrazia esistono solo opinioni.

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PS. Una precedente versione di questo articolo è apparsa su SpazioMilano. Questa versione è stata ampiamente modificata.

Nicolò Addario
addario@ciao.ir

Professore ordinario di Sociologia generale. Insegna Teoria del mutamento sociale e dell'innovazione e Comunicazione politica presso l'Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia.

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