
24 Set I due occidenti (dopo il caso dei sottomarini all’Australia)
di Vittorio Ferla
L’accordo di fornitura di sottomarini all’Australia – con il quale Washington ha soppiantato Parigi nelle relazioni economiche e strategiche con Canberra – ha spinto la Francia sull’orlo di una crisi di nervi. Il governo francese ha giudicato l’intesa come una “pugnalata alle spalle” e, nientemeno, ha minacciato conseguenze sulla tenuta della Nato. La verità è che l’Aukus, il patto trilaterale che unisce Usa, Regno Unito e Australia, rappresenta il primo atto di una strategia di difesa contro l’espansionismo economico, tecnologico e militare della Cina nell’area dell’Indo-Pacifico.
Di fronte al quale, la rabbia della Francia appare solo una chiara ammissione di impotenza. Perdendo questa commessa, infatti, Parigi perderà 65 miliardi di dollari, un duro colpo per il settore della produzione e del commercio delle armi, una delle voci principali dell’export francese. Ma all’enorme danno economico si aggiunge una deriva strategica. La scelta dell’Australia dimostra infatti che la Francia (il che significa l’Unione europea) non è un partner affidabile per la tutela degli interessi nazionali.
Affidabili sono, viceversa, Stati Uniti e Gran Bretagna. Anche perché orientati da obiettivi ben definiti. Joe Biden, presidente degli Stati Uniti, fin dalla sua elezione, punta alla costruzione di una Alleanza tra le democrazie con l’obiettivo di fronteggiare la minaccia delle grandi potenze autoritarie. Prime tra tutte, la Cina: gli Usa hanno ormai eletto il Dragone come l’avversario del secolo, alla luce di una crescita economica e tecnologica che potrebbe permettere al colosso asiatico di superare la primazia globale americana in meno di un decennio. Il premier britannico Boris Johnson, portata a compimento la Brexit, è alla spasmodica ricerca di un ruolo globale del Regno Unito, capace di rinverdire i fasti dell’impero ottocentesco, ma, soprattutto, di giocare una partita strategica appoggiandosi sulle relazioni ereditate dal Commonwealth.
Entrambi i leader, per raggiungere i propri obiettivi, sono chiamati a presidiare l’Asia indo-pacifica, dove, nel frattempo, si è spostato l’asse economico e strategico globale. E l’Australia – che costituisce una propaggine di occidente in quell’area – diventa un partner ideale per riposizionarsi. Il governo di Canberra, infatti, è molto preoccupato dall’urgenza di salvaguardare la propria economia, da tempo molto dipendente dalla Cina e oggi minacciata dalle tensioni commerciali con il Dragone. Che, di recente, ha cominciato a colpire con i dazi il carbone, i vini, l’orzo e la carne bovina prodotti nel paese dei canguri.
L’anno scorso Pechino ha imposto sulle importazioni di orzo australiano tariffe doganali dell’80,5% più alte, costituite per il 73,6% da tariffe anti-dumping e per il 6,9% da dazi anti-sovvenzioni. La Cina importa circa il 70% del raccolto di orzo australiano per un valore medio annuo delle esportazioni di 904 milioni di dollari e, secondo l’Ufficio australiano per l’Agricoltura, le tariffe imposte da Pechino hanno ridotto il valore delle esportazioni di orzo a 565 milioni di dollari. Sempre nel 2020, la Cina ha bloccato le importazioni di carne dai mattatoi australiani per problemi di etichettatura, provocando un notevole danno al settore: il primo mercato estero per le carni bovine australiane è proprio la Cina, che ne richiede il 30% del totale. Da allora, Pechino ha bloccato importazioni o scoraggiato l’acquisto di più prodotti australiani come cereali, carbone termico, coke petrolifero, cotone, legname e crostacei. Nel dicembre scorso, la Cina ha imposto dazi superiori al 6% sulle importazioni di vino australiano.
Le imposizioni cinesi sono state anche, di fatto, una ripicca contro una serie di iniziative politiche dell’Australia: la richiesta di indagine internazionale sulle origini del coronavirus, la denuncia contro le rivendicazioni di Pechino nel Mar Cinese Meridionale, le critiche rivolte al governo di Xi sui casi Xinjiang, Taiwan e Hong Kong. Se si pensa che la Cina è il maggior partner commerciale australiano – insieme, i due Paesi generano un interscambio annuale dal valore di 181 miliardi di dollari – si capisce bene dove si trova l’interesse nazionale dell’Australia.
Si può dire la stessa cosa per la Francia e per l’Unione europea? Certamente no. Basti pensare ai pasticci provocati nel Mediterraneo dove la Russia di Putin e la Turchia di Erdogan continuano a guadagnare terreno. Oppure alla gestione del Medio Oriente dove la progressiva ritirata dell’esercito americano ha lasciato nuda una politica estera europea ancora frammentata. Anche l’approccio nei confronti della Cina appare ondivago: diversi paesi europei (compresa l’Italia) hanno accettato le lusinghe commerciali del governo di Pechino, pur vivendo l’imbarazzo per il mondo in cui Xi Jinping viola i diritti umani nel proprio paese e maltratta i paesi confinanti in Asia. Alla fine del 2020, su iniziativa di Angela Merkel, l’Ue aveva addirittura firmato un super accordo sugli investimenti (il Comprehensive Agreement on Investment) poco prima dell’insediamento in carica di Joe Biden. Che, ovviamente, non aveva molto gradito. Nel maggio scorso il Parlamento europeo ha bloccato l’accordo: niente ratifica senza precisi impegni da parte cinese per il rispetto dei diritti umani e dei principi della democrazia liberale. Ma non basterà. All’Europa manca ancora una strategia globale e una politica estera comuni. Proprio nel momento in cui gli Usa vogliono rivitalizzare in funzione anticinese il Quad, il dialogo strategico quadrilaterale con India, Giappone e Australia.
Nel nuovo scacchiere globale la frattura tra i “due occidenti” – da una parte, l’anglosfera riunita nell’Aukus e, dall’altra, l’esitante Europa continentale – sembra sempre più profonda. Ecco perché il primo ministro australiano Scott Morrison ha dovuto chiarire: la delusione della Francia è comprensibile, ma “l’interesse nazionale dell’Australia viene prima di tutto”. E il miglior modo per difenderlo è l’accordo trilaterale con Usa e Uk.
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