
16 Nov I piccoli passi non bastano. Ma non ci sono tracce di un progetto costituente
di Alberto De Bernardi
Sono passati due mesi dal referendum costituzionale che ha ridotto di 315 componenti la rappresentanza parlamentare e gli entusiasmi di quali lo avevo caldeggiato nella convinzione che esso avrebbe rimesso in moto il processo di riforme costituzionali che si era arenato dopo il referendum del 2016, paiono allo stato dei fatti molto raffreddati. Il peggior incubo che avevano paventato quanti si erano opporti al quesito referendario cioè di un mero taglio di senatori e deputati in nome della lotta alla casta e alla riduzione dei “costi della politica” sta invece prepotentemente riemergendo.
Sotto i colpi della pandemia
Ogni sforzo di dare un seguito al referendum si è arenato, certamente sotto i colpi della pandemia che ha prosciugato l’interesse pubblico per le riforme costituzionali, ma anche perché la convinzione che il M5S una volta portato a casa il risultato-bandiera, fosse disponibile a farsi carico di una nuova stagione riformatrice, seppur condotta a piccoli passi invece che proponendo un disegno complessivo e unitario, poggiava su basi debolissime: era più un wishful thinking di chi voleva fondare su di esso il progetto di alleanza strategica tra PD e 5S, ma anche prendersi un rivincita sul “renzismo”, piuttosto che un ipotesi basata su una condivisione di programmi e progetti.
E’ bastato infatti cercare di realizzare la perfetta parità tra gli elettorati attivi e passivi di Camera e Senato, come primo passo per realizzare un “pacchettino minimo” di interventi – oltre alla omogeneizzazione degli elettorati tra le due camere, il superamento della base regionale per l’elezione dei senatori e la ridefinizione dei grandi elettori per l’elezione del presidente della Repubblica – per cogliere tutti i limiti dell’approccio pentastellato al riformismo costituzionale: confusione, disinteresse, cautele, divergenze interne si sono combinate portando in prima istanza al risultato per molti aspetti surreale di una omogeneità dell’elettorato attivo ma non di quello passivo, mentre le altre due “piccole riforme “ giacciono spiaggiate in parlamento.
Se questo è il mattino si capisce che nel futuro non ci sarà nessun buon giorno.
L’estraneità del populismo alla democrazia
Infatti dopo questa prima prova il cantiere delle riforme non sembra destinato a riaprirsi tanto presto per una ragione strutturale che affonda le sue radici nell’estraneità assoluta del populismo ad ogni disegno volto a rafforzare la democrazia parlamentare e a rendere più efficace l’azione del governo e delle camere di quel “sistema” contro il quale il M5S ha costruito la sua base di consenso. O si crede, che come ci invitano a fare Martina e Bettini, che i 5S sono cambiati e sono diventati un partito popolare democratico europeista e atlantico, con il quale le forze riformiste cattoliche e socialdemocratiche possono porsi l’obbiettivo ambizioso e fino ad ora mai centrato di dare vita a un piano di media durata – fino al 2023 – di interventi di riforma per ridefinire l’assetto della costituzione, superandone tutte le criticità che paralizzano la capacita della politica di decidere e di guidare il paese (di cui però non c’è traccia nell’azione concreta di quel partito e non vi sono esempi in nessun angolo del globo). Oppure, abbandonato ogni fideismo, bisogna sperare che la vocazione trasformista che attraversa imperterrita la storia d’Italia da Crispi a oggi, si impossessi anche del M5S spingendolo per amore della sopravvivenza politica e per difendere gli spazi di potere che gli italiani gli hanno inopinatamente regalato, spingendolo a accettare seppur di malavoglia di farsi carico di riformare quella democrazia liberale che tanto aborre.
Il M5s allo sbando
Ma anche perseguendo un indirizzo politico basato sull’intreccio di queste due dinamiche – una utopistica, l’altra realistica – che è quello che di fatto ha spinto molti sinceri riformisti a sostenere il referendum populista di settembre, non può però sfuggire a nessuno che entrambe presuppongono che il M5S sia una forza vitale e che abbia comunque un punto di vista su tutti i dossier politici all’ordine del giorno. Purtroppo, o per fortuna, questa raffigurazione è infondata: il 2020 non è più il 2018. Gli Stati generali di pochi giorni fa hanno plasticamente messo in evidenza che il movimento è allo sbando, sfinito da lotte intestine tra piccoli capibastone del tutto privi di leadership, non ha una linea politica maggioritaria che consenta agli altri soggetti politici di istaurare un dialogo su alcunché, è in caduta libera sul piano elettorale ed è guidato da un gruppo dirigente di giovani masnadieri che sono alla ricerca di una qualche via per non tornare in quella terra di nessuno che era la loro vita prima di incontrare i due santoni Grillo e Casaleggio senior.
Se con questo aggregato di parlamentari può essere ancora plausibile, seppur a prezzo di inenarrabili fatiche, tentare di traghettare il paese fuori dalla pandemia, grazie al salvagente dell’Europa, e arrivare ad eleggere un presidente della repubblica che non sia proposto da Salvini e Meloni, molto più difficile e aprire una stagione costituente che dovrebbe coinvolgere le forze parlamentari nel loro insieme.
Certo si possono spacciare i piccoli correttivi costituzionali, messi a punto alla bell’e meglio per rendere meno devastante la riduzione dei parlamentari, come risolutivi “apripista”, ma per ora restano quello che sono: correttivi di un errore, che potrebbe solo non rivelarsi tale se fosse accompagnato da interventi di ben altro calibro che, però, non sono alle viste.
Un bicameralismo zoppo
Eppure se c’è un evento che meglio di ogni altro rende giustizia alla riforma del 2016 e di chi si era battuto per postarla a compimento, e mette a nudo quale disastro abbia compiuto la politique politicienne che ha animato i comportamenti degli oppositori, questo è indubbiamente la pandemia. Sotto i colpi del Covid i partiti sono stati costretti a accettare un monocameralismo di fatto (la camera che istruisce i provvedimento discute, l’altra approva, avvicendando di volta in volta i ruoli) che ha impoverito la funzione parlamentare, senza generare un effettivo guadagno di efficienza. Un bicameralismo zoppo, che ha solo difetti e nessun vantaggio se non quello di accelerare un po’ i tempi della decisione politica, ma che non sta aprendo a una discussione seria e partecipata sulla necessità di superare l’anomalia italiana e di giungere ad un effettivo monocameralismo. Una sola camera popolata di 600 deputati, a cui spetta la funzione legislativa, affiancata da un Senato delle regioni, che renda trasparente il confronto tra stato e regioni, oggi racchiuso in un organo opaco come la conferenza stato regioni, di cui i cittadini non sanno nulla.
Le criticità del regionalismo italiano
Infatti con il Covid sono esplose le criticità del regionalismo italiano stabilito dalla riforma del Titolo V del 2001, con il quale il centro-sinistra ha cercato allora di rispondere alle spinte autonomiste delle regioni settentrionali, senza però riuscire a definire in maniera chiaro il ruolo dello stato e senza affrontare il nodo dell’eccessivo numero di regioni esistenti, nate in un’altra epoca e pensare per rispondere ad altri scopi. Mentre i presidenti delle regioni eletti con un sistema maggioritario giocavano a fare i “governatori” come in uno stato federale, l’incapacità della politica di riformare complessivamente la parte II della orientare nella direzione maggioritaria il sistema elettorale nazionale ha indebolito progressivamente il ruolo e il peso dello stato centrale non sorretto da una effettiva “democrazia decidente”.
La pandemia ha messo in evidenza che non si possono avere 21 sistemi sanitari, che la conferenza stato regioni essendo un organismo politico-amministrativo senza rango sostituzionale non riesce a coprire le falle aperte da un sistema che non si è dotato di una norma di supremazia dello stato in grado di affrontare e governare le emergenze.
Quale legge elettorale?
Bisogna dunque tornare al 2016 e ritagliare da quell’approdo che aveva avuto un vaglio parlamentare i punti cardinali di una strategia che risolva almeno queste due questioni cruciali. Ma senza questo salto di qualità anche la discussione sulla legge elettorale rischia di essere preda si tatticismi senza scopo: modello alla tedesca, ma senza monocameralismo, senza numero dei parlamentari mobile, senza sfiducia costruttiva, senza soglia al 5% senza diritto di tribuna; proporzionale puro dentro un sistema bicamerale con basi elettorali diverse con soglia al 3% e senza preferenze, che istituzionalizza l’ingovernabilità; maggioritario ma senza dire con quanti turni. Un pasticcio dunque che ha per ora un’unica bussola condivisa: togliere ai cittadini la facoltà di scegliere il governo e tornare alla I Repubblica senza che siano presenti gli attori politici e istituzionali che ne garantivano il funzionamento.
Ma purtroppo non si intravede chi si voglia assumere questo gravoso fardello, ma senza questa assunzione di responsabilità il progetto costituente può già decretarsi concluso: nemmeno il Pd che aveva inaugurato la politica dei piccoli passi, ma che la lascia ora al suo destino, dopo aver raggiunto il suo scopo: giustificare agli occhi del proprio elettorato e dei propri iscritti la scelta di inseguire i 5S sulla strada del taglio dei parlamentari, cambiando posizione di 180°.
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