
23 Set I punti cardinali per una politica scolastica riformista
di Marco Campione*
Le definizioni di riformismo si susseguono. Il periodo estivo si è aperto con Emanuele Felice che ha definito «il meno peggio come sano principio riformista»; gli ha replicato il Senatore Nannicini sostenendo che «il riformismo è il meglio possibile»; ha chiuso – per ora – Giorgio Tonini con «il riformismo è la realizzazione del bene possibile».
Il riformismo: che vi sia ciascun lo dice, cosa sia nessun lo sa
Io se devo scegliere, faccio mia la definizione di Federico Caffè: «il riformista è ben consapevole di essere costantemente deriso da chi prospetta future palingenesi… Egli è convinto di operare nella storia, ossia nell’ambito di un “sistema”, di cui non intende essere né l’apologeta, né il becchino; ma, nei limiti delle sue possibilità, un componente sollecito ad apportare tutti quei miglioramenti che siano concretabili nell’immediato e non desiderabili in vacuo».
Se la definizione di riformismo è complessa, immagini il lettore quanto potrebbe essere vana la pretesa di disegnare una «ricetta riformista». Sulla scuola l’impresa è ancor più ardua: ognuno ha la sua, e l’enfasi viene di volta in volta messa su un problema piuttosto che su un altro. Se a questo aggiungiamo che tra gli addetti ai lavori parliamo in scuolese, una neolingua incomprensibile ai più, la confusione aumenta ancora e il discorso rischia di portarci nella stanca ripetizione di formule vuote. O, più precisamente (ancora con le parole di Caffè), a pretendere da chi avanza proposte «qualcosa di simile a quello che si chiede a un pappagallo tenuto in gabbia, dal quale, con la guida di una bacchetta, si cerca di ottenere che scelga, con il suo becco, uno dei variopinti manifestini che si trovano in un apposito ripiano».
La bussola riformista
Con questo contributo vorrei provare a fare un’operazione diversa: nessuna ricetta, nessun variopinto manifestino, ma il tentativo di tracciare i contorni di un «metodo riformista». Proverò a indicare, quindi, quelli che sono a mio avviso i quattro punti cardinali che debbono orientare la nostra navigazione e poi – ma solo a titolo di esempio, per agevolare il lettore – applicherò il metodo ad un problema di stretta attualità: la riapertura delle scuole a settembre.
Ecco, dunque, i punti cardinali. Il Nord, la stella polare, non può che essere la Costituzione: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana». Tema che si collega a quello della costruzione di una scuola autenticamente democratica, che, per dirla con le parole di Luigi Berlinguer, è una scuola che «deve farsi carico del fatto che le differenze sociali, e quindi le differenze di effettive opportunità di studiare e di farlo con successo, devono avere un peso anche nell’organizzazione complessiva della scuola».
Dall’altra parte della nostra bussola, a Sud, c’è la comunità educante. Attorno alla scuola si aggrega la più grande comunità del paese. Una comunità educante che i media faticano a intercettare e che non sempre percepisce se stessa come tale, ma che esiste e raccoglie, come attori complementari l’uno all’altro, giovani e famiglie, docenti, dirigenti e personale della scuola, istituzioni e realtà operanti nel territorio.
L’ipotetico Ovest è invece l’autonomia scolastica, quella della conferenza sulla scuola voluta nel 1990 dall’allora ministro Mattarella. Sabino Cassese in quella sede propone di ripensare la scuola come «servizio collettivo pubblico o nazionale, non statale», in cui «è dominante un aspetto professionale e non burocratico», e che deve essere considerata «responsabile dell’istruzione» in vece dello Stato. La legge arriverà nel 1999 e sarà una rivoluzione: dopo 150 anni un’organizzazione che era rimasta uguale a se stessa, passando attraverso il Regno d’Italia, il Fascismo e mezzo secolo repubblicano viene ribaltata e si abbandona – almeno sulla carta – un sistema centralizzato, nel quale le scuole sono uffici locali di un’unica struttura organizzativa ampia e piramidale. Le istituzioni scolastiche godranno di autonomia didattica, organizzativa, di ricerca, di sperimentazione e di sviluppo. Tutti aspetti solidali l’uno con l’altro: «non si può attribuire ad una comunità scolastica – affermava ancora Cassese – autonomia didattica se non le si concede in qualche misura autonomia di organizzazione, di destinazione delle risorse ed anche di ricerca di risorse finanziarie, di scelta del personale… l’autonomia, nelle sue varie accezioni, tende a fare sistema e l’assenza di un elemento condiziona gli altri». L’autonomia oggi è in crisi per ragioni che non abbiamo qui lo spazio per approfondire. Sottolineo però il più evidente: tra tutti gli elementi elencati nel 1990 uno è stato totalmente trascurato (la scelta del personale) e un secondo concesso, ma con moltissime limitazioni (la ricerca autonoma di risorse finanziarie). Nel 2015 la Buona Scuola proverà a correggere questo tragico errore, ma non a caso fu colpita dalla forza della reazione.
L’ultimo punto cardinale per orientarsi nella definizione di un rilancio della scuola dalla netta matrice riformista lo identifico con l’Est, perché è da est che sorge il sole: la scuola è per gli studenti. Sembra una affermazione scontata, ma purtroppo non lo è. Faccio un solo esempio: nelle stesse ore in cui veniva presentato il Rapporto OCSE sugli apprendimenti dei quindicenni, alla Camera veniva approvato l’ennesimo decreto «salva-precari». Una coincidenza che evidenzia in modo plastico come il dibattito pubblico sulla scuola sia scollato dai veri problemi di sistema, concentrato com’è su quelli del personale.
Dalla teoria alla prassi
Il quadro è così finalmente composto: la Costituzione, la comunità educante, le scuole autonome, la centralità dello studente, o meglio – per dirla in scuolese – la centralità dell’apprendimento. Provando ad applicare questi punti di riferimento all’avvio in sicurezza del nuovo anno scolastico, ne viene fuori un elenco di correzioni di rotta rispetto ad alcune scelte fatte.
1) Il test per il personale della scuola e gli studenti (almeno i più grandi) dovrebbe essere obbligatorio e gratuito. Un modo per farlo risparmiando tempo e denaro è quello del cosiddetto pooled test, ovvero analizzare periodicamente una ventina di campioni insieme e se si trova un positivo si fa il tampone a tutto il pool. Anche il vaccino antinfluenzale oggi e quello Covid domani dovrebbero essere obbligatori per il personale della scuola e gli studenti.
2) Per chi – personale e studenti – risulta positivo al sierologico e/o chi presenta sintomi deve essere garantita una corsia preferenziale per il tampone. Su questo c’è stata una presa di posizione molto netta della ministra Bonetti, che però mi sembra sia stata lasciata cadere dai colleghi di governo. Non è ancora troppo tardi per riprendere il discorso.
3) La misurazione della febbre e la relazione con il SSN, che oggi sono affidate alle famiglie, dovrebbero essere affidate alle scuole. Chi ha scritto le indicazioni evidentemente pensa che basta dire alle famiglie di provare la febbre al pargolo e di chiamare il pediatra perché lo facciano, ma questo non è scontato. Purtroppo chi si occupa di scuola a tutti i livelli tende ad identificare tutta la scuola con quella che hanno frequentato loro: quasi sempre un liceo, di solito classico, spesso di una città, per lo più frequentato da famiglie del ceto medio (se non benestanti) e di buona cultura.
4) La app Immuni dovrebbe essere «fortemente consigliata»: potrebbe anche diventare un pezzo di un progetto di educazione alla cittadinanza, con effetti positivi anche sui genitori. Avete presente quanto riescono ad essere insistenti i ragazzini con la raccolta differenziata, il riciclo/riuso o le borracce in metallo? Immaginateli caricati a molla sull’uso di Immuni.
Come ho scritto in premessa questo è solo un esercizio, molto parziale, finalizzato a esemplificare cosa vuol dire cambiare metodo di approccio ai problemi della scuola. Puro buon senso? Sì. Che per ora pare starsene ben nascosto per paura del senso comune.
Orgoglio e pregiudizio
A completare il metodo riformista manca però un elemento, che definirei di contesto. Per introdurlo parto dal disagio delle famiglie, che cova sotto la cenere e che ho la sensazione che un mondo della scuola un po’ arroccato e autoreferenziale faccia fatica a vedere. O – quando lo vede – lo derubrichi con troppa facilità a pregiudizio. Sia chiaro, il pregiudizio sulla scuola esiste e alimenta il disagio – speculare a quello delle famiglie – del personale della scuola.
Ne abbiamo esempi in molti editoriali dei giornaloni. Recentemente ad esempio ha tenuto banco per giorni la polemica sul dato dei due docenti su tre che si rifiuterebbero di fare il test. Quella polemica non aveva alcun fondamento – se non quello del pregiudizio, appunto – visto che i test sono cominciati due giorni prima della denuncia. Altro esempio? Ogni tanto esce qualcuno che polemizza con la «resistenza strenua al rinnovamento» da parte dei docenti e con gli «atteggiamenti dei sindacati che mirano a conservare potere e rendite di posizione nell’interesse non di molti ma di alcuni». L’accusa, come dirò, ha anche un suo fondo di verità, ma declinata senza fondamento rischia di essere controproducente.
Il qualunquismo poco informato di certi editorialisti infatti consente ai conservatori di reagire sdegnati e guadagnare punti anche tra chi conservatore non è, ma di fronte a un attacco senza costrutto, ingeneroso e sopra le righe si compatta con le istanze più deteriori. Ma soprattutto impedisce di prestare la necessaria attenzione ad un’altra sacca di conservatorismo che impedisce il cambiamento: l’amministrazione, sulla quale peraltro la politica avrebbe molti più strumenti per intervenire, se volesse. E così veniamo al quarto “colpevole”: la politica, appunto. Che spesso usa quei conservatorismi per non decidere o per giustificare le proprie decisioni sbagliate, ma che portano consenso facile nel breve periodo.
Pur con questa doverosa puntualizzazione, non si può fare a meno di vedere che il malcontento dell’opinione pubblica non è tutto figlio del pregiudizio. L’enormità di quanto accaduto (sospendere le lezioni dall’oggi al domani) e la concretezza del rischio che corrono a settembre un milione di studenti e le loro famiglie (non tornare a scuola o tornarci ma poi sospendere di nuovo le lezioni) ha messo sotto i riflettori un mondo che non è abituato a discutere di se stesso con la consapevolezza che il resto del mondo lo guarda. Alcune reazioni, alcune rivendicazioni corporative, alcune puntualizzazioni, scaricate sull’opinione pubblica senza alcun filtro, rischiano di apparire per quello che sono: inadeguate alla sfida che la scuola e il paese hanno di fronte.
L’esempio più recente è il «caso» denunciato dall’Ufficio Scolastico Regionale del Veneto. Ha scritto Gianna Fregonara sul Corriere del 1 settembre: «L’argomento è sensibile, la pratica complicata, le regole se troppo rigide rischiano di escludere dalla tutela anche coloro che ne hanno legittimamente diritto. Ma da quando la direttrice dell’USR del Veneto Carmela Palumbo ha denunciato che arrivano centinaia di richieste di «esonero» dall’attività in presenza da parte di docenti e di personale ausiliario, la questione è diventata il prossimo intoppo sulla strada per la riapertura delle scuole. Come in Veneto infatti anche il Liguria, in Campania e persino in Toscana, le domande sono migliaia. E i presidi non sanno che fare». Comportamenti come quello richiamato dal Corriere mettono a rischio i diritti di chi deve essere tutelato e alimentano quel pregiudizio che io stesso ho stigmatizzato. Ecco perché se qualcuno pensa di usare l’eventuale caos che potrebbe investire la scuola tra qualche settimana per liberarsi di una ministra sgradita rischia di segare anche il ramo sul quale è seduto.
Tra cogestione e incomunicabilità
Come se ne esce? Con quell’elemento di contesto che va aggiunto ai quattro punti cardinali illustrati nella prima parte di questo contributo. Se le irresponsabilità sono così ben distribuite tra soggetti diversi (commentatori, sindacati, amministrazione e decisori politici), la prima cosa da fare è cercare di responsabilizzarli tutti. Se tanta tensione e disagio reciproco disgrega la comunità educante, l’altra cosa da fare è creare le condizioni per una ricomposizione.
Sulla scuola serve una tregua: sul piano politico e sul piano sociale. Chiunque faccia il ministro deve poter contare su un appoggio bipartisan; non penso a governissimi o a commissariamenti da parte dei tecnici, ma una sorta di “patto di non belligeranza”. Un patto basato anche su un rapporto rinnovato della politica con i sindacati, che superi l’approccio prevalente fino ad oggi, quello che vede il pendolo oscillare tra cogestione e incomunicabilità. Un patto che consenta alla comunità educante di riscoprirsi tale.
Così metteremo al riparo ogni scelta dai cambi di maggioranza e alimenteremo un clima costruttivo, che dovrà accompagnare un percorso che non sarà breve. Questo vuol dire operare con metodo riformista, creando le condizioni per un salto di qualità da parte di tutti, abbandonando la via facile che vuole la scuola come terreno di scontro ideologico e strumento di consenso di breve periodo.
* L’autore, con Emanuele Contu, ha curato per i tipi del Mulino, il volume Liberare la scuola. Vent’anni di scuole autonome.
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