
28 Mag I referendum del ’91-’93, la fine della Prima Repubblica e l’Italia senza Nazione
di Alberto De Bernardi
Una crisi di sistema
Gli eventi referendari del ’91 e del ’93 si collocano all’interno di un ciclo politico più ampio nel quale nazionale e internazionale si saldano in maniera molto stretta. La fine della Prima Repubblica, quella dei grandi partiti di massa e dell’economia mista, trova la sua causa principale nella fine della guerra fredda, perché quel conflitto ideologico e sistemico planetario, assai simile a una guerra civile non convenzionale, aveva modellato per un cinquantennio tutti i sistemi politici europei. Se l’effetto più dirompente si verificò in Germania con l’unificazione tra i due stati separati dalla Cortina di ferro, anche l’Italia costituì uno degli epicentri del sisma perché non solo perché in essa si era venuta formando la più originale e solida esperienza comunista in Occidente, e l’unita politica dei cattolici nella Dc era presidiata dal Vaticano, il centro politico e religioso della cattolicesimo, ma soprattutto perché dai meandri della crisi emerse un’imprevista alternativa etnopopulista rappresentata dalla Lega Nord che esplicitamente metteva in discussione l’unità della nazione.
Mentre l’azione delle forze referendarie aggrediva il sistema elettorale proporzionale che aveva sorretto la Repubblica dei partiti in direzione di un esito maggioritario, più funzionale ad un progetto di revisione costituzionale su cui fondare una nuova repubblica fino alla approvazione della legge sulla elezione dei sindaci, e la magistratura, come una sorta di comitato di salute pubblica, faceva a pezzi tutti i partiti di governo e colpiva irreversibilmente le forze storiche della rappresentanza politica repubblicana, la nazione diventava oggetto di una riflessione collettiva, di una drammaticità, urgenza e profondità mai raggiunta in passato.
Tra il 1992 e il 1998 si infittiscono saggi e interventi di intellettuali di grande prestigio – Galli della Logga, Rusconi, Lepre, Romano, Ottone, Schiavone, per non citare che i più noti – che si interrogavano su una questione dirimente: l’Italia in quanto nazione aveva un futuro?
Tra gli eventi che occuparono la scena politica – scioglimento del Pci, disintegrazione dell’unità politica dei cattolici, scomparsa dei partiti antifascisti che avevano fondato la Repubblica, referendum e elezioni politiche del ‘92 con l’affermazione della Lega Nord, Tangentopoli – e questa discussione sulla nazione i legami sono strettissimi: ne costituisce per molti aspetti il controcanto e una sorta di dietro le quinte nel quale emergono le questioni di fondo che attraversano l’avvio della transizione da una fase della storia repubblicana a un’altra e ne sottendono la durezza e la complessità
La questione della nazione
Come in quasi tutte le fasi di svolta della storia italiana è sul nesso nazionale/internazionale che emergono le chiavi di lettura più interessanti e circostanziate. Sul piano internazionale la fine del comunismo significa la unificazione del mercato mondiale sotto il segno della globalizzazione neoliberale, che riduce progressivamente il peso della nazione come centro di regolamentazione della vita economica fino a farla apparire un residuo del passato obsoleto nel mondo senza confini della comunicazione informatica e dello scambio planetario, Da questa radicale ridefinizione dei rapporti tra stato e mercato, che hanno costituito una linea di fondo per definire le fasi storiche che si sono susseguite nella storia del capitalismo e dello stato liberale, si delineava una preoccupante perdita di sovranità della nazione, che si traduceva non solo nella riduzione di tutte le forme di controllo del “turbocapitalismo” finanziario, ma anche nel venir meno di quel senso di appartenenza, di quella tavola di valori condivisa sui si fondava il patriottismo e il senso di comunità, su cui poggiava l’essenza profonda della democrazia.
Se dunque la globalizzazione sembrava cancellare la nazione dalla vita economica, restava però senza risposta la convinzione che essa fosse ancora una struttura insostituibile per preservare e generare quei beni materiali e immateriali su cui si fondano le tradizioni culturali e la coscienza collettiva dei popoli che nel corso degli ultimi due secoli erano state alla base della forza coesiva della nazione. Il mercato e le ragioni dell’economia, da sole, non possono, infatti, determinare quel “plebiscito di ogni giorno”, cioè quell’insieme di scelte che mantengono attiva la coesione sociale e civile di una comunità con cui il filosofo Ernest Renan nel 1882 aveva definito la nazione democratica in una famosa conferenza tenuta alla Sorbona E infatti di fronte alla crisi della nazione l’incapacità dell’ethos del nuovo cosmopolitismo multiculturale generato dalla modernizzazione su scala transnazionale, di sopperire ai bisogni identitari, si tradusse in una vera e propria esplosione delle «piccole patrie», inventate o vere che fossero, in ogni angolo del continente. La debolezza di un messaggio unificante era riconoscibile in molti fenomeni contemporanei, dalle migrazioni, ai circuiti del consumo, alla nuova organizzazione territoriale incentrata sugli spazi metropolitani, ai linguaggi e alle tecniche delle comunicazioni di massa. Nella morsa tra globale e locale lo stato nazionale rischiava di essere stritolato e di essere consegnato alla storia come istituzione del passato, inadeguata al presente.
In questo contesto riemerse la discussione sull’identità nazionale, dopo che per decenni era stata occultata all’interno del tumultuoso processo di affermazione della società di massa e di consolidamento della democrazia del benessere. E non solo in Italia. In Francia il successo del partito nazionalista di estrema destra, Front national, fondato da Jean-Marie Le Pen, che tra il 1988 e il 1995 ottenne circa il 15 per cento dei suffragi alle presidenziali in nome di una lotta spietata all’immigrazione e di una concezione della democrazia populista e nazionalista, testimoniava un appannamento dei valori costitutivi dell’ésprit republicain. L’affermazione dell’antipolitica andò di pari passo alla critica corrosiva della rivoluzione francese, come atto fondativo della democrazia, da parte di una agguerrita pattuglia di storici, capeggiata da François Furet, emersa in occasione del bicentenario della rivoluzione del 1789. Se la rivoluzione francese rappresentava non il fondamento della civilisation, che aveva costituito il modello più solido della democrazia europea, bensì l’origine del totalitarismo, impersonata da Robespierre e dal Terrore (come sostenevano gli storici revisionisti, che si spingevano fino a porre in dubbio se fosse giustificata la festa del 14 luglio), la nazione francese rischiava di perdere ogni ancoraggio identitario, capace di unificare i francesi il di là delle divisioni politiche, perché il «plebiscito» di Renan, risultava privo del suo baricentro culturale.
Anche in Germania la riunificazione portata a termine nel 1990, che comportò un lungo strascico di squilibri economici e di impressionante lievitazione del debito pubblico, in ragione dei costi della «ricostruzione» dell’economia della ex DDR, coincise con il più drammatico dibattito sull’identità tedesca dal dopoguerra, passato alla storia con il termine di Historikerstreit, esploso tra storici e filosofi nel 1986. Il filosofo Ernst Nolte in un articolo comparso sulle pagine della «Frankfurter Allgemeine Zeitung», individuava nel Gulag sovietico il «prius logico e fattuale» dello sterminio degli ebrei, sgretolando il concetto di irriducibile unicità dell’Olocausto, rispetto a ogni altro crimine storico. Questa operazione, poi approfondita e articolata concettualmente da un agguerrito gruppo di storici «neorevisionisti», ebbe l’effetto di riaprire un dibattito sull’identità tedesca che nel corso degli anni Settanta e Ottanta aveva affrontato il nodo di Auschwitz, riconoscendo in esso il male assoluto.
Normalizzare» il rapporto con il passato dei tedeschi, che costituiva l’obiettivo di politica culturale dei neorevisionisti, implicava <relativizzare» le colpe del nazismo e collocarle in una «notte dei tempi» per dirla con Hans Magnus Enzensberger, che liberasse la coscienza tedesca da quella «frattura di civiltà» che ancora pesava sulla sua identità. Il rifiuto di tale interpretazione del nazismo e della storia tedesca, che trovò in Jürgen Kocka e in Jürgen Habermas i suoi maggiori esponenti metteva in campo la necessità di un confronto con il passato che non eludesse i nodi più drammatici della storia tedesca. Era necessario, piuttosto, individuare nella democrazia la rottura di continuità fondamentale e nel «patriottismo costituzionale» l’unico centro da cui sprigionavano i valori sui quali fondare l’identità tedesca. Se la storia tedesca poteva essere interpretata come una reiterata fuga dalla democrazia, di cui il nazismo era stato l’ultimo e più terribile atto, ogni tentativo di rompere i legami della storia della Germania con la storia della libertà e della democrazia occidentale faticosamente costruiti dopo il 1945, costituiva per Habermas una minaccia all’unica possibilità offerta ai tedeschi di rimettere in sintonia il loro passato con il loro difficile presente.
Questi due casi mettevano in evidenza una costante della discussione sul futuro della nazione che attraversò l’Europa nell’ultimo quindicennio del Novecento, rintracciabile anche in altri contesti nazionali: la stretta correlazione tra fratture del sistema politico, emersione di spinte antipolitiche di segno prevalentemente populistico e affermazione di correnti storiografiche che per semplicità definiremo revisionistiche, le cui interpretazioni scientifiche rapidamente si impossessarono dell’«uso pubblico della storia», diventando una componente essenziale di una «guerra sul passato» fondamentale per ridefinire la legittimazione politica.
Cessare di essere una nazione
Questa costante la ritroviamo anche in Italia. Nel nostro paese questa discussione sulla nazione assunse una drammaticità inusuale rispetto ad altre grandi nazioni europee, perché essa coincise con una crisi profondissima del paese, che coinvolse tutti i piani dell’organizzazione statale: una depressione economica e della finanza pubblica gravissima, che portò il paese vicino al collasso, il crollo del sistema politico per la fine della guerra fredda e per «Tangentopoli», che spazzò via tutti i partiti nati dalla lotta di resistenza, l’emergere di un partito autonomista, che chiedeva a gran voce la secessione della cosiddetta Padania. È quest’ultima una regione immaginaria, dai confini del tutto incerti (di volta in volta coincidenti con tutto il Nord, oppure con il vecchio Lombardo-Veneto prerisorgimentale, oppure con la Terza Italia del Nord-Est) che traduceva la crisi dell’identità nazionale, secondo i documenti fondativi del movimento, in termini etno-regionali e di «etnofederalismo».
Nei meandri della crisi l’Italia si trovò di fronte al dilemma di «cessare di essere una nazione», come denunciava il titolo di un allarmato volumetto di Gian Enrico Rusconi (1993), oppure di rifondare
le ragioni della convivenza civile, dopo che la fine della «repubblica dei partiti» aveva travolto le identità separate che avevano convissuto nei primi quarant’anni di vita della Repubblica. Il successo alle elezioni amministrative del maggio 1990, dove la Lega divenne il secondo partito della Lombardia, confermato da quello delle elezioni politiche del 1992 che consentirono la formazione di un gruppo parlamentare leghista forte di 80 eletti tra deputati e senatori, mise in evidenza come avesse fatto presa su componenti non piccole della popolazione settentrionale quell’impasto populista (lotta all’immigrazione, rifiuto del multiculturalismo, presidio “antifiscale” degli interessi dell’artigianato e della microimpresa – «il popolo delle partite IVA» – e infine «euroscetticismo») posto a fondamento della rivendicazione di un autonomismo radicale diretto a negare la legittimità dello stato nazionale. L’addensarsi in quegli anni di proposte e progetti per superare l’unità nazionale in direzioni di molteplici assetti federalistici – dal macroregionalismo delle tre aree (Nord-Centro-Sud) in cui dividere l’Italia, alla riforma della Costituzione per trasformare il decentramento in autonomia regionale – metteva in luce che la <fine della nazione» non era più un tabù politico, ma era entrata nell’agenda politico-culturale del paese.
La circostanza che l’emergere della deriva antipolitica di stampo populista, serpeggiante in tutta Europa, avesse assunto in Italia i caratteri di una critica distruttiva della nazione e della sua unità, segnalava che conseguenze di lunga durata si riverberavano dall’irrisolta questione della nazione, uno dei lasciti più negativi della cosiddetta «Prima repubblica». La nazione per le forze politiche repubblicane era rimasta un valore debole, direttamente proporzionale alla «sovranità limitata» del paese, che riguardava non solo lo stato e le forze politiche che lo guidavano, ma anche il maggior partito d’opposizione. Tale debolezza aveva impedito all’idea di nazione di proporsi come quell’insieme di «beni immateriali», fatto di senso civico, di solidarietà, di tradizioni culturali, di narrazione del passato condivisa, su cui edificare l’identità dell’intero paese. Se il cammino della nazione democratica era stato accidentato alle sue origini, la modernizzazione selvaggia che aveva caratterizzato l’età del benessere l’aveva invece completamente espulsa dallo spazio pubblico, cosicché anche il recupero dell’identità antifascista, che caratterizzò sul piano culturale l’esperimento del centro-sinistra fin dagli anni Sessanta, non entrò in sintonia con l’idea di nazione, che rimase per la sinistra un valore «di destra», e per il partito cattolico un’entità marginale, se non estranea alla sua cultura, in quanto inevitabilmente permeata di laicità e di secolarizzazione.
Sulla mentalità collettiva pesavano fratture identitarie che si esprimevano nella difficoltà di riconoscere nell’inno di Mameli il canto nazionale, oppure nell’incertezza sulle feste nazionali, tra il 25 aprile, risucchiato progressivamente in una festa della sinistra antifascista, e il 18 aprile 1948, festa della fondazione della nazione anticomunista, e il 4 novembre diventato festa del ricordo nostalgico dell’ultima «vittoria», che offuscò persino il 2 giugno, festa della Repubblica, fino a farla sparire dal calendario delle festività.
Da queste difficoltà e incertezze emergeva, se non l’inesistenza, per lo meno l’opacità di un patrimonio di valori collettivi che era indispensabile per fondare qualunque forma di patriottismo, vuoi quello espressione della «nazione dei cittadini», sul modello francese, vuoi quello che si riconosceva nella dimensione etnoculturale, e quindi prepolitica, dell’appartenenza nazionale, vuoi, infine, anche quello legato alla fedeltà costituzionale.
L’affermazione del leghismo, e la presa che la mitologia federalista ebbe nella ridefinizione dei nuovi partiti politici sia a destra, sia a sinistra dello schieramento politico, nasceva proprio dalla debolezza del patrimonio identitario repubblicano, che non era stato coltivato se non da sparute minoranze di intellettuali laici e riformisti; e sulle macerie dell’«Italia proletaria» e di quella «provvidenziale» cattolica, franate dopo il 1989, anche l’appiglio della Costituzione repubblicana, come riferimento identitario, sembrava indebolito dal disegno della «grande riforma» presidenzialista evocato dal socialismo craxiano o da altri progetti di revisione costituzionale che dai primi anni Novanta entrarono nel dibattito politico e nei lavori parlamentari, mentre ne rappresentava al contrario un effettivo rafforzamento.
La nazione antifascista
Emergeva l’assenza di una componente fondamentale che riguardava soprattutto la memoria collettiva, come processo ricostruttivo complesso, nel quale si delinea un «passato» comune, sentito come comune radice. Se da una parte, infatti, l’orgogliosa rivendicazione del carattere eroico e liberatore della resistenza impediva di offrire come minimo l’onore delle armi al nemico fascista, dall’altra parte, quella degli eredi della RSI, era altrettanto forte la negazione di ogni riconoscimento all’antico avversario. La memorialistica neofascista non aveva altro argomento se non la buona fede e l’entusiasmo dei «giovani» che scelsero di battersi per Hitler e Mussolini in nome dell’onore. Sullo sfondo si muovevano i fantasmi dell’irrazionalismo, del culto del sangue e della razza improntando buona parte di queste memorie a ideologie di sapore nichilista e nazista. In questo contesto, tra il ’90 e il ’91, con una coincidenza di date impressionate con quelle che riguardavano l’attualità politica, riesplodeva la questione del rapporto tra nazione e antifascismo, tra Costituzione e antifascismo, che costituì una sorta di secondo tempo dello scontro tra revisionismo e antirevisionismo esploso negli anni ’70 del secolo scorso.
Tra il 90 e il ’91 si verificano infatti tre eventi che fecero da miccia alla ripresa del dibattito: esce il penultimo volume della monumentale biografia di Mussolini di Renzo De Felice dedicato agli anni del crollo del fascismo; contemporaneamente un vecchio dirigente comunista reggiano, capo partigiano, denuncia dopo mezzo secolo di insabbiamenti e censure i delitti politici commessi dai partigiani nei mesi successivi alla fine della guerra nel cosiddetto «triangolo della morte» emiliano; pochi mesi dopo esce l’opera di Claudio Pavone [1991] sulla resistenza dal titolo eloquente e rivoluzionario, Una guerra civile. Saggio sulla moralità della resistenza. Si trattava di studi ed eventi che rimettevano in discussione il mito della resistenza alla ricerca di una «verità» sul passato che potesse in qualche modo concorrere, seppur da punti di vista diversi, a delineare una narrazione nuova della storia italiana della seconda metà del Novecento, oltre i limiti del «paradigma antifascista». Al centro c’era lo sforzo di affrontare il nodo della resistenza come guerra civile, superando l’agiografia un po’ stantia della «lotta di liberazione nazionale», su cui De Felice ritornò qualche anno dopo l’ultimo tomo del Mussolini dedicato proprio alla «guerra civile». In un subbuglio di polemiche, per le ricadute che queste nuove tesi ebbero nello spazio pubblico, colpendo soprattutto uno dei miti identitari della sinistra che proprio allora si stava avviando a diventare postcomunista, il libro di Pavone ruppe un tabù storiografico e culturale. Prendendo atto che la resistenza era stata anche una guerra fratricida – e non «solo», come ritenevano gli intellettuali di destra di matrice neofascista, e come voleva una «vulgata revisionista» di epigoni di De Felice –, la cui posta era la definizione dell’ordine della legittimità politica, Pavone sgretolava mezzo secolo di reticenze e omissioni della cultura storica antifascista. Quest’ultima, ossessionata dalla necessità di enfatizzare i caratteri di insurrezione patriottica della lotta partigiana, aveva sempre rifiutato di confrontarsi con questa dimensione del conflitto armato tra fascisti e antifascisti negli ultimi venti mesi della seconda guerra mondiale, nel quale emergono violenze tra partigiani e quella scia di sangue, fatta di vendette e regolamenti di conti che il 25 aprile non interruppe.
In realtà il rifiuto di prendere atto del carattere «civile» della resistenza impediva di elaborare un racconto della storia italiana in grado non certo di riabilitare i fascisti repubblicani, quanto piuttosto di dare visibilità all’esistenza di quell’altra Italia che aveva combattuto nel campo nazi-fascista. Infatti la formula della resistenza come «secondo risorgimento», tanto cara a gran parte dell’antifascismo liberal-democratico e cattolico, cancellava di fatto i fascisti dallo scenario di guerra, riducendo la resistenza a una lotta contro i tedeschi. Ma così non era stato, né era possibile ridurre l’intera esperienza della RSI alla mera categoria del collaborazionismo, per la complessità dei rapporti tra il regime totalitario di Mussolini e la storia italiana.
Una nuova idea della Resistenza su cui fondare un nuovo patriottismo democratico
La valenza politica più significativa della proposta interpretativa della resistenza come guerra civile consisteva nel fatto che quella insurrezione di cittadini e cittadine contro il proprio stato si configurava come una contrapposizione radicale tra due «idee di nazione», che non avevano tra di loro nessuno spazio di conciliabilità, a entrambe erano in campo, in quanto eredi della «guerra civile europea» in corso dal 1914. Questo conflitto ideale andò ben oltre lo spazio storico della lotta armata per ritrovarsi nelle motivazioni di quanti si opposero al fascismo nei campi di concentramento, tra gli internati militari, tra i soldati dell’esercito regolare che combatterono al fianco degli Alleati, rendendo la rottura con l’Italia fascista ben più ampia e profonda di quanto emergeva dall’osservatorio della resistenza. Proprio per questa ragione il «nemico» vero non era l’occupante tedesco,- come da sempre voleva la vulgata resistenziale promossa dall’associazionismo partigiano, Anpi in testa, ma proprio il fascista, e la Repubblica trovava la sua origine proprio da un atto di rottura con il passato. Questo costituiva l’essenza della «rivoluzione democratica», che tale rimaneva anche se dovette fare i conti al suo interno con l’altra faccia della resistenza, quella di «guerra di classe», alimentata dai partiti marxisti: la «resistenza rossa», che non si accontentava dell’esito democratico dell’antifascismo, ma che poneva con forza i problemi del potere del proletariato fino a prefigurare il salto verso il bolscevismo. Vi erano nella guerra civile, dunque, fini diversi, che dovevano essere riconosciuti, per poter cogliere non solo la forza ma anche i limiti del patto costituzionale, che rese possibile il progressivo slittamento di questo conflitto sui fini ultimi all’interno di una normale dialettica parlamentare democratica.
I limiti riguardavano proprio l’impossibilità che si formasse un patriottismo democratico, perché la lunghezza del processo di assorbimento di quella divisione sui fini ultimi, che indeboliva il patto «sui fondamenti» della statualità, per lungo tempo ridusse l’affermazione della democrazia repubblicana a evento limitato e circoscritto, riconosciuto solo parzialmente come effettivo risultato dell’impegno antifascista.
Se in Pavone il riconoscimento della resistenza come guerra civile serve a ridefinire la complessità dei nessi tra quest’ultima e la Repubblica, De Felice, dopo il suo lungo itinerario nella storia del fascismo, nell’analisi della resistenza restò impigliato nelle stesse categorie interpretative desunte da Carl Schmitt, tutte incentrate sulla definizione della guerra partigiana come guerra meramente ideologica, che si esaurisce in sé stessa. Quel che accadde tra il 1943 e il 1945 fu «il dramma del popolo italiano tra fascisti e partigiani », come recita il titolo di un capitolo dell’ultimo lavoro di De Felice. Alla fine del suo lungo periplo sul fascismo, De Felice ritornava a Satta e a Malaparte, e la guerra fratricida tra italiani da lui raccontata tornava a tingersi di quei caratteri meramente negativi di evento puramente distruttivo, foriero di molte di quelle irrisolte contraddizioni che avrebbero pesato sulla vita democratica: dalla resistenza antifascista, simbolo estremo della «morte della patria», non poteva dunque nascere nulla, men che meno la Repubblica.
Ma, priva di un atto di nascita e di un evento simbolico che la rappresentasse, da che cosa era nata la Repubblica? De Felice paradossalmente, e prima di lui una lunga fila di intellettuali, da Del Noce a Settembrini, non seppe rispondere a questa domanda. Tale incapacità rivelava che la cultura «antiantifascista», priva dell’idea di nazione ereditata dal fascismo nella quale non si poteva riconoscere, non aveva nelle sue disponibilità culturali e teoriche nessuna effettiva alternativa alla nazione dell’antifascismo democratico.
Questo ultimo sussulto della polemica tra revisionismo e antirevisonismo ha lasciato alla riflessione pubblica un complesso intreccio di problemi che segnalava però alcuni significativi mutamenti: il superamento del paradigma antifascista e l’impasse ermeneutica del revisionismo radicale da un lato, e dall’altro la centralità dell’idea di nazione, come nodo irrisolto che doveva essere affrontato per uscire non solo dalla guerra fredda, ma anche dalle pericolose eredità della «guerra civile».
A causa di questa discontinuità culturale e ideale generatasi negli ultimi anni del XX secolo, i decenni trascorsi dalla fine della seconda guerra mondiale potevano essere letti come un cammino lento e faticoso, che ha riguardato milioni di donne, di uomini, di classi e di generazioni di italiani, provenienti da storie e identità diverse. Nel corso di quel cammino, dopo aver superato contrasti ideologici profondi, la scomparsa di alternative sistemiche rendeva possibile la ricomposizione tra antifascismo e antitotalitarismo, e aprire la possibilità che si affermasse una idea di nazione come spazio pubblico unitario. Se nel 1945 era morta la nazione come destino originario degli italiani, alla fine del Novecento sembravano maturare le condizioni perché la progressiva scomparsa di appartenenze multiple che rendevano fragile lo stato nazionale facesse emergere la consapevolezza collettiva di una comune identità nazionale, come miglior antidoto all’etnoregionalismo populista.
Ma questo itinerario, come quelli in direzione di una seconda “rivoluzione democratica” rappresentata dalla riforma costituzionale e dal maggioritario, si impantanò per la difficoltà delle nuove forze politiche della seconda repubblica di ridefinire un “patto sui fondamenti” stabile e condiviso. Su versante istituzionale la sinistra rimase impigliata nella retorica della “costituzione più bella del mondo” e nei suoi retaggi proporzionalistici che impedivano, e impediscono ancora oggi, la creazione di una “democrazia decidente” a cui si unì la sudditanza ideologica al populismo giustizialista del “partito dei giudici”; la destra liberale e cattolica conservatrice fatto un patto del diavolo con l’universo populista di Bossi e Berlusconi non fu in grado di contribuire efficacemente a creare una nuova repubblica. Su quello identitario, nella progressiva riduzione del confronto politico a una lotta tra berlusconismo e antiberlusconismo rimosse rapidamente quello poche condizioni favorevoli che si erano aperte in quella anomala e surrettizia “fase costituente” tra il 91 e il ’93 perché quella riflessione sull’idea di nazione sortisse qualche risultato destinato a durare.
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