
28 Mag Il 9 giugno 1991, trent’anni dopo
di Stefano Ceccanti
Nelle settimane scorse, subito dopo la scomparsa di Gigi Covatta, mi sono riletto il suo bel volume “Menscevichi. I riformisti nella storia d’Italia”. Riprendo due delle sue suggestioni.
La prima, che Covatta riprende a sua volta da Luciano Cafagna, è la legge di Tocqueville, secondo la quale “per un cattivo governo il momento più pericoloso è sempre quello in cui esso comincia a riformarsi”.
Il movimento referendario nacque appunto come effetto delle promesse non mantenute da parte degli attori del sistema politico, un sistema che in quella legislatura aveva perso il bandolo dell’innovazione.
Al di là delle formule tecniche elettorali e costituzionali, negli anni precedenti le principali forze politiche avevano affrontato esplicitamente il tema della debolezza della forma di governo e del proporzionalismo estremo delle formule elettorali ritornando nel primo caso sulle scelte del Costituente e nel secondo su quelle delle forze politiche dopo il fallimento della legge a premio di maggioranza del 1953.
Gli uni (i socialisti) puntando, a partire dal rinnovamento impresso con Craxi e col laboratorio di ‘Mondoperaio’ più su forme di presidenzialismo che erano state rigettate alla Costituente non in sé ma per la situazione internazionale della Guerra Fredda, allora più diffuse di quanto non si pensi non solo tra gli azionisti ma anche tra i democristiani (come si è poi appreso nell’intervista rilasciata da Dossetti e Lazzati a Scoppola ed Elia). Gli altri (Dc e Pci) sul superamento del proporzionalismo (il ‘cittadino come arbitro’ di Ruffilli, l’alternativa neoparlamentare di Barbera e il cittadino a cui restituire lo scettro di Pasquino per l’investitura di fatto diretta del Governo da parte dei cittadini) in quella fase attraverso lo strumento dei premi di coalizione ma non escludendo neanche il ricorso ai collegi.
Il punto è che nella legislatura 1987-1992 lo slancio riformatore perde rapidamente la sua spunta progressiva e che gli intenti di De Mita e Craxi vengono assorbiti nella palude del Caf, in vista dell’elezione presidenziale del 1992. Dal febbraio 1989, col congresso Dc che segna uno spostamento in senso conservatore, l’immobilismo di Andreotti e Forlani attrae Craxi in vista delle possibili spartizioni di cariche legate all’elezione presidenziale. Non c’è più traccia né nella Dc dei richiami alla democrazia dell’alternanza e della possibilità di andare all’opposizione (prevale secondo Andreatta ‘la gelosia dei vecchi che vogliono morire governando’) né nel Psi all’idea che il pentapartito sia solo una tappa, una grande coalizione forzata prima del riequilibrio a sinistra col Pci che consenta un’alternativa socialista, l’unica possibile in Occidente.
Il punto di svolta sono i quattro voti di fiducia ad inizio 1990 contro la maggioranza parlamentare trasversale favorevole all’elezione diretta del sindaco che Andreotti impone alla Camera per mantenere l’equilibrio immobilista su cui poggiava il Suo Governo, basato sullo slogan “meglio tirare a campare che tirare le cuoia”.
Da lì nasce, nell’interazione tra i riformisti nel sistema politico e i pezzi di società civile che si erano alimentati di quelle suggestioni vedendole tradite, il movimento referendario, a partire dall’ipotesi formulata nel Congresso della Fuci nel marzo 1989, otto mesi prima della caduta del Muro.
Quando la Corte costituzionale si trova a dover decidere in un territorio così delicato preferisce scartare i due quesiti più radicali (Comuni e Senato) sia pure con motivazioni che creano le premesse per tentativi ulteriori e ammettere quello di impatto minore (le preferenze della Camera) che avrebbe potuto consentire al sistema di riprendere la spinta che si era fermata, anche provvedendo in sede parlamentare. Ma era crollato il Muro di Berlino e le forze di Governo pensavano di reagire con l’immobilismo, come se quel passaggio non colpisse, insieme ai residui richiami ormai impossibili al comunismo anche le rendite di posizione tradizionali.
Qui riprendo il secondo ricordo di Covatta. Il 4 marzo 1991 propone a Craxi di ricorrere allo scioglimento anticipato per “evitare la trappola del referendum sulla preferenza unica, la cui valenza antipartitocratica avrebbe riscosso grande consenso presso gli elettori”, ma Craxi gli risponde che sbagliava “a dare per scontata l’impopolarità del sistema dei partiti” e si mette alla testa dello schieramento per l’astensione diventando “paradossalmente, il difensore più estremo di un sistema che in realtà si reggeva sulla negazione del ruolo suo e del suo partito”. Non devono quindi sfuggire le conseguenze che vi furono sul piano strettamente politico, oltre all’apertura della transizione istituzionale.
Il declino del Psi inizia allora, prima delle inchieste di Tangentopoli perché in quel passaggio, nel duello a sinistra, esso perde, nel duello a sinistra, la primogenitura del riformismo. Da questo punto di vista il referendum del 1991 è esattamente il rovescio di quello del 1985 sulla scala mobile. Si deve a questo, molto probabilmente, se il Pds riesce a scavalcare il Psi nelle prime elezioni successive al crollo del Muro, cosa niente affatto scontata qualche anno prima.
Invece il ridimensionamento della Dc alla Camera, per la prima volta sotto la soglia del 30%, oltre alla fine della rendita anticomunista, era più direttamente legata all’esito concreto del referendum, alla fine della preferenza plurima, il modello su cui si era strutturata l’organizzazione delle correnti forti in un partito tradizionalmente debole come tale.
Sul piano della transizione istituzionale un eccesso di revisionismo critico ha sottovalutato in questi decenni due elementi decisivi di analisi.
Il primo è che il rendimento è stato ben diverso (comuni, regioni) dove è stato possibile intervenire in modo coerente non solo sulla formula elettorale che ha effetti limitati al momento di assegnazione dei seggi ma non oltre ma anche sulla forma di governo. Se l’obiettivo ragionevole è quello del cittadino arbitro sui Governi non occorre solo un sistema che dia un vincitore la sera delle elezioni, ma che ci sia anche un sistema di disincentivi per chi intende rompere l’accordo pre-elettorale.
Il secondo è che la tendenza alla frammentazione era già in corso e in termini decisamente accelerati al momento dell’inizio della transizione perché le appartenenze tradizionali legate alla Guerra Fredda si erano irreversibilmente rotte. I sistemi della transizione hanno cercato non tanto di contrastarla, ma di ricondurla ad una logica bipolare, ma per far ciò occorreva appunto intervenire coerentemente anche sulla forma di governo e sui regolamenti parlamentari. È vero però che l’uninominale di coalizione a un turno si è rivelato un potente fattore di potenziamento della frammentazione per la spartizione pre-elettorale dei seggi. Se esso poteva avere un senso nel 1993 perché era pensato soprattutto per superare nel centrosinistra la separazione obsoleta ma ostinata dei riformisti in partiti diversi, oggi esso appare solo portatore di effetti negativi.
Per queste ragioni, se vogliamo oggi ripensare ad una chiusura razionale della transizione, quello di un sistema con un ragionevole premio di coalizione, capace di identificare un vincitore restando lontani dai quorum di garanzia, e con opportuni disincentivi costituzionali verso le crisi e regolamentari contro la frammentazione resta di gran lunga il modello preferibile. Ovviamente coinvolgendo le principali forze politiche in un’intesa di questo tipo perché di forzature di parte, legate a visioni partigiane di breve periodo, ne abbiamo avute già troppe.
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