Il disegno strategico per il Ponte sullo Stretto - Fondazione PER
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Il disegno strategico per il Ponte sullo Stretto

di Pietro Spirito

 

Le caratteristiche contemporanee del sistema infrastrutturale

La storia di lunga durata dell’Italia conduce spesso alla constatazione che non dobbiamo inventarci nulla, quanto piuttosto dobbiamo operare per rendere attuali i disegni ed i percorsi dei nostri progenitori, al fine di adattarli e di interpretarli secondo la logica economica e sociale del tempo attuale. Non sempre ne siamo capaci, e tale elemento costituisce un fattore di debolezza nel mantenere inalterata la nostra capacità competitiva.

Nella storia più recente, abbiamo dismesso completamente la programmazione economica, che aveva invece sorretto, tra la metà degli anni Cinquanta e la fine degli anni Sessanta, la stagione del miracolo economico, con i piani di Vanoni, La Malfa, Saraceno, Ruffolo.

L’ultimo documento di programmazione che possa definirsi tale è il Piano Generale dei Trasporti del 1986, rimasto poi per lungo tempo inattuato, sino a generare l’unica opera infrastrutturale adeguata a trasformare l’architettura delle connessioni nazionali, vale e dire il quadruplicamento delle linee ferroviarie tra il Nord e la Campania.

Intanto la logistica, le connessioni e l’economia del mare hanno assunto, nei decenni più recenti, sul finire del ventesimo secolo, un peso sempre più rilevante, per effetto della globalizzazione dell’economia. Il contenuto di mobilità presente nei prodotti che consumiamo è drammaticamente cresciuto, mentre anche i collegamenti delle persone stanno continuando ad aumentare.

In tale contesto, le decisioni di politica dei trasporti, come più in generale le politiche economiche nel suo insieme, non sono state sorrette, nel nostro Paese,  da una visione di piano e da una capacità di leggere unitariamente le differenti decisioni nei singoli modi di trasporto che formano il disegno infrastrutturale nazionale.

Mentre il sistema internazionale assumeva una gerarchia competitiva sempre più in funzione della densità, della qualità e della frequenza delle connessioni, il peso degli investimenti per infrastrutture sul Pil  tra il 2008 ed il 2021, è calato in modo drammatico in Italia, proprio quando era all’opposto opportuno non solo utilizzare questa leva come meccanismo anticiclico ma anche come strumento per la ripresa della competitività, della produttività.

Dalla crisi finanziaria globale fino alla pandemia, la spesa italiana per infrastrutture si è contratta in media del 2,8% l’anno (cinque volte il tasso a cui è decresciuto il Pil nello stesso periodo), passando dai 65,3 miliardi di euro del 2008 ai 45,3 miliardi di euro del 2021.

Con il PNRR si potrebbe determinare una decisa inversione di tendenza, con un aumento della spesa per la realizzazione ed il potenziamento delle reti, sempre che gli investimenti si realizzino nei tempi definiti dal programma comunitario. Nel prossimo decennio la spesa in infrastrutture italiana è destinata a crescere in media dell’1,7% l’anno, un tasso superiore alla media dell’eurozona (+1,5%), ma soprattutto nettamente al di sopra delle previsioni pre-pandemia (+0,9%).

La crescita sarà più accentuata nel periodo 2021-2026 (+2,6%), per diventare meno intensa nel quinquennio successivo (+0,9%), per un effetto combinato di una minore spesa pubblica e di una riduzione della forza lavoro dovuta all’invecchiamento della popolazione.

Nei prossimi anni si gioca dunque una partita decisiva per l’adeguamento della piattaforma infrastrutturale del nostro Paese, dal momento che saranno disponibili risorse finanziarie talmente ingenti che non potranno certamente essere replicate a breve distanza di tempo.

Si tratterà non solo di scegliere bene le opere effettivamente prioritarie, ma anche quelle che sono mature per progettazione. Non si fermano qui i criteri che servono. Andrà considerato anche l’impatto per direttrice e corridoio, dal momento che i miglioramenti più significativi potranno essere colti in una logica di integrazione tra reti e nodi.

Nel nostro ragionamento affronteremo le conseguenze che si possono determinare per effetto della realizzazione, o della mancata costruzione, del Ponte sullo Stretto di Messina  non in quanto opera di per sé, ma rispetto al sistema delle altre infrastrutture  e rispetto alla rete delle connessioni che legano la Sicilia con l’Italia e con il bacino del Mediterraneo.

Questo modo di analizzare secondo una logica complessiva un investimento infrastrutturale rappresenta, oggi ancor più che prima, una necessità assolutamente prioritaria, in quanto il vantaggio competitivo si giocherà proprio nella architettura di sistema nel suo insieme.

Il progetto del Ponte sullo Stretto di Messina è stato invece sinora prevalentemente trattato in logica di singola opera, e molto meno in un ragionamento di direttrice o di impatto complessivo sulla competitività e sulla geopolitica del Mezzogiorno e dell’Italia.

Forse è venuto il momento di cambiare passo, utilizzando un approccio olistico capace di valutare le alternative in una visione di insieme. Proprio per questa ragione vale la pena di ricordare che questa opera ha una lunghissima gestazione nel corso dei secoli.

Le origini del Ponte

Il Ponte sullo Stretto di Messina, sia pure in una versione provvisoria, è nato da una necessità militare temporanea dell’esercito romano. L’unico progetto di Ponte sullo Stretto, probabilmente realizzato, risale difatti all’epoca dei Romani.  Plinio il Vecchio e Strabone  narrano della costruzione, voluta dal console Lucio Cecilio Metello nel 251 a.C., di un ponte fatto di barche e botti, per trasportare dalla Sicilia 140 elefanti da guerra catturati ai cartaginesi nella battaglia di Palermo durante la prima guerra punica.

Poi, sono seguiti lunghi secoli nei quali le competenze di ingegneria non erano adeguate a progettare un’opera così complessa, in una collocazione geografica caratterizzata anche da fenomeni naturali che ne rendevano ulteriormente difficile l’esecuzione.

Nel 1840 Ferdinando II di Borbone, Re delle Due Sicilie, pensò alla realizzazione del ponte incaricando un gruppo di architetti e ingegneri dell’epoca di fornirgli idee per la costruzione. Dopo averne constatata la fattibilità, preferì rinunciare per l’eccessivo costo dell’opera, non ammortizzabile per le casse del Regno.

Nel 1866 l’allora Ministro dei lavori pubblici Stefano Jacini incaricò l’ingegnere Alfredo Cottrau, tecnico di fama internazionale, di studiare un progetto di ponte tra Calabria e Sicilia. Più tardi, nel 1870, nacque anche l’idea di allacciamento sottomarino di 22 km, proposta dall’ingegner Carlo Alberto Navone. Ponte a numero diverso di campate e collegamento sottomarino hanno poi costantemente costituito le alternative tecniche oggetto di valutazione.

L’idea dell’opera fu rilanciata nel 1952 dall’iniziativa dell’associazione dei costruttori italiani in acciaio (ACAI), che incaricò l’ingegnere statunitense David B. Steinman, uno dei più qualificati e prestigiosi progettisti di ponti sospesi, di redigere un progetto preliminare.

Nel 1955 venne costituito da alcune tra le maggiori imprese di costruzioni nazionali (Finsider, Fiat, Italcementi, Pirelli, Italstrade) il Gruppo Ponte Messina S.p.A. per promuovere studi ingegneristici e ambientali finalizzati alla realizzazione di un collegamento stabile viario e ferroviario tra la Sicilia e il continente.

Nel 1981 il Presidente del Consiglio Francesco Cossiga diede vita alla costituzione della società concessionaria Stretto di Messina S.p.A.. Da allora è cominciata una storia contraddittoria di “stop and go” , che non ha comunque condotto verso un sentiero di esecuzione di questa infrastruttura.

Ma questo elemento di incertezza sul sentiero che conduce dalla progettazione alla esecuzione non è l’unico elemento che merita di essere compreso ed analizzato. Sinora non si è mai collocato il Ponte sullo Stretto dentro un sistema di investimenti infrastrutturali complessivi per migliorare la competitività del nostro Paese.

E’ sinora prevalso l’approccio basato sulla valutazione puntuale dell’opera, come elemento di connessione tra la Sicilia e la sponda continentale meridionale, senza analizzarne l’impatto sulla rete dei collegamenti. E non sono mai state valutate òle trasformazioni che si potrebbero determinare per effetto della realizzazione del collegamento tra la Calabria e la Sicilia.

L’opera provvisoria realizzata dai Romani serviva ad una finalità specifica, limitata nel tempo: in quello scenario non era certamente necessario valutarne l’impatto complessivo. Poi, la lunghissima discussione che si è sviluppata, a partire  dal diciannovesimo secolo ad oggi, ha riguardato essenzialmente il collegamento puntuale tra il continente meridionale e la Sicilia, senza alzare lo sguardo su una visione generale delle reti.

La stagione dell’alta velocità senza Mezzogiorno

In questa chiave interpretativa sta un errore strategico che oggi va superato, per condurre invece la discussione sulla realizzazione del Ponte nel corretto tracciato di un sistema infrastrutturale capace di connettere in modo più adeguato i nostri territori secondo una logica nazionale ed internazionale.

Negli anni Ottanta, ricordiamolo, era ancora bloccato il progetto per la realizzazione del quadruplicamento ferroviario tra Sud e Nord, mentre languivano i cantieri per completare il collegamento autostradale della Salerno Reggio Calabria. In quelle condizioni, realizzare il Ponte non avrebbe generato benefici di sistema particolarmente rilevanti.

La realizzazione in quella fase dell’investimento si sarebbe riflessa solo sulle connessioni tra le due regioni separate dallo Stretto, senza che si potesse determinare un effetto di sistema, che è l’unica componente davvero interessante per mettere in gioco le risorse rilevanti che sono necessarie per la realizzazione di questa infrastruttura.

Anche la rete ferroviaria siciliana era in una condizione di drammatica arretratezza, senza progetti per un suo miglioramento. Mettere in cantiere la costruzione del Ponte in quelle condizioni avrebbe determinato benefici limitati solo all’attraversamento dello Stretto, che è aspetto certamente rilevante, ma non decisivo in una visione geopolitica o dentro un quadro di pianificazione sistemica per la competitività del Paese.

Successivamente, negli anni Novanta è partita la progettazione, e poi la realizzazione, del collegamento ferroviario ad alta capacità tra Salerno e Milano-Torino. Si tratta dell’unica opera infrastrutturale che sinora ha mutato in modo sostanziale il volto dei collegamenti nel sistema nazionale.

Il Meridione è rimasto estraneo, se si esclude la Campania, agli aspetti positivi che si sono determinati con l’entrata in esercizio della “metropolitana d’Italia”. Con lentezza, intanto, i cantieri della autostrada Salerno Reggio Calabria sono andati verso il completamento, dopo quasi  sessanta anni dall’avvio della A2.

Più di recente, sono stati messi in programmazione, nell’ambito del PNRR, altri lavori infrastrutturali di importanza decisiva per il sistema dei collegamenti meridionali e nazionali: parliamo del raddoppio con caratteristiche di alta velocità tra Napoli e Bari, della nuova linea ferroviaria tra Salerno e Reggio Calabria, del miglioramento della rete ferroviaria siciliana tra Palermo e Catania, con il dimezzamento dei tempi di percorrenza, del  miglioramento della linea ferroviaria jonica.

Si tratta di un pacchetto di consolidamenti e potenziamenti infrastrutturali che potrebbe consentire, per la prima volta, di generare un salto di qualità non solo nel sistema delle connessioni meridionali, ma anche  nella rete dei collegamenti tra Mezzogiorno, territori europei e bacino del Mediterraneo.

Non è questa la sede per discutere sulle modalità ottimali per realizzare questi investimenti, pur se ovviamente si tratta di questione di importanza cruciale, che meriterebbe un serio dibattito pubblico. Varrebbe la pena di approfondire le caratteristiche tecniche di questo pacchetto di investimenti, perché si tratta di una occasione irripetibile che non può andare smarrita.

Proprio perché gli investimenti infrastrutturali si possono ormai valutare secondo caratteristiche di direttrice, e  non in un contesto puntuale riferito al singolo territorio, sarebbe il caso di valutare con attenzione l’errore di realizzare la nuova linea tra Salerno e Reggio Calabria con caratteristiche adatte al transito non solo dei treni passeggeri veloci, ma anche dei treni merci.

Quello che è accaduto nell’investimento ferroviario dei quadruplicamento tra Torino-Milano e Napoli-Salerno dovrebbe essere di lezione: si è realizzata una linea adatta al transito dei treni merci, con un costo pari a d 1/3 in più, senza che neanche un treno merci abbia utilizzato questa possibilità.

Inoltre, il tracciato interno, piuttosto che tirrenico, conduce solo ad una opera ulteriormente costosa per le centinaia di chilometri in galleria, con tempi di esecuzione che saranno immemori mentre il Mezzogiorno ha bisogni di cnnessioni adeguate e di qualità.

Il senso del Ponte per la portualità meridionale

Dentro questo scenario infrastrutturale, che prevede comunque potenziamenti ferroviari lungo l’itinerario meridionale da Palermo e da Bari verso il Nord, la realizzazione del Ponte sullo Stretto assume tutt’altra valenza strategica. Diventa una cucitura indispensabile di completamento per connettere reti infrastrutturali capaci di migliorare la competitività, perché rappresentano un disegno di sistema che va valutato nella sua interezza.  Non si pone sotto osservazione solo il collegamento tra le sponde della Sicilia e della Calabria, ma viene valutato alla luce di un percorso integrato di connessioni.

La direttrice tirrenica, con la disponibilità anche del Ponte, potrebbe contare su una linea di continuità e di efficienza con una serie di infrastrutture stradali e ferroviarie capaci di connettere Palermo ed il centro-nord del Paese: in termini di tempi di collegamento si potrebbe determinare una vera e propria svolta rispetto alle performances attuali.

Seguendo tale disegno, vanno ripensate anche le funzioni dei porti meridionali, ed in particolare di quelli siciliani, perché potrebbero, e dovrebbero, essere la testa di ponte del nostro Paese per le connessioni di autostrade del mare verso il Nord Africa. I porti di Messina e Reggio, che oggi occupano la propria capacità produttiva per il traghettamento nello Stretto, potrebbero essere ripensati come ulteriori basi per la rete nazionale delle autostrade del mare, che oggi si basa nella propaggine meridionale sui porti di  Catania e Palermo, che a loro volta potrebbero invece costituire le teste di ponte per la connessione marittima tra Europa e Nord Africa. 

Dunque, in questo scenario il Ponte sullo Stretto diventa un chokepoint, un collo di bottiglia, che deve essere assolutamente superato per migliorare la qualità infrastrutturale nazionale.

Da un lato consente di articolare un corridoio unitario ferroviario e stradale di qualità per migliorare le connessioni terrestri, mentre dall’altro consentirebbe la configurazione del sistema portuale meridionale per riorientarlo anche verso la sponda meridionale del Mediterraneo, che può essere una delle chiavi di volta per una riscrittura della geopolitica e della geostrategia, non solo del Mezzogiorno, ma dell’Italia e dell’Europa.

Per questo il Ponte va realizzato, assieme alle altre opere infrastrutturali per la mobilità previste dal PNRR, a condizione che i tempi di realizzazione siano in linea con le tradizioni storiche del nostro Paese, e non con i tempi biblici della autostrada Salerno Reggio Calabria. Questo sarò il fattore decisivo che stabilirà la qualità del nostro sviluppo nei prossimi decenni.

Insomma, una decisione consapevole sul Ponte sullo Stretto può essere assunta solo delineando una visione complessiva delle infrastrutture meridionali, considerando le reti stradali e ferroviarie, oltre che i porti principali presenti nella direttrice, Questa visione integrata delle infrastrutture deve essere elaborata dentro un disegno di geopolitica e di geostrategica, per comprendere quale possa essere il ruolo dell’Italia, ma anche dell’Europa, nel bacino del Mediterraneo.

Se invece il Ponte deve essere considerato come una infrastruttura puntuale, che non è connessa ad una visione di sistema, non vale la pena nemmeno di parlarne. In discussione non è la tecnica di attraversamento dello Stretto di Messina, ma il futuro del Mezzogiorno e dell’Italia, in una Europa che finalmente comprenda la strategicità del Mediterraneo.

L’economia del Mezzogiorno pesa solo per poco meno del 10% sul totale delle esportazioni italiane. Questo elemento si connette da un lato alla gracile struttura industriale delle regioni meridionali e dall’altro alla debolezza delle piattaforme logistiche di connessione con i mercati internazionali.

I ponti del Mezzogiorno debbono essere in grado di attirare contemporaneamente investimenti produttivi che siano capaci di collocare sui mercati prodotti capaci di essere attrattivi  su scala internazionale, offrendo a questa struttura industriale una rete di servizi di connessione che sappiano generare un vantaggio logistico per rafforzare la competitività del tessuto produttivo.

Poi servono investimenti nella rete dei servizi che facciano forte il sistema territoriale. Il Ponte sullo Stretto, senza una rinascita degli elementi fondamentali che determinano le capacità distintive del territorio rischia di servire a poco. Le connessioni in quanto tali possono essere passanti o transitive.

Se sono passanti il vantaggio della infrastruttura si trasferisce verso altri territori. Se invece sono transitive, vale a dire trasferiscono ai soggetti presenti il valore aggiunto che l’infrastruttura genera, allora si determina quell’effetto moltiplicativo che serve alle regioni meridionali.

Pietro Spirito
spirito@per.it

Pietro Spirito è il primo Presidente dell’Autorità di Sistema Portuale del Mar Tirreno centrale. Docente di economia dei trasporti nell'Università di Tor Vergata di Roma. Nel corso della sua vita professionale ha ricoperto diversi incarichi manageriali in Ferrovie dello Stato, Trenitalia, Interporto di Bologna, Atac, Fondazione Telethon.

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