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Il dopo Referendum tra riforme necessarie e innovazioni possibili

di Ida Angela Nicotra

 

Sono due gli elementi inediti che fanno da sfondo ai nuovi propositi di riforme istituzionali. Il primo di carattere giuridico – istituzionale nasce da un percorso che ha attraversato varie stagioni politiche e che finalmente giunge a conclusione, con un esito chiaro e inequivocabile. Il referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari è stato approvato con quasi il 70% dei consensi dei cittadini che si sono recati alle urne.  La legge costituzionale n.1 del 2020 che modifica gli articoli 56,57 e 59, promulgata dal Presidente della Repubblica il 19 ottobre scorso e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 261 del 2020, si applica a partire dalle prossime elezioni politiche. 

La seconda evenienza è di contesto. La grave emergenza sanitaria da Covid – 19, con cui l’Italia si confronta oramai da quasi un anno, sollecita cambiamenti anche sul fronte del modello di democrazia parlamentare.

 

I regolamenti parlamentari

La riscrittura dei regolamenti parlamentari si rende necessaria per garantire una migliore funzionalità delle Assemblee elettive in composizione ridotta.

Modifiche regolamentari interessano – insieme alla disciplina sulle modalità del voto a distanza da attivare in casi gravi e eccezionali – l’introduzione di un numero minimo di componenti richiesto per l’attivazione delle varie procedure parlamentari.

Inoltre, occorre un intervento regolamentare votato a maggioranza assoluta, ai sensi dell’art.64, 1 ° co. della Costituzione, al fine di ridurre il numero delle commissioni permanenti del Senato, attraverso appositi accorpamenti tra le commissioni attualmente presenti. In alternativa si potrebbe prevedere l’obbligo di tutti i senatori di essere componenti di più commissioni.

 

L’età per l’elettorato attivo e passivo

Ritocchi puntuali al Testo costituzionale si presentano opportuni per consolidare l’effetto del voto referendario. La prima revisione dovrebbe riguardare l’abbassamento dell’età per l’elettorato attivo e passivo in modo da allineare i due elettorati di Camera e Senato, consentendo ai diciottenni e ai venticinquenni di votare ed essere eletti anche per il Senato della Repubblica.

In discussione alla Camera vi è la riscrittura dell’art. 58 della Costituzione (già approvata con deliberazione del 31 luglio 2019 alla Camera e del 9 settembre 2020 al Senato) che prevede l’elezione dei senatori a suffragio universale e diretto dagli elettori che hanno superato il diciottesimo anno di età.

Tale equiparazione del solo (e inspiegabilmente, non anche, dell’elettorato passivo) elettorato attivo di Senato e Camera rappresenta un elemento volto ad ampliare la platea della partecipazione democratica.

L’equiparazione dell’elettorato attivo per l’elezione di Camera e Senato dovrebbe sortire l’ulteriore effetto di ridurre il rischio di maggioranze diverse nei due rami del Parlamento.

In proposito, la Corte Costituzionale ha affermato che in un assetto basato sulla parità di funzioni e posizione delle due Camere elettive, la Costituzione “esige che, al fine di non compromettere il corretto funzionamento della forma di governo parlamentare, i sistemi elettorali adottati, se pur differenti, non ostacolino, all’esito delle elezioni, la formazione di maggioranze parlamentari omogenee” (n.35 del 2017).

 

La base elettorale del Senato

Altra previsione costituzionale in procinto di essere rivisitata è quella che prevede la “base regionale” del Senato. Il superamento della “base regionale” di cui all’art. 57, per consentire la maggiore rappresentanza nelle Regioni più piccole e per avvicinare le possibili maggioranze di Senato e Camera, è in discussione presso la Commissione affari costituzionali della Camera (proposta di legge costituzionale Fornaro e altri A.C. 2338). In particolare, si intende sostituire il primo comma dell’art. 57 Cost. secondo cui: “Il Senato della Repubblica è eletto a base regionale, salvi i seggi assegnati alla circoscrizione Estero” con la formula “Il Senato della Repubblica è eletto su base circoscrizionale.

La modifica della base elettorale del Senato risulta funzionale al rafforzamento della rappresentatività di tale ramo del Parlamento, proprio in vista dell’entrata in vigore del testo di legge costituzionale sulla riduzione del numero dei parlamentari. L’eliminazione del vincolo di definire le circoscrizioni sulla base del territorio regionale consentirà al legislatore di determinare le stesse con maggiore elasticità, disegnando circoscrizioni pluriregionali adeguate alle esigenze di rappresentatività dei singoli enti territoriali. Siffatta proposta di legge costituzionale non tocca i commi 3 e 4 dell’art.57 che fanno riferimento ad un numero minimo di senatori per Regioni e alla “ripartizione dei seggi tra le Regioni e le Province autonome” che rimangono, dunque, immutati.

Per quanto riguarda i delegati regionali che vanno a integrare il Parlamento in seduta comune, chiamato ad eleggere il Presidente della Repubblica, il discorso è differente. In particolare, la disposizione costituzionale in vigore stabilisce (art. 83, 2° co.) che “all’elezione del Capo dello Stato partecipano tre delegati per ogni Regione eletti dal Consiglio Regionale in modo che sia assicurata la rappresentanza delle minoranze La Valle d’Aosta ha un solo delegato”. Sarebbe, infatti, opportuno, in questo caso, non operare alcuna modifica della disposizione costituzionale.

Piuttosto, proprio l’invarianza del numero di 58 delegati regionali fissato in Costituzione, dopo la riduzione dei parlamentari, costituirebbe un tassello importante per rafforzare il regionalismo italiano.

Se, infatti, si vuol dare più voce alle Regioni e inverare il significato autentico della previsione contenuta nell’art.114 della Costituzione, secondo cui “la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”, la partecipazione alla scelta del Capo dello Stato dovrebbe avvenire con un ampio coinvolgimento di tutti gli enti della Repubblica, cui dovrebbe essere riservato uno spazio non residuale. Il Presidente della Repubblica, infatti, “rappresenta l’unità nazionale” anche declinata in senso territoriale. Potrebbe essere l’occasione per dare un segno ulteriore alla svolta in senso regionalista impressa dalla revisione del Titolo V della Costituzione nel 2001, che ha appunto rivisitato la formulazione originaria dell’art. 114. 

Nella direzione opposta va il citato disegno di legge costituzionale Fornaro che si propone di ridurre da tre a due il numero dei delegati regionali, confermando il delegato unico della Valle d’Aosta. Con l’approvazione del ddl cost. Fornaro il numero dei delegati regionali scenderebbe da 58 a 39 per una percentuale del 6,10% del totale del Parlamento riunito per eleggere il Capo dello Stato. Le Regioni saranno comunque tenute ad assicurare la rappresentanza delle minoranze e dunque non potrebbero più eleggere due rappresentanti per la maggioranza e uno per le minoranze. Con ovvie ripercussioni di una sotto-rappresentazione della maggioranza.

Tuttavia, se tale riforma venisse approvata ma non raggiungesse le maggioranze parlamentari richieste per evitare la consultazione popolare, i cittadini potrebbero essere chiamati, ai sensi dell’art. 138, ad esprimersi con il referendum costituzionale. 

 

La riforma del bicameralismo

Riforma costituzionale di sistema è invece quella che riguarda il bicameralismo. Il sistema bicamerale italiano paritario e ripetitivo, infatti, costituisce una vera e propria “anomalia” nel panorama dei sistemi parlamentari.

Già il progetto formulato dalla commissione per la Costituzione dell’Assemblea Costituente aveva disegnato, nella sua idea iniziale, un modello bicamerale differenziato con l’elezione del Senato “per un terzo dai membri del Consiglio regionale e per due terzi a suffragio universale e diretto”. Tuttavia, il mutato clima internazionale, con le prime avvisaglie della guerra fredda, orientò le scelte costituzionali verso un bicameralismo che garantiva pari legittimazione alle Camere (a parte l’età per l’elettorato attivo e passivo e i senatori a vita). Furono le stesse e irripetibili ragioni storiche che condussero ad abbandonare l’ordine del giorno Perassi. Il famoso ordine del giorno proponeva l’adozione di un sistema parlamentare da disciplinarsi con dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo.

Negli ultimi decenni – dinanzi a un quadro politico – istituzionale radicalmente mutato – la politica ha provato invano, attraverso vari tentativi di riforma, a modificare il quadro costituzionale, partendo proprio dal superamento di un bicameralismo identico e farraginoso che non ha eguali negli Stati europei.

Adesso la spinta del referendum sul numero dei parlamentari potrebbe accelerare il processo riformatore. Si dovrebbe, in primo luogo, procedere facendo della Camera dei deputati la sede unica della rappresentanza politica generale e attribuendo al Senato il compito di rappresentare le istituzioni territoriali, con un collegamento tra il legislatore nazionale e i legislatori regionali.

 

Il Parlamento in seduta comune

La proposta di riforma costituzionale sulla “valorizzazione del Parlamento in seduta comune, l’introduzione della sfiducia costruttiva e la differenziazione delle Camere” presentata il 2 ottobre al Senato (AS 1960) costituisce un primo tentativo per riflettere sulla necessità di ripensare l’assetto della Repubblica.

Innanzitutto, il testo riprende una suggestione maturata durante i lavori in Assemblea Costituente su ruolo e funzioni del Parlamento in seduta comune. Nel progetto iniziale si parlava, infatti, di un organo collegiale denominato Assemblea Nazionale, che ricorda da vicinissimo il nome dell’Assemblée Nationale, la Camera più importante del Parlamento francese. A tale organo venivano assegnate funzioni assai rilevanti, non limitate alle sole materie elettive ed accusatorie; elezione del Presidente della Repubblica e di un quinto dei giudici costituzionali ecc.

In particolare, il testo originario attribuiva al Parlamento in seduta comune una serie di ulteriori rilevanti attribuzioni: la deliberazione dello stato di guerra, la concessione dell’amnistia e dell’indulto, il conferimento e la revoca della fiducia al governo.

La proposta odierna, riallacciandosi all’idea dei Costituenti, mira a valorizzare il ruolo del “nuovo” Parlamento in seduta comune, composto da 400 deputati e 200 senatori, quale sede unitaria di determinazione dell’indirizzo politico nazionale.

Secondo quanto stabilisce l’art.63, co.2° Cost. il Parlamento in seduta Comune è presieduto dal Presidente della Camera e da Ufficio di presidenza funge quello della Camera dei Deputati. Il regolamento applicabile è quello della Camera. Ciò non esclude, quindi, che l’organo possa dotarsi di norme proprie, come si evince chiaramente dai regolamenti di Camera e Senato, in cui si legge “il regolamento della Camera è applicato normalmente nelle riunioni del Parlamento in seduta comune dei suoi membri”. Per le sedute in comune delle due Camere si applica il Regolamento della Camera dei deputati, salva sempre la facoltà delle Camere di stabilire norme diverse. Si ritiene, anzi, che il Parlamento in seduta comune sia organo a sé stante, cui viene attribuita una autonoma potestà regolamentare.

L’impressione è che l’attuale progetto non vada nella direzione di un modello monocamerale, quanto piuttosto si ponga nell’ottica di ridisegnare un bicameralismo di tipo diseguale, in cui le Camere, in composizione unitaria, costituiscono la massima espressione della rappresentanza cui attribuire le funzioni più strettamente attinenti all’indirizzo politico nazionale. Non si tratta, cioè di creare una terza Camera, che andrebbe ad aggiungersi a quelle già esistenti, ma di rivalutare una modalità già esistente di funzionamento delle Camere per lo svolgimento di funzioni altamente espressive della linea politico – programmatica.

 

Il ruolo e le funzioni del Governo

La situazione attuale, con la pandemia ancora in atto, suggerisce qualche riflessione su ruolo e funzioni del Governo. La gestione dell’emergenza Covid ha evidenziato una forte accentuazione dei poteri normativi del Presidente del Consiglio, con una conseguente marginalizzazione del Parlamento. Con gli oramai noti Dpcm, giunti nel tempo del Covid alla ribalta della cronaca politica, vengono imposte pesanti restrizioni alle libertà personali e alle libertà economiche.

L’atipico assetto di rapporti che si è creato tra legislativo ed esecutivo, durante l’emergenza sanitaria, costituisce occasione e stimolo per riflettere sui miglioramenti da apportare alla forma di governo parlamentare.

La novità di maggior rilievo del progetto di riforma, presentato al Senato, concerne il tentativo di razionalizzazione della forma di Governo che si snoda attraverso alcuni interventi mirati a tal fine: l’introduzione della mozione di sfiducia costruttiva, l’attribuzione al Parlamento in seduta comune del conferimento della fiducia al Governo e della revoca, il potere del Presidente del Consiglio dei ministri di proporre al Capo dello Stato la revoca di un ministro.

Si interviene in maniera considerevole sull’art. 94 della Costituzione con una disciplina che impone al Presidente del Consiglio dei Ministri di rassegnare le proprie dimissioni al Capo dello Stato solo dopo essersi presentato davanti alle Camere riunite ad aver spiegato, in quella occasione, le ragioni della crisi. Si vogliono così evitare crisi extra-parlamentari, che si svolgono fuori dal Parlamento e marginalizzano il ruolo delle Camere. L’intenzione dei proponenti è rimettere al centro del sistema le Assemblee elettive, di modo che possano essere il luogo naturale per la presentazione della piattaforma programmatica e l’indicazione del nuovo Presidente del Consiglio.

 

Sfiducia costruttiva e questione di fiducia

Si intende delineare un sistema capace di conferire una maggiore stabilità all’esecutivo attraverso l’inserimento in Costituzione, sull’esempio tedesco (art.67 Grundgesetz), della mozione di sfiducia costruttiva. Tale strumento mira a evitare le c.d. “crisi al buio”, ossia quelle iniziative tese a far cadere il Governo in carica senza che vi sia una pronta un’alternativa sostenuta dalla necessaria maggioranza parlamentare. Attraverso il meccanismo della sfiducia costruttiva si escludono lunghe fasi di instabilità, atteso che i partiti sono costretti a trovare un accordo prima ancora che venga revocata la fiducia al Governo.

Altro aspetto preso in considerazione è quello della questione di fiducia. Si intende, cioè, procedere alla costituzionalizzazione della stessa.  Emersa inizialmente in via di prassi, si trova disciplinata dai regolamenti parlamenti (art.116 Reg. Cam., art.161, co. 4° Reg. Sen.). L’istituto in esame è stato finora utilizzato dai Governi non certo per dimettersi, quanto piuttosto per restare in carica. Attraverso la questione di fiducia, il Governo rivendica la propria responsabilità nell’attuazione dell’indirizzo politico e impone una verifica alla propria maggioranza in Parlamento, inducendola a mostrarsi compatta attorno alle scelte programmatiche inizialmente concordate. Il testo proposto nel progetto di revisione costituzionale prevede che la questione di fiducia viene messa in discussione prima di tre giorni della sua presentazione. Il Parlamento in seduta comune vota la questione di fiducia per appello nominale. Se la questione di fiducia non è approvata il Presidente del Consiglio dei ministri deve rassegnare le dimissioni nelle mani del Capo dello Stato.

 

Il potere di revoca

L’espressa previsione costituzionale del potere di proporre la revoca di un ministro al Presidente della Repubblica sembra assecondare l’idea del potere di revoca quale logica implicazione del potere di nomina. Al contempo, la proposta di revoca intende rafforzare la figura del Presidente del Consiglio all’interno della compagine governativa. Il capo dell’esecutivo assumerebbe, così, un ruolo ancor più preponderante all’interno della compagine governativa.

In realtà, la correzione suggerita si pone nella prospettiva di riallineare la Costituzione scritta a quella materiale che ha sancito negli ultimi decenni la posizione di indubbio rilievo del Premier rispetto a quella dei ministri.

D’altra parte, il proposito di modificare l’art.92 va nel senso di fornire una disciplina formale a quanto già si è verificato nella prassi repubblicana. Il Premier, infatti, ha sempre ottenuto le dimissioni dei ministri sgraditi o improvvisamente contrari alla linea politica del Governo.

 

La differenziazione tra Camera e Senato

Con riferimento al bicameralismo, l’intenzione dei proponenti è di introdurre elementi di differenziazione tra Camera e Senato. Il Senato viene integrato da 21 componenti, rappresentanti delle Regioni e delle Province autonome ed eletti a maggioranza assoluta dei rispettivi Consigli tra i propri consiglieri. Il mandato dei senatori eletti dalle Regioni deve coincidere con quello del relativo Consiglio. Il Senato quindi diverrebbe un organo a rinnovo “parziale e continuo”.

Tali senatori “regionali”, che andrebbero ad aggiungersi ai 200 senatori “nazionali”, saranno competenti a svolgere tutte le funzioni attribuite al Senato dalla Costituzione. A questo punto dovrà essere chiarita la questione della riferibilità anche a siffatti senatori della previsione costituzionale contenuta nell’art.67, secondo cui “ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione” (intera) e non solo una parte del territorio della Repubblica coincidente con una Regione o con una Provincia autonoma.

 

Le novità del procedimento legislativo

Altre novità riguardano il procedimento legislativo al fine del superamento del procedimento bicamerale paritario. Un primo procedimento prevede che dopo l’esame della Camera, il Senato può avanzare proposte di modifica sulle quali i deputati si pronuncino in via definitiva. Una variante procedimentale che rafforza la funzione legislativa del Senato è prevista per le materie di legislazione c.d. concorrente (art.117, co 3°) e per quelle di cui all’art.119.

Il sistema bicamerale paritario vigente rimane confermato per le leggi di revisione costituzionale e le leggi elettorali. Mentre, per le leggi di autorizzazione a ratificare i trattati internazionali, le leggi di conversione dei decreti – legge, l’approvazione di bilanci e consuntivi la competenza è riservata al Parlamento in seduta comune, proprio al fine dare risalto alla elevata rilevanza politica di tali tipologie di leggi.

 

La riforma della legge elettorale

In discussione vi è anche la riforma della legge elettorale che non costituisce, tuttavia, una conseguenza diretta della riduzione del numero dei parlamentari. La legge n.51 del 2019 ha, infatti, assicurato l’applicabilità del sistema elettorale vigente alla elezione del futuro Parlamento a composizione ridotta. Peraltro, la revisione della legge elettorale rappresenta un’opportunità da cogliere. In primo luogo, in considerazione del fatto che la minore consistenza numerica delle Camere produrrà un effetto maggiormente selettivo, in quanto serviranno più voti per essere eletti. Ciò potrebbe favorire, presumibilmente, le forze politiche maggiori.

Inoltre, l’intervento sul metodo di voto dovrà consentire al cittadino la possibilità di scelta dei propri rappresentanti. Rimango convinta che la scelta migliore in proposito è quella del collegio uninominale, in grado di garantire sia la selezione diretta da parte dei cittadini, sia l’interesse del partito a scegliere il candidato che meglio rappresenta la propria linea politica. Certamente tale sistema dovrà essere accompagnato da regole rigorose per evitare le non sempre commendevoli abitudini invalse nelle segreterie di partito. La prassi del passato, che ha consentito di “catapultare” nei collegi c.d. sicuri candidati estranei al territorio, ha contribuito, non poco, a scavare uno fossato tra rappresentanti e cittadini, tra centro e entità periferiche: una delle ragioni del senso di generalizzata sfiducia verso l’istituzione parlamentare. 

Quel senso di sfiducia che in qualche misura si è riversato nelle urne della consultazione referendaria sulla riduzione del numero dei parlamentari.

Rivitalizzare gli istituti della rappresentanza politica pare costituire il punto della ripartenza per progettare l’Italia del domani.

Ida Angela Nicotra
nicotra@per.it

Professore ordinario di Diritto Costituzionale nel Dipartimento di Giurisprudenza dell'Università di Catania. Componente del comitato editoriale di diverse riviste giuridiche specializzate. Dal 2014 al 2020 è componente del Consiglio dell’Autorità Nazionale Anticorruzione. Nel 2013 è stata tra i membri della commissione per le Riforme Costituzionali nominata dal Presidente del Consiglio Enrico Letta.

1 Comment
  • Saro Sapienza
    Pubblicato il 11:15h, 22 Novembre Rispondi

    Bel pezzo, complimenti

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