
12 Dic Il merito del talento, il merito della prestazione
di Giovanni Cominelli
Appena arrivato ai Ministeri, il nuovo governo si è lanciato in operazioni ideologiche. Per quanto riguarda il Ministero dell’Istruzione, che già aveva cambiato denominazione più volte dall’Unità d’Italia – MIP del Regno d’Italia, MEN del Fascismo, MPI, MIUR, MI della Repubblica – questa volta diventa MIM, Ministero dell’Istruzione e del Merito.
L’egemonia incomincia sempre dalle parole, a condizione che si riesca a trasformarle in pietre, cioè in fatti; diversamente svaniscono come puri flatus vocis.
Mentre “il merito” sta sospeso tra l’annuncio e la sua realizzazione – è prevedibile che sarà faccenda lunga – si é però già scatenata la reazione.
È bastato dichiarare l’intenzione di appiccicare quella “M” sul frontone del palazzone di Viale Trastevere 76/A, perché, per riflesso pavloviano, insegnanti, pedagogisti, opinionisti ponessero mano alla pistola ideologica, dalla quale sono usciti proiettili quali “esclusione”, “selezione di classe”, “iniquità”, “diseguaglianza”, “macelleria sociale”, “Don Milani”… “Merito” è risuonata come una bestemmia nel silenzio della chiesa della sinistra. Si tratta di proiettili a salve, che offrono solo un fuoco fatuo di copertura alla scuola italiana di oggi, che è realmente una “scuola di classe”, una scuola iniqua.
Per sfuggire alla contro-ideologia, converrà dunque partire da una modesta terapia del linguaggio del “merito”…
Ci sono due tipi di merito: “il merito del talento” e “il merito della prestazione”.
Quanto al primo, non è, rigorosamente parlando, un merito. Tutti hanno dei talenti, fosse pure solo la capacità di fischiare, come prese atto una volta Don Bosco, parlando con un ragazzo della Torino povera. Poi ci sono quelli che, nel lessico dell’OCSE-Education, sono i “gifted”, cioè i “plus-dotati” o “iperdotati” o “ad APC” – ad Alto Potenziale Cognitivo”. In ogni caso, non c’è propriamente merito nell’avere talenti. E’ questione di lotteria della vita.
Invece, il merito, propriamente inteso, è lo sforzo/prestazione di far fruttare i talenti ricevuti, la cui realizzazione può essere ostacolata dalla povertà socio-economica e da quella educativa.
A questo tipo di “merito” si riferisce l’art. 34 della Costituzione italiana, commi 3 e 4: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”; “La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso”.
Appare ben strano che oggi a forze di sinistra, per lo più radicale, sempre pronta a gridare al tradimento della Costituzione, il lemma “merito” appaia così politically incorrect.
“Il merito” è una conquista delle lotte storiche dei Movimenti operai, fin dalla seconda metà dell’800, così come lo era stata a suo tempo della Borghesia rispetto al sistema feudale dei Ceti. Una volta al potere, la Borghesia aveva tenuto il merito solo per sé. I Movimenti operai socialisti, comunisti, cattolici lo rivendicarono per tutti. Muovendo i primi passi con le Mutue, con le Leghe, con i Fasci, con le Cooperative, con i Sindacati riuscirono a strappare allo Stato liberale i primi provvedimenti relativi all’Istruzione, alla Sanità, all’Assistenza.
Diventati partiti politici, rappresentati in Parlamento e entrati nei governi, riuscirono a costruire un sistema di Welfare, che, nel settore dell’Istruzione, dava a tutti, almeno nella proclamazione di diritto, la possibilità di farsi strada fino ai livelli più alti. L’art. 34 ne costituisce, appunto, la piattaforma di diritto più nota e più definitiva.
Facile a scriversi in Costituzione, molto più difficile a realizzarsi nella società e nella scuola. Il sistema scolastico italiano continua a mal/funzionare in modo pre-costituzionale. Non riconosce il merito, lo ignora, lo umilia e lo scoraggia. Non riconosce i livelli diversi, ignora che ciascuno è diverso. Come spiegava don Milani, ipercitato a seconda dei propri comodi, la scuola è di tutti, se è scuola per ciascuno, perché “nulla è più ingiusto che far parti uguali tra disuguali”.
È cresciuto il tasso di scolarizzazione, ma sempre troppo basso rispetto al resto d’Europa. La percentuale dei NEET (Not in Education, Employment or Training) é arrivata negli anni al 25,1%, raggiungendo quota 3.047.000. Abbiamo più NEET rispetto a tutti gli altri Stati dell’Unione europea. Il tasso di analfabetismo funzionale sta crescendo, non solo quello di ritorno, ma anche quello in uscita dalla scuola dei quindicenni.
Che succede nella società? Se sei una donna, piena di talenti e impegnata ad investirli, almeno quanto un maschio talentuoso, non avrai comunque le stesse possibilità né di stipendio né di carriera del suddetto.
A scuola no, la donna ha la stessa possibilità di un maschio: zero. Nella scuola, in effetti, funziona un’altra legge, che parifica maschi e femmine: se sei un insegnante capace e meritevole, non perciò avrai uno stipendio più alto di un insegnante incapace o lavativo. Nell’universo scolastico, dove regna la diseguaglianza reale dei meriti e delle prestazioni, questa viene nascosta sotto il tappeto ipocrita dell’uniformità giuridico-sindacale. Nella vulgata ministeriale-sindacale, tutti gli insegnanti sono bravi allo stesso modo e tutti fanno il mestiere allo stesso modo. Quando Luigi Berlinguer avanzò nel 1999 l’idea di fare uno screening valutativo degli insegnanti, ne fu travolto e licenziato.
Così, in nome della retorica dell’inclusione e dell’eguaglianza, il sistema di istruzione genera dall’interno e sottoproduce esclusione reale, cioè impreparazione, analfabetismo e frustrazione professionale. Ciò accade in misura particolare e massiccia nella scuola meridionale. Nel caso dei ragazzi, tale esclusione rimbalza sulle famiglie. Così quelle abbienti mandano i figli nelle Università del Nord, più hanno soldi e più a Nord li mandano. I ragazzi di quelle povere gironzolano nella piazza del paese con la pensione dei nonni e con il reddito di cittadinanza.
Come rimediare alla scuola della diseguaglianza?
Ciò che si deve constatare è che il sistema di istruzione, mentre riesce a pareggiare le diseguaglianze di capitale sociale al livello della scuola di base, più sale lungo i gradini dell’ordinamento e più si limita a riprodurle. Come è stato sottolineato in tempi diversi e da punti di vista politico-culturali diversi tanto da Luigi Berlinguer quanto oggi da Giuseppe Valditara, la scuola italiana resta una “scuola di classe”. Il sogno di una scuola che aggiustasse dall’interno le diseguaglianze sociali portate sulla sua soglia, cullato dall’Illuminismo e inseguito da tutto il pensiero progressista, non sembra realizzato, almeno in Italia, dopo la spinta propulsiva degli anni ’60.
Una serie di azioni si possono fare qui e ora, altre richiedono cambiamenti radicali, cioè delle riforme.
La prima azione: riconoscere e certificare il merito che c’è.
Si può fare subito, senza rinviare alle pur necessarie riforme, di cui il sistema ha necessità e che solo una minoranza dei suoi addetti vuole per davvero.
Pare che certificare rigorosamente e veritativamente accada sempre meno. Per una serie di cause: il cedimento alle pressioni faciliste delle famiglie, in forza delle quali i genitori chiedono per il figlio la certificazione BES, così che possa ottenere buoni voti studiando il meno possibile, sennò si stressa; i Dirigenti invitano spesso i Consigli di classe, riuniti in scrutinio, a tenere atteggiamenti lassisti, quando danno i voti, sennò l’Istituto perde iscritti e magari l’autonomia e magari la postazione per il Dirigente stesso; gli esami-burla di maturità, in specie al Sud… Tutto ciò sta spingendo il sistema a non certificare rigorosamente i livelli effettivi di acquisizione dei saperi.
Invece, la scuola deve dire la verità ai ragazzi e alle loro onniprotettive e invasive famiglie. Solo la verità è inclusiva, perché essa serve a stimolare soprattutto i più poveri socialmente e culturalmente. Sapere e carattere sono i tiranti dell’ascensore sociale. Se gli insegnanti non sono esigenti e rigorosi, quando interrogano o quando sono riuniti in scrutini ed esami, se non applicano severamente il principio meritocratico, finiscono per danneggiare i meritevoli, ma privi di mezzi. In nome di un’eguaglianza al ribasso e di un egualitarismo pauperistico, si finisce per escludere proprio i capaci e i meritevoli, ma privi di mezzi.
Quanto agli immeritevoli, ma ricchi di famiglia, trovano sempre una strada, grazie al capitale economico o relazionale di papà. Il lassismo e il facilismo, praticati al fine dichiarato dell’inclusione, si rovesciano in esclusione. Certo, la severità è faticosa e impopolare, gli avvocati di famiglie – abbienti! – sono in agguato, i Presidi sono ormai costretti a loro volta a dotarsi di avvocati, gli insegnanti sono più tranquilli con il laisser faire, laisser passer.
Certo, l’operazione certificazione verrebbe molto più facile ed efficace, se fosse sottratta alla protezione del valore legale del titolo di studio.
Ma qui entriamo nel secondo campo delle azioni possibili e necessarie: non solo certificare rigorosamente il merito, ma mettere i ragazzi nella condizione di…meritarselo, facendo fruttare i propri talenti. “Mettere in condizione” vuol dire una più intensa personalizzazione dei percorsi all’interno e una messa a disposizione degli edifici e del personale scolastico per i ragazzi che, usciti da scuola, non hanno assistenza pomeridiana né sociale né didattica. Ma, soprattutto, vuol dire le riforme istituzionali profonde del quadrilatero del sistema scolastico: Curriculum, Ordinamenti, Politiche del personale (differenziazione di carriere e stipendi, reclutamento diretto da parte delle scuole), Autonomie. PER ha già parlato ampiamente sia dei contenuti sia dei tempi e metodi di tali riforme.
Mi limito realisticamente qui a rilevare che né la destra sociale né quella sovranista, oggi al governo, né la sinistra politica e sindacale né quella populista, oggi all’opposizione, dispongono delle risorse culturali e intellettuali e della volontà politica sufficienti a rovesciare il modello di organizzazione del sistema di istruzione e educazione proposto dal Ministro Casati a Vittorio Emanuele II e imposto senza discussione parlamentare all’intero Paese. L’assetto centralistico del sistema di istruzione e quello dello Stato amministrativo sono organicamente legati. Non si può voler cambiare l’uno senza voler cambiare l’altro.
Tuttavia una riforma si potrebbe fare subito, perché relativamente indipendente dalle altre tre e perché giace sui tavoli del Parlamento e del Ministero dai primi anni 2000: un nuovo stato giuridico degli insegnanti, che riconosca almeno tre livelli differenziati di carriera e di stipendio: iniziale, ordinario, esperto, prevedendo il passaggio dall’uno all’altro per domanda e per valutazione esterna.
Pare infatti difficile che gli insegnanti siano in grado e si sforzino di riconoscere e implementare il merito degli alunni, se a loro stessi non venga riconosciuta, valorizzata e premiata la professionalità che esercitano, cioè il loro merito.
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