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Il metodo weberiano come antidoto alle scorciatoie

di Alberto De Bernardi

 

Il rifiuto del materialismo storico

Una delle più note definizioni di Weber, anche se molto stereotipata e contestata, è quella di essere stato il “Marx della borghesia”, nel duplice significato di critico della concezione materialistica della storia e della visione politica rivoluzionaria del filosofo di Treviri, ma anche di scienziato sociale che, come quest’ultimo, ha posto al centro della sua riflessione il capitalismo come agente della più radicale trasformazione della società contemporanea e come forza propulsiva della modernità.
Come vedremo meglio in seguito, l’opera più importante di Weber , L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1904), costituì il tentativo critico più coerente per smentire non solo la derivazione meccanica di ogni sovrastruttura culturale dalle strutture economiche, senza negare il primato del capitalismo nel plasmare l’organizzazione della società, ma anche l’esistenza di un esito finale dell’evoluzione storica – un fine ultimo – segnato dal superamento del sistema economico capitalistico e dal pieno dispiegarsi delle “potenzialità emancipatrici” della lotta di classe, come avrebbero notato in seguito i filosofi della Scuola di Francoforte.

Fortemente critico di ogni implicazione metafisica della ricerca storico-sociologica e di ogni sforzo per individuare “leggi” generali e quindi finalità teleologiche all’agire sociale che lo aveva impegnato fin dalla fine dell’Ottocento in una lunga discussione scientifica e culturale con la scuola storica tedesca e con i “socialisti” della cattedra”, per rivendicare il carattere “avalutativo” del lavoro dello scienziato sociale e la netta separazione tra la conoscenza della realtà e ogni aspirazione politica alla trasformazione – o alla conservazione – del mondo, Weber non può esimersi dal contestare sulla stessa base metodologica il materialismo storico.

La concezione marxiana della storia costruita intorno al primato della lotta di classe e dunque dell’economia, secondo Weber, trasforma in una dogmatica universalistica e teleologica con cui spiegare tutta la storia, la scelta soggettiva di Marx di privilegiare il “punto di vista” economico nell’ affrontare l’analisi della realtà: questa operazione concettuale nasce dall’intento tutto ideologico di farne la chiave scientifica di una “teoria della rivoluzione”, cioè di un insieme di giudizi di valore aprioristici, destinato a trasformarla in una filosofia della storia.

Ciò che separa dunque Marx da Weber è la concezione stessa delle scienze sociali: accumunati infatti dal tentativo di dare una base “scientifica” mallo studio del capitalismo, Weber respinge l’approccio di Marx che piega la ricerca scientifica ad un obiettivo estrinseco ad esso, cioè al disvelamento dei suoi aspetti alienanti e alle sue contraddizioni insuperabili per farne la base teorica di un progetto politico, ipostatizzando ciò che invece è solo un modello interpretativo.
Poiché per Weber è impossibile risolvere in via scientifica un conflitto tra i valori, la concezione materialistica della storia è desinata a cadere nel tranello logico di confondere l’esito della ricerca con i presupposti ideali/ideologici da cui prende le mosse, fino a predire l’inevitabilità del crollo del capitalismo sulla base di un modello di spiegazione che trasforma in “legge” il conflitto tra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione.

“La concezione materialistica della storia – scriveva Weber ne Il metodo delle scienze sociali – come intuizione del mondo o come denominatore comune di spiegazione della realtà storica deve essere rifiutata nel modo più deciso; invece l’accurato impiego dell’interpretazione economica della storia è uno degli scopi essenziali”.

L’analisi del capitalismo che Marx ha condotto in tutta la sua vita di studioso perde dunque la sua dimensione scientifica nella misura in cui è posta al servizio di un progetto valoriale nel quale la conoscenza è funzionale alla formulazione di un giudizio politico: Marx studia il capitalismo per abbatterlo, andando alla ricerca all’interno nei suoi meccanismi costitutivi delle ragioni “scientifiche” della sua sconfitta storica, che nelle mani dei sui seguaci, della stessa generazione di Weber, si sarebbero trasformate in una “ teoria del crollo”, cioè in un esito inevitabile, cioè in una sosta di teleologia della evoluzione storica. Su questa base la rivoluzione non era più una semplice volizione, quanto piuttosto l’atto che sanciva il definitivo esaurirsi del capitalismo come modo di produzione e come forma di organizzazione sociale, come la rivoluzione borghese si era affermata sul collasso della società feudale.

 

Il progresso come disincantamento

Sul piano dell’interpretazione del capitalismo invece Weber e Marx trovano diversi punti di contatto, come riconobbero già negli anni immediatamente successivi alla morte del sociologo di Erfurt pensatori di diversa provenienza culturale, come Jaspers, Lucàcs o Lowith, superando la contrapposizione ideologica tra gli intellettuali marxisti che imputavano – e avrebbero continuato ad imputare – al primo di essere un mero esaltatore della società industriale, cioè un ideologo borghese che negava il “dover essere” della sua trasformazione, e gli antimarxisti di tutte le fogge che si servivano in chiave conservatrice del lavoro intellettuale del sociologo di Erfurt per difendere l’esistente e negate la legittimità politica del socialismo.

Fu proprio Lowith nella sua opera del 1932 (Weber e Marx), dedicata a confrontare l’impianto teorico e metodologico di questi due giganti della sociologia e della filosofia europea, a mettere in luce l’asse concettuale che avrebbe potuto consentire la comparazione dei loro modelli ermeneutici, basato sulla centralità che in entrambi assume la razionalizzazione capitalista come fulcro della modernità e come fondamento di senso del mondo contemporaneo.

Per molti aspetti la sociologia stessa nasce dal bisogno esplicito di indagare e comprendere questa profonda discontinuità prodotta nell’evoluzione storica creata dalla fabbrica industriale e dal mercato di merci, che sta nascendo sulle macerie dell’ordine tradizionale d’Antico Regime, imperniato sull’agricoltura, su una struttura sociale sostanzialmente priva di mobilità, su rapporti di potere assolutamente immobili e su una cultura omogenea interamente dominata dalle classi dirigenti: una società nuova basata, al contrario, su una forma nuova di capitalismo imperniato sulla valorizzazione del capitale nel processo produttivo, sulla proprietà privata dei mezzi di produzione, sullo scambio del lavoro come merce, sulla divisione del lavoro, su una crescente autonomia della società civile dal potere politico e sull’affermazione, per lo meno teorica, delle stato di diritto.

Questo “nuovo mondo” necessitava di essere analizzato con strumenti teorici nuovi che Marx e Weber, insieme con Comte, Durkheim e altri, cominciano ad approntare, seppur con finalità diverse, a partire dal riconoscimento delle basi razionali su cui poggiava il modo di produzione capitalistico, esito e parte integrante del processo di razionalizzazione del mondo avviato dalla rivoluzione scientifica seicentesca, e che stava progressivamente imponendo alla società nel suo insieme di riorganizzarsi sulle stesse basi.
Queste dinamiche, che da economiche diventano sociali e culturali, costituiscono il campo nel quale si vengono formando le nuove scienze storico-sociali, come insieme di attrezzature concettuali in grado di penetrare questa nuova struttura sociale in formazione per individuarne i caratteri, i nessi causali costitutivi, i processi culturali, alimentati dalla percezione sempre più ampia di essere entrati nell’epoca del continuo cambiamento, del “disincantamento” e della “morte di Dio”, dove la ragione ha fatto piazza pulita della tradizione e delle vecchie credenze religiose e mitiche che avevano plasmato la mentalità collettiva per secoli.

“La crescente intellettualizzazione e razionalizzazione – ha scritto Weber ne La scienza come professione – non significa dunque una crescente conoscenza generale delle condizioni di vita alle quali si sottostà. Essa significa qualcosa di diverso: la coscienza o la fede che, se soltanto si volesse, si potrebbe in ogni momento venirne a conoscenza, cioè che non sono in gioco, in linea di principio, delle forze misteriose e imprevedibili, ma che si può invece – in linea di principio – dominare tutte le cose mediante un calcolo razionale. Ma ciò significa il disincantamento del mondo. Non occorre più ricorrere a mezzi magici per dominare gli spiriti o per ingraziarseli, come fa il selvaggio per il quale esistono potenze del genere. A ciò sopperiscono i mezzi tecnici e il calcolo razionale. Soprattutto questo è il significato dell’intellettualizzazione in quanto tale”.

Questo insieme di fenomeni, di aspirazioni, di conoscenze, processi economici che Weber definisce con questo termine già alla metà dell’Ottocento aveva preso il nome di progresso, cioè non più una mera possibilità nell’evoluzione delle cose umane, ma di una “necessita” implicita nel meccanismo di sviluppo economico, che avrebbe condotto a un incessante e incontrovertibile miglioramento delle condizioni di vita della popolazione del pianeta: una necessità che in Comte diventa” legge” universale dell’evoluzione sociale, ma che resta un punto di riferimento o un valore universale anche in Marx e in Weber che erano stati fermi critici di ogni concezione dello sviluppo storico dell’umanità che lo sottoponesse a leggi evolutive proprie delle scienze naturali.

 

La razionalità del capitalismo

Il progresso trova il suo fondamento nell’affermazione di un sistema produttivo in cui il primato della razionalità tecnica e scientifica si traduce da un lato nella moltiplicazione delle risorse a disposizione della società, oltre ai confini fino ad allora pensati dalle scienze economiche, e dall’altro in un originale processo di accumulazione nel quale “ il denaro produce denaro” come aveva notato, già alla fine del ‘700 Benjamin Franklin, uno dei padri della democrazia americana.

Il fulcro di quel primato è divisione del lavoro e la sua specializzazione attorno a cui si consuma una divergenza di fondo tra Marx e Weber. Per Marx infatti la divisione del lavoro è il centro generativo dell’alienazione dei lavoratori, sottoposti nel processo produttivo allo spossessamento dei risultati del proprio lavoro, che si riduce a produrre solo frammenti sconnessi di un prodotto finale, riunificato dal macchinismo, e nel mercato del lavoro ad essere merce come qualunque altro oggetto realizzato dal sistema manifatturiero: la specializzazione delle mansioni, se è dunque l’esito della razionalità capitalista e anche della liberazione degli individui dai vincoli dei sistemi corporativi e delle soggezioni di matrice feudale, è anche lo spazio economico in cui si annida la doppia alienazione, tecnologica e di mercato, del proletariato, e dunque la sua subordinazione, piuttosto che la sua autonomia.

Weber, e prima di lui Durkheim, seppur non negano i rischi alienanti della divisione del lavoro, ritengono che ogni alternativa avrebbe un carattere regressivo e irrazionale, mentre la natura razionale di questo autentico centro propulsivo delle capacità produttive del sistema capitalistico lo renderebbe suscettibile di costanti affinamenti e miglioramenti volti a “umanizzarlo” attraverso la “regolazione morale” dei suoi meccanismi di funzionamento e l’integrazione consapevole dei lavoratori in modelli sempre più avanzati di scomposizione delle mansioni. Quanto più per Weber la produzione industriale integra nella sua evoluzione l’innovazione tecnologia e metodi di calcolo sempre più razionali, e quindi spinge a soglie sempre più elevate la “ meccanizzazione burocratica”, dei processi produttivi, che trasforma gli essere umani in “specialisti senza spirito e edonisti senza cuore”, tanto più forte è la consapevolezza che non vi siano alternative percorribile a questa “scissione dell’anima” che è insista nella razionalizzazione del mondo promossa dal capitalismo.

Il nodo concettuale che separa Marx e Weber, dunque, non è soltanto il rifiuto di quest’ultimo di riconoscere quel legame inscindibile tra la divisione del lavoro e la separazione dei lavoratori dai mezzi di produzione, e non è nemmeno che entrambe costituiscano fondamento di un “rovesciamento” della realtà che assegna alla macchina e al capitale la produzione del valore che invece è del lavoro umano, fino alla sviluppare quel feticismo delle merci che fa dilagare l’alienazione in tutta la società: ciò che li separa è soprattutto il giudizio sulla rivoluzione come mezzo per superare quella “scissione dell’anima” e invertire la tendenza alla disumanizzazione che è l’esito estremo della razionalizzazione burocratica della società capitalista.

Se per Marx la rivoluzione, rovesciando il capitalismo, riesce a invertire le spinte verso l’alienazione e a separare la struttura di classe dalla specializzazione burocratica, “riumanizzando” il mondo, per Weber, invece, nel sistema socialista l’integrazione organica tra stato e società in una dimensione inevitabilmente autoritaria avrebbe costituito un gigantesco volano per spingere a livelli estremi proprio quella burocratizzazione della società, che si volava superare; con il rischio ulteriore di separarla dai suoi fondamenti razionali e di attribuirla alle finalità “di valore” dell’ideologia politica al potere. Solo il costante e libero confronto nella società civile e le dinamiche aperte del mercato sarebbero stati per Weber l’unico antidoto capace di introdurre quel “briciolo di umanità ” in grado di resistere e correggere la meccanizzazione amorale della società generata dalla razionalità capitalista. In sintesi sono la democrazia e il libero mercato gli unici strumenti possibili per riconiugare costantemente, in ragione dei mutamenti sociali ed economici, ragione e libertà, salvaguardando la razionalità del modo di produzione capitalistico e proteggendo gli spazi di autonomia degli individui.

 

Lo spirito del capitalismo

In gioventù Weber, come Marx, aveva studiato la struttura della proprietà fondiaria tedesca e le dinamiche della società rurale, confermando come il fiume Elba separasse due Germanie agricole: ad ovest di quel fiume i contadini erano prevalentemente diretto-coltivatori che operavano all’interno di una economia rurale basata sulla piccola proprietà; ad est si entrava nel mondo agricolo degli Junker e l’agricoltura ruotava attorno a grandi latifondi coltivati da coloni e da braccianti. Man mano, però, che l’evoluzione dell’economia agricola aumentava a dismisura il ricorso al lavoro giornaliero svincolato da qualsiasi rapporto stabile con la terra, l’organizzazione sociale tradizionale delle campagne della Slesia, del Brandeburgo, della Pomerania e soprattutto della Prussia venne compromessa perché l’introduzione di rapporti di lavoro a base salariale, simili a quelli delle fabbriche faceva saltare tutta l’impalcatura delle relazioni sociali di natura semifeudale che dominavano le grandi proprietà: obblighi di natura economica si combinavano con una serie di vincoli e soggezioni di natura servile che legavano il colono e la sua famiglia al signore della terra ben oltre la dimensione lavorativa.

Ma dalla ricerca di Weber emerge un paradosso: pur in assenza di vantaggi economici molti coloni preferivano diventare braccianti pur di sfuggire ai meccanismi di dipendenza che la colonia comportava, preferendo la libertà personale seppur condizionata dalla precarietà della condizione di salariato, piuttosto che rimanere chiusi in una immobile dimensione patriarcale. Questa indipendenza e questa libertà era per molti aspetti illusoria, perché il bracciante restava un contadino povero con poche risorse e pochi diritti, ma si iscrivevano in un campo di aspettative nuove che la penetrazione del capitalismo nelle campagne e l’industrialismo stava moltiplicando non solo in quella propaggine orientale del Reich guglielmino, ma in tutta Europa.

Emergeva già in questi primi studi la consapevolezza metodologica, messa in luce da Antony Giddens, che “il complesso di relazioni che le idee e gli interessi materiali [era] raramente descrivibile in termini di un rapporto causale unidirezionale tra i due livelli”: se era sbagliato non cogliere i nessi tra il processo di modernizzazione e il mondo delle convinzioni e dei comportamenti ascrivendolo esclusivamente all’iperuranio delle idee, era altrettanto scorretto ribaltare l’approccio, facendolo discendere esclusivamente dalle relazioni economiche che legavano le classi subalterne alle élites terriere.
Il nesso tra sistemi economici, condizioni di vita e di lavoro, orizzonti culturali e valori comincia già in questi scritti giovanili a delinearsi come il centro degli interessi di Weber orientati a misurare l’impatto sociale delle idee nei processi storico-sociali, nella misura in cui compongono il quadro dei valori da cui sprigionano quelle motivazioni in grado di interagire nel profondo con le dinamiche strutturali che modellano le dimensioni materiali dell’esistenza.

L’opera più importante di Weber L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, su cui mi sono soffermato all’inizio, costituisce l’evoluzione logica di questo itinerario scientifico e culturale, poiché è dedicata a cogliere l’influenza avuta dai valori religiosi nello sviluppo e nell’evoluzione del capitalismo, a partire dalla convinzione sempre più chiara che questo nuovo sistema economico si fondasse su uno “spirito”, cioè su un atteggiamento spirituale nel quale la spinta a massimizzare il profitto non nasceva esclusivamente dal perseguimento dell’accumulazione della ricchezza.

Come ha scritto Guy Rocher, nella sua Introduzione alla sociologia generale “lo spirito del capitalismo è da definirsi piuttosto come un tipo di condotta economica particolare caratterizzata dalla ricerca di profitti sempre maggiori grazie all’utilizzazione razionale, calcolata e metodica dei mezzi di produzione (risorse, capitali, tecniche, organizzazione del lavoro) e delle condizioni del mercato e degli scambi…[che] ha trovato la sua realizzazione più avanzata…in un capitalismo distinto e particolare [ rispetto ad altre epoche storiche] caratterizzato in particolare da una organizzazione sistematica del lavoro di una manodopera libera,… da una utilizzazione intensa della scienza e della tecnica, da una estensione del proprio mercato e da una contabilità perfezionata”. In questa ottica il profitto si distanzia concettualmente dal guadagno e moralmente da fonte di spreco e di fasto, per assumere il carattere di esito legittimo di un impegno produttivo razionalmente fondato che trova nell’investimento la sua effettiva matrice e che dispiega i suoi benefici effetti sull’intera società.

Questa concezione dell’impegno economico non nasce dalla semplice interiorizzazione e trasformazione in termini valoriali dall’esperienza empirica, quanto piuttosto deriva da una concezione del mondo e da stili di vita che si spigionano soprattutto da una nuova religiosità che nasce nelle pieghe della Riforma protestante. Questa nuova “fonte della razionalità” alimenta un capitalismo di tipo nuovo nel quale si fondono nuovi fattori strutturali generati soprattutto nei paesi atlantici dall’accumulazione di capitali derivanti dal commercio su larga scala lungo le grandi rotte oceaniche tra ‘500 e ‘700 e la comparsa sulla scena sociale di un ceto di mercanti/imprenditori animato da quello spirito: in grado, cioè, di assumere quella condotta economica razionale capace di stimolare la produttività del lavoro e di modellare su di essa il proprio mondo di valori e i propri ideali di vita, cioè la propria “vocazione” professionale.

In una società come quella dell’Europa moderna nella quale, nonostante l’avvio di timidi processi di secolarizzazione legati alla rivoluzione scientifica e alla crescita economica era ancora la religione a dettare le forme e i contenuti della mentalità collettiva, l’avvento della Riforma aveva dato uno scossone risoluto alla morale cattolica perché attraverso della “salvezza per grazia divina” aveva rotto quel nesso tra peccato, buone opere, perdono e salvezza diffuso dal cattolicesimo. Rigettata in tutte le confessioni protestanti “la distinzione cattolica dei comandamenti etici del Cristianesimo in praecepta e consilia”, e la possibilità che l’agire umano possa intervenire sui meccanismo della grazia che interamente nelle mani di Dio e nella sua insindacabile e inconoscibile volontà, l’unico strumento a disposizione del cristiano per “vivere in maniera grata a Dio” non è l’ascesi monacale che implica la separazione dal mondo, ma realizzare – e qui è ancora Weber che scrive – “esclusivamente l’adempimento dei propri doveri mondani, quali essi risultano dalla posizione di ciascuno nella vita, funzione che ciò appunto diventa la sua “vocazione”.

 

L’etica puritana e lo sviluppo del capitalismo

Sta qui, in questo apprezzamento per la vita laica, come fondamento di una vita cristianamente spesa, la chiave di volta di un cambiamento di mentalità e di atteggiamento che costituisce il contributo dato dalla Riforma alla affermazione della modernità e del capitalismo. Ma a questa conclusione Weber giunge applicando un metodo analitico diverso e per molti versi opposto da quello seguito da quanti suoi contemporanei di cultura marxista avevano individuato delle connessioni tra protestantesimo e capitalismo, ipotizzando che il primo fosse la conseguenza sul piano della sovrastruttura ideale del secondo.

Weber infatti partendo dal dato empirico delle statistiche professionali, da cui emergeva come lo sviluppo di imprese capitalistiche si fosse manifestato soprattutto nei paesi protestanti, cerca di smontare la teoria che la religione riformata fosse un semplice riflesso dell’affermazione del capitalismo attraverso un’analisi serrata delle dottrine protestanti, alla ricerca di connessioni scientificamente fondate tra le loro costruzioni teologiche e il nuovo capitalismo che si stava forgiando nell’Europa atlantica.

E la prima relazione significativa riguarda la critica al guadagno fine a sé stesso e all’amore per il denaro che si ritrova in pressochè tutte le confessioni protestanti, basate sull’etica del dovere, e la natura del capitalismo moderno che non è fondata sulla propensione amorale all’accumulazione di ricchezza smodata e individualistica, quanto piuttosto sulla disciplina di un impegno professionale nel quale il guadagno/profitto costituisce la misura del buon esito della propria vocazione.

E questa connessione emerge con maggior forza in quelle correnti del protestantesimo che discendono dalla predicazione di Calvino, laddove la sua rigida concezione della predestinazione divina imperscutabile dagli uomini e che non può essere revocata attraverso nessuna “opera buona”, nella misura in cui lascia il credente in una condizione di estrema solitudine, che nessuna chiesa può in qualche misura colmare crea le condizioni perché il suo impegno a magnificare la gloria di Dio si trasformi in una ascesi laica interamente consumata alla realizzazione della propria vocazione.

La vita del credente calvinista, soprattutto nelle comunità più radicali come quelle puritane o metodiste, e avvolta nella dimensione tragica di chi non può trovare nessuna risposta alla domanda cruciale attorno a cui ruota la sua vita: sono io tra i santi o tra i reietti? L’impossibilità di rispondere a questo interrogativo si risolve nelle correnti ascetiche del calvinismo in una concezione della quale ogni individuo deve partire dalla convinzione di essere tra i “salvati” e che i risultati del proprio lavoro sono l’unica spia attraverso la quale riconoscere la loro predestinazione alla salvezza: un impegno che non lo salva, ma che gli impone di “seguire in solitudine la sua strada incontro a un destino fisso dall’eternità, in poi”. Il successo nell’attività professionale è dunque l’unico modo per rielaborare costantemente l’ansia della salvezza da cui derivano le motivazioni a evitare fortemente ogni tendenza alla rinuncia e al disimpegno e a condurre un’esistenza interamente segnata dalla tensione verso l’azione e l’impegno.

Come ha scritto Gianni Losito nella sua Sociologia, “lo sforzo per raggiungere e conservare la consapevolezza soggettiva della salvezza è, dunque, uno sforzo razionale: l’agire dell’uomo comune può riferirsi a un progetto, perseguire una finalità non trascendente che richiede una condotta di vita metodica, e, appunto, razionalmente orientata”. Dal Calvinismo e dalle sue diverse metamorfosi settarie si viene formando un’etica nuova che rifiutando ogni superstizione, ogni facile itinerario soggettivo verso la salvezza, ogni pulsione irrazionale e emotiva, inchioda, potremmo dire, il cristiano al “farsi da se” attraverso una sconfinata fiducia verso la scienza, il lavoro, l’impegno, il rigore degli stili di vita: un’etica per molti aspetti rivoluzionaria che aveva per suoi avversari, l’ozio, le soggezioni feudali, il fasto, le regole della morale cattolica.

E qui che si annida il centro culturale propulsivo dello “spirito del capitalismo”, che coinvolge “homines novi” dell’economia – piccoli mercanti-imprenditori, che inventano nuove macchine per tessere e filare come Richard Arkwright, John Key, Joseph-Marie Jaquard, proprietari fondiari che si impegnarono ad applicare le nuove acquisizioni scientifiche all’esercizio dell’agricoltura, tecnici inventori come James Watt che moltiplicano le applicazioni del vapore ai trasporti e alla produzione meccanica – estranei ai circuiti dell’aristocrazia terriera, commerciale e bancaria: un nuovo soggetto sociale caratterizzato dal comun denominatore di provenire da quelle comunità di puritani, presbiteriani, quacqueri, che ne aveva forgiato il carattere e le aspirazioni.

Ed è questo elemento culturale per Weber “ uno degli elementi costitutivi dello spirito capitalistico moderno, non soltanto di questo, ma di tutta la civiltà moderna: la condotta razionale della vita sul fondamento dell’idea di professione è nata – ciò vorrebbero dimostrare questi saggi [si riferisce agli scritti raccolti nel volume L’etica protestante e lo spirito del capitalismo – dallo spirito dell’ascesi cristiana”.

Questa ascesi, liberata dalla clausura delle celle monacali per entrare nella vita delle professioni laiche, diventò un potente fattore di sviluppo dell’ “ordinamento economico moderno” chiamato capitalismo, su cui si venne plasmando uno stile di vita collettivo che innervo l’intera società. Ma Weber sa bene che l’afflato originario dell’ascesi calvinista si è venuto progressivamente consumando, perché “i beni esteriori” prodotti dal macchinismo industriale hanno acquistato una forza tale da trasformare in “fantasmi” quei concetti religiosi, come l’Illuminismo che ne è stato l’erede, e da ridurre le professioni da una libera scelta dl puritano del XVIII secolo a un costrizione obbligatoria per il cittadino del XIX.

Da questa profonda ricognizione scientifica sulla religiosità protestante e sulle sue relazioni con la nascita del capitalismo Weber non trae nessuna principio di casualità, come se dalla sovrastruttura religiosa dovesse derivare l’affermazione di un nuovo modo di produzione, rovesciando lo schema metodologico del marxismo, alla cui critica è dedicata tutta l’opera. Coglie da un lato delle affinità e dall’altro un paradosso nella misura in cui dal campo irrazionale dei valori religiosi si sono venuti formando degli stimoli all’affermazione dei processi di razionalizzazione dell’economia e della società che costituiscono l’essenza del moderno.

Ma L’etica protestante e lo spirito del capitalismo resta un primo tassello di un lavoro per più approfondito che Weber intendeva realizzare proprio per chiarire quei nessi causali che restavano ancora impregiudicati in quelle ricerche iniziali pubblicate tra il 1904 e il 1905: un primo punto di arrivo che però mette già in luce le potenzialità euristiche di un metodo di indagine, che a partire da un approccio originale (il nesso tra religione e sviluppo economico) allo studio del più grande fenomeno economico e sociale del mondo contemporaneo, disvela la necessità imprescindibile per le scienze storico-sociali di servirsi di chiavi di lettura multifattoriali e multidirezionali. Senza di esse è impossibile penetrare la complessità che costituisce l’essenza non solo della storia, ma anche del presente, sfuggendo alla tagliola di scorciatoie ideologiche, che si accontentano di trovare legami causali tra i fatti spesso indimostrati o parziali.

Il metodo weberiano oggi più che mai appare un antidoto a perseguire quelle scorciatoie che di fronte al venir meno dei grandi apparati intellettuali che avevano sostanziato le grandi narrazioni ideologiche della modernità, si riducono a passi falsi e vicoli senza uscita.

Alberto De Bernardi
debernardi@perfondazione.eu

Professore onorario Alma Mater dell’Università di Bologna, dove ha insegnato Storia contemporanea e Storia Globale. Ha compiuto numerosi soggiorni di studio a Parigi presso Université Paris Diderot 7 e in Portogallo presso l’Università di Coimbra e l’Università di Lisbona. E’ stato visiting professor presso la Brown University (Providence RI) e l’Ucla (Università della California) di Berkeley. E’ stato direttore scientifico e poi vicepresidente dell’Istituto Nazionale Ferruccio Parri (2011-2018). E’ stato presidente dell'Istituto storico per la storia e le memorie del '900-Parri Emilia-Romagna (2010-2016). Ha fondato e diretto le riviste “Società e Storia”, “I Viaggi di Erodoto”, “I Democratici”, “Storicamente”. E’ presidente di REFAT, Rete internazionale per la studio del fascismo, autoritarismo, totalitarismo e transizioni verso la democrazia, e della Fondazione PER – Progresso,Europa,Riforme. Le sue ultime pubblicano sono: "Un paese in bilico. L’Italia negli ultimi trent’anni" (Laterza,2014), "Fascismo e antifascismo. Storia, memoria, culture politiche" (Donzelli,2018), "Il paese dei maccheroni. Storia sociale della pasta" (Donzelli, 2019)

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