
17 Feb Il populismo della Lega: dalla Padania all’Italia
di Roberto Biorcio, in collaborazione con Paolo Natale*
In quasi quarant’anni di vita, dal 1984 con la prima Lega Lombarda fino ad oggi, con l’attuale “Lega per Salvini Premier”, il movimento/partito fondato da Umberto Bossi ha vissuto almeno tre fasi ben distinte, dove il populismo è stato tematizzato secondo accenti abbastanza diversificati nel corso degli anni. Nei primi anni di vita, nel passaggio da Lega Lombarda a Lega Nord, il movimento leghista incarnava le istanze legate all’alterità delle regioni settentrionali, in contrapposizione a quelle della “Roma ladrona” e centralista: una forza politica di stampo regionalista che nel tempo si era progressivamente qualificata come il principale interprete della “questione settentrionale”, impegnato a rappresentare i problemi, le domande e le proteste espressi dalla società civile delle regioni del Nord. Ma era riuscito ad avere un significativo consenso elettorale solo quando aveva rappresentato la domanda di autonomia delle regioni settentrionali per contrapporsi al ceto politico e ai partititi insediati nelle istituzioni politiche nazionali che governavano l’Italia.
La Lega aveva gestito la frattura centro/periferia mettendo al tempo stesso in discussione il trasferimento di risorse dalle regioni settentrionali a quelle meridionali. Il partito di Bossi riusciva così a trasformare il regionalismo in una forma di populismo regionalista (Biorcio 1991). Il suo successo è stato facilitato dalla crisi e poi dalla dissoluzione dei principali partiti nazionali (Dc, Pci e Psi) che avevano garantito per molti anni stretti legami con tutte le comunità locali e fra le diverse regioni italiane, impedendo lo sviluppo di conflitti significativi basati sulla frattura centro/periferia.
Durante la seconda fase del suo percorso, passando da forza di opposizione e in qualche modo “secessionista” a forza di governo, nell’appoggio dapprima opportunistico (nell’alleanza con Berlusconi del 1994) poi sempre più organico (a partire dal 2000 in poi), la Lega ha costruito una organizzazione politica radicata sul territorio, in grado di interpretare e gestire le domande emergenti, cercando di dare risposta ai problemi e al deficit di rappresentanza che emergevano in molte zone dell’Italia settentrionale: la sofferenza fiscale dei ceti medi, i problemi delle piccole imprese, la crescita dell’immigrazione, l’inefficienza dei servizi pubblici, le richieste di autogoverno regionale. Per dare un fondamento alla sua battaglia per l’autonomia delle regioni settentrionali Bossi ha promosso negli anni successivi anche l’invenzione di una nuova nazione, la “Padania”, spingendosi fino a rivendicare la possibilità di una secessione rispetto alle altre regioni italiane.
I successi elettorali della Lega Nord le hanno consentito di diventare uno dei protagonisti più importanti della vita politica italiana e di partecipare per molti anni ai governi di centrodestra guidati da Berlusconi. Gli scandali che hanno investito anche la famiglia Bossi nel 2012 hanno però provocato una grave crisi del Carroccio, con una forte caduta del consenso elettorale e un allontanamento degli attivisti.
Una terza nuova fase di ripresa del partito si è avviata solo dopo la svolta guidata da Matteo Salvini, divenuto segretario nel 2012, che è riuscito in un primo momento a far crescere nettamente i consensi elettorali (durante l’esperienza di governo con il Movimento 5 stelle, fino all’exploit del 2019). Il nuovo leader ha però notevolmente mutato il profilo della Lega Nord, eliminando la specificazione settentrionale e facendolo diventare un partito populista di stampo nazionalista e sovranista. La sua strategia e la sua collocazione politica, dopo qualche anno di positivi riscontri elettorali anche nelle aree più centro-meridionali del paese, hanno vissuto peraltro una acuta battuta di arresto, facendo precipitare il partito ai livelli di consenso di almeno un decennio precedente, senza riuscire a conservare nemmeno l’antica supremazia nelle regioni settentrionali (Veneto e Lombardia, innanzitutto) e, se non in minima parte, il patrimonio politico-culturale della formazione politica fondata da Umberto Bossi.
1. Il populismo regionalista
La Lega Nord non è un movimento radicato in un contesto territoriale coincidente con una delle regioni italiane: si è formata grazie alla confluenza di diversi movimenti regionalisti che assumevano come riferimento ideale i movimenti etno-nazionalisti dei paesi europei, e anche nell’attuale statuto, la Lega si autorappresenta come Confederazione di 13 “sezioni regionali”, definite “Nazioni”. Nel corso degli anni Ottanta erano state fondate nell’Italia settentrionale diverse Leghe Autonomiste che rivendicavano un decentramento del potere politico a favore dell’autogoverno locale, impegnandosi per la difesa della cultura e delle tradizioni regionali. Per acquistare visibilità, le nuove formazioni politiche si presentarono in tutte le elezioni locali, nazionali ed europee, ottenendo però risultati molto deludenti per dieci anni.
In Lombardia la proposta politica originaria delle leghe autonomiste fu modificata profondamente. Sotto la direzione di Bossi, la protesta etno-regionalista fu trasformata in battaglia popolare contro la partitocrazia romana, inquadrata in un preciso schema interpretativo: quello della protesta del Nord operoso contro un centro politico inefficiente, inefficace e parassitario. L’obiettivo dell’autonomia di tutte le regioni dell’Italia settentrionale fu presentato come la via più radicale per liquidare il potere dei partiti tradizionali e della burocrazia statale. L’identità regionalista diventò così un punto di riferimento per esprimere un insieme di tensioni molto sentite in alcuni strati della popolazione: le tensioni fra i cittadini e il ceto politico, fra gli insediati nel territorio e gli immigrati (i meridionali, prima, e gli “extracomunitari”, poi), fra la gente comune e le diverse forme di criminalità e devianza.
La Lega Lombarda riuscì così ad affermarsi a livello di massa proponendo una combinazione di regionalismo e protesta populista (Biorcio 1991; Diani 1996; McDonnel 2006). Nel 1989 fu costituita la Lega Nord che integrava gran parte delle leghe regionali (Piemont, Liga Veneta, l’Union Ligure, Lega Emiliana-Romagnola, l’Alleanza Toscana) sotto l’egemonia della Lega Lombarda. L’unificazione delle leghe autonomiste delle regioni settentrionali non era stata facile, aveva richiesto dieci anni e non sono mancate (e non mancano) spinte e dinamiche in opposizione. Non esisteva d’altra parte un unico Nord dell’Italia, ma diverse aree territoriali, ciascuna caratterizzata da forme di produzione, subculture politiche e reti di relazione diverse (Diamanti 1996, 85).
Solo in Lombardia era emersa fin dalle origini l’idea di uscire dall’ambito strettamente regionale; già nel 19832 la Lega Autonomista Lombarda evocava infatti l’idea della Padania: “Oggi come oggi la Lombardia non è più dei Lombardi, la Padania non è più della gente padana. È soltanto una espressione geografica senza valore politico, è soltanto un territorio senza diritti di fronte all’invadenza altrui”. Per le altre leghe autonomiste l’idea di una comunità più ampia degli ambiti locali e regionali si era affermata solo successivamente, superando non poche difficoltà. I lombardi crearono il gruppo dirigente della Lega Nord, emarginando progressivamente i fondatori delle altre leghe. Il nuovo partito diventò una organizzazione fortemente centralizzata, guidata della leadership carismatica di Umberto Bossi.
Le ragioni della crisi di fiducia dei cittadini rispetto ai partiti politici tradizionali erano molteplici, ma solo la formazione di un nuovo importante attore collettivo – la Lega Nord – riuscì ad aggregare lo scontento e la protesta in modo da minare in profondità le basi del consenso per i partiti che avevano governato l’Italia nel secondo dopoguerra. Fino agli anni Novanta le esperienze di gestione dell’antipolitica non assunsero un ruolo rilevante e duraturo nel sistema politico italiano, perché non riuscirono a trasformare la protesta in adesione a un nuovo partito di massa, fondato su una identità forte. Questa operazione era riuscita invece con successo alla Lega guidata la Bossi.
Nella contrapposizione fra le popolazioni dell’Italia settentrionale e lo Stato centralista si potevano esprimere sia il rancore per la perifericità politica delle regioni economicamente più sviluppate sia le tensioni esistenti fra la grande maggioranza dei cittadini e i partiti politici al governo, legati al grande capitale pubblico e privato. Il partito di Bossi riuscì a reinterpretare la frattura fra centro e periferia in relazione a un potenziale conflitto fra il popolo e tutte le élite politiche, economiche e intellettuali. Senza dimenticare l’ostilità nei confronti degli immigrati accusati di minacciare l’identità culturale e la sicurezza delle comunità locali. La Lega era riuscita così a tradurre in consenso elettorale la disaffezione e la protesta dell’opinione pubblica molto più efficacemente di altre formazioni concorrenti perché aveva unito la lotta alla partitocrazia alla difesa di interessi concreti e soprattutto alla costruzione di un riferimento identitario alternativo a quelli politici tradizionali.
L’originalità e la principale ragione del successo della Lega Nord fu la rilettura del regionalismo in chiave populista. Nelle regioni dell’Italia del Nord il partito di Umberto Bossi aveva proposto un appello al popolo inteso sia come demos (il popolo nel suo insieme e al tempo stesso la gente comune, la plebe, le masse popolari contrapposte alle élite) sia come ethnos (il popolo come entità etnonazionale). La Lega ha così formata progressivamente la sua identità politica, che assumeva come riferimento l’idea di un ‘popolo’ definito in termini etnoculturali e territoriali (‘noi’) in contrapposizione all’immagine del ‘nemico’: il potere centrale romano, i partiti tradizionali, il grande capitale, i meridionali, gli immigrati extracomunitari. La posta in gioco è stata definita in riferimento al potere sul territorio: la autonomia rivendicata prima nell’ambito di una riforma federale dello stato, e successivamente evocando anche la possibilità di una secessione. La gestione efficace di questa formula è stata alla base dei successi di tutti i movimenti e i partiti populisti europei negli ultimi venti anni perché ha collegato il polo della protesta popolare con quello dell’identità (Mény e Surel 2000, 187; Taguieff 2002, 57).
2. Etnoregionalismo e populismo
La classe politica italiana aveva sempre avuto una tendenza alla comunicazione autoreferenziale, con un linguaggio spesso poco comprensibile dalla maggioranza dei cittadini. La capacità di Bossi di rapportarsi e di esprimere il modo di pensare dei ceti popolari delle regioni del Nord è stata sempre molto importante per le affermazioni del suo partito. Il leader del Carroccio ha d’altra parte sempre ostentato il carattere “popolano” della Lega: “Sarà una convinzione ingenua, semplicistica, ma io sento che dove c’è il popolo c’è il bene. Il male si annida nei palazzi del potere e nelle cupole mafiose” (Bossi 1992, 187). La capacità di Bossi di svolgere efficacemente il ruolo del leader populista era stata lucidamente colta da Ginafranco Miglio “Credo che la prima e fondamentale attitudine del leader della Lega Nord sia la capacità di percepire e poi di esprimere le convinzioni e le aspirazioni dei ceti popolari della sua terra” (prefazione a Bossi, 1992). Il Carroccio, cogliendo e interpretando opinioni e pregiudizi diffusi a livello popolare sviluppò campagne e battaglie politiche del tutto simili a quelle promosse dai partiti populisti europei.
È stato molto originale ed efficace il modo in cui il Carroccio e il suo leader hanno riproposto e combinato l’etnonazionalismo e il populismo. L’idea di fondare un movimento per la difesa degli interessi della propria regione era stata associata da Bossi alla valorizzazione del profilo etnico della popolazione. La dimensione etnica nella vita sociale fu sempre concepita dal leader del Carroccio come una risorsa importante e decisiva per la conquista dell’autonomia politica.
La Lega cercava di riprodurre il modello tipico dei partiti etnoregionalisti, denunciando lo stato di “colonie interne” delle regioni dell’Italia settentrionale, valorizzando le loro specificità storiche e culturale, e rivendicando l’autonomia nel governo del territorio e delle sue risorse. Il Carroccio, d’altra parte, ha sempre sostenuto le lotte di tutti i movimenti autonomisti europei e ha cercato di stabilire relazioni con i movimenti etnoregionalisti francesi, spagnoli e fiamminghi.
Le possibilità di successo di una mobilitazione etnoregionalista erano però molto ridotte in Italia perché le distinzioni storiche e culturali fra le regioni non hanno mai avuto grande rilevanza. Le difficoltà incontrate spinsero Bossi a tentare altre strade, da una parte cercando di utilizzare le possibilità di mobilitare l’antipolitica che stavano emergendo alla fine degli anni Ottanta, dall’altra tentando di legittimare e gestire politicamente l’ostilità verso gli immigrati provenienti dal mezzogiorno o da paesi extracomunitari.
La Lega è riuscita così a promuovere il primo massiccio processo di espressione e di aggregazione della protesta populista contro i partiti tradizionali. Il Carroccio non si limitava a una battaglia contro la degenerazione della partitocrazia, ma ha gestito la contrapposizione fra le aspirazioni e i valori della gente comune rispetto al potere e ai privilegi di tutti i tipi di élite. Il modello culturale di riferimento erano le virtù di laboriosità, parsimonia, onesto ed intraprendenza della gente comune, in contrapposizione ai principi e ai criteri di gestione delle grandi imprese private, e soprattutto statali.
In generale la strategia comunicativa della Lega si basava sul rovesciamento di una serie di aspetti di disvalore con cui vengono connotati i ceti popolari e il loro linguaggio in elementi di valore. Il modo di parlare, di vestire, di atteggiarsi di Bossi si presentava al tempo stesso come garanzia di autenticità e di valorizzazione di uno stile di vita popolare. In molte occasioni il leader della Lega aveva sottolineata ed enfatizzato il carattere “popolano e popolare” del movimento (si veda ad esempio il discorso introduttivo al Congresso di Bologna, gennaio 1994, ora in U. Bossi 1996, 55). Al “politichese” il leader leghista contrapponeva un linguaggio immediatamente chiaro e concreto, che evocava la quotidianità della gente comune. Era evitata ogni complicazione sintattica: la costruzione delle frasi ricercava il massimo di semplicità, riducendo al minimo l’uso delle proposizioni subordinate.
Bossi esibiva spesso come elemento di autenticità le infrazioni al “galateo” osservato dal linguaggio politico e dal linguaggio colto in generale. Più che i contenuti programmatici proposti, è stato soprattutto il tipo il linguaggio impiegato a caratterizzare il nuovo soggetto politico (Biorcio 1997).
La rottura sul piano del linguaggio era messa in evidenziata anche dalla scelta dei canali di comunicazione. Invertendo la tendenza dei partiti a comunicare con il pubblico sempre più attraverso la televisione e la grande stampa, la Lega privilegiava le forme di comunicazione più povere e tradizionali, che cercavano il contatto diretto con i cittadini. D’altra parte, la novità e la trasgressività dei messaggi e dalle iniziative leghiste avevano garantito al partito un rilievo crescente sui media. Anche le prese di posizione più ostili e derisorie dei media furono utilizzate come risorsa: “Abbiamo capito che gli aspetti folcloristici della nostra attività e gli equivoci più maliziosi sulla proposta federalista erano un’ottima pubblicità. Pubblicità negativa, certo, ma tutto fa brodo quando un movimento è agli albori e non ha entrature nei santuari della stampa di regime” (Bossi 1992, 99).
La fusione di regionalismo e populismo ha impresso un profilo molto preciso alla questione settentrionale, non soltanto intesa come rivendicazione di autogoverno, ma come aperta contrapposizione e sfida ai partiti nazionali, stigmatizzati come corrotti, centralisti e meridionalisti. La sfida più importante alla DC (e all’insieme delle forze di governo) non proveniva più dalla sinistra, ma era gestita da una forza in grado di ottenere ampi consensi presso l’elettorato moderato di centro e di centrodestra. La Lega non incontrava d’altra parte le barriere politico-ideologiche che ancora limitavano le possibilità di successo elettorale del MSI.
La prima ondata leghista era culminata, come abbiamo visto, nel 1992, quando il partito di Umberto Bossi riusciva ad affermarsi, prima in Lombardia e poi nelle altre regioni dell’Italia settentrionale collegando la protesta regionalista alla lotta contro la partitocrazia romana (Biorcio 1991; Diamanti 1993).
3. Lega di opposizione e di governo
Nel 1994 la Lega accettò, dopo non poche esitazioni, di partecipare alla coalizione con Berlusconi nelle regioni del Nord e contribuì in modo decisivo al suo successo nelle elezioni nazionali. Il partito di Bossi conquistò una vasta rappresentanza parlamentare e diversi ministeri nel governo. Maroni ottenne il ministero degli interni e la vice-presidenza. Ma emersero subito molti problemi e divergenze su diverse questioni come le leggi sulla giustizia e la riforma delle pensioni. Nelle elezioni europee del 1994 la Lega perse circa un terzo del suo elettorato a vantaggio di Forza Italia. Si era esaurita così la prima ondata di espansione leghista. Diventava inevitabile, per salvare il movimento la scelta della rottura con Berlusconi.
Dopo l’abbandono dell’alleanza con il governo di centrodestra, il partito di Bossi riuscì ad avviare una nuova fase di espansione elettorale nel 1996. Fu rilanciata la lotta alla partitocrazia, distribuendo simmetricamente gli attacchi fra centrodestra e centrosinistra. La Lega diventò il primo partito nelle regioni dell’Italia settentrionale con oltre quattro milioni di voti, ma non riuscì a tradurre sul piano politico e istituzionale il successo elettorale perché i suoi voti in parlamento risultavano inutili per l’Ulivo, e non sufficienti al Polo per conquistare la maggioranza
Per contestare il bipolarismo e affermare la diversità del proprio progetto politico, il federalismo fu abbandonato a vantaggio dell’indipendentismo (Biorcio 1997). Il Carroccio concentrò la sua iniziativa politica sull’obiettivo dell’indipendenza della Padania per creare un riferimento ideale al movimento. Fu ripercorso il classico schema della “costruzione della nazione” con i richiami a un’origine e a una storia comune delle popolazioni dell’Italia settentrionale, mettendo in evidenza tutte le differenze rispetto alle altre regioni, e avviando la campagna per la costruzione della “Nazione Padana”, con il ricorso a simboli, rituali di massa e miti secondo il classico percorso di invenzione della tradizione (Hobsbawn e Ranger 1983). La Lega organizzò nel settembre 1996 manifestazioni dalle sorgenti del Po fino a Venezia per proclamare simbolicamente la nascita di una nuova “Repubblica Federale Indipendente e Sovrana”. L’idea della Padania fu propagandata, diffusa e fatta assimilare a militanti e simpatizzanti riproponendo ogni anno le marce sul Po con i relativi rituali di massa e con elezioni “padane” e referendum dimostrativi autogestiti.
Nel febbraio 1997 il terzo congresso ordinario cambiò il nome del partito: da “Lega Nord – Italia Federale” a “Lega Nord per l’indipendenza della Padania; lo statuto approvato nel 2002 esordisce con la dichiarazione “Il Movimento politico denominato Lega Nord per l’Indipendenza della Padania … ha per finalità il conseguimento dell’indipendenza della Padania attraverso metodi democratici e il suo riconoscimento internazionale quale Repubblica Federale indipendente e sovrana”. Questa dichiarazione è stata riconfermata anche nel più recente statuto approvato nel 2014. La crisi delle ideologie e dei partiti tradizionali rendeva plausibile, per diversi settori della popolazione, la valorizzazione dell’attaccamento ad una comunità definita in termini etnoculturali e territoriali come criterio per difendere efficacemente valori e interessi. Anche dopo l’abbandono dell’idea della secessione e la sua sostituzione con la devolution collegata al rilancio del federalismo, il riferimento alla Padania – che rimane nello statuto e nel nome della radio e del quotidiano del partito – restò un riferimento ideale importante per i leghisti.
Dopo il 1996, la radicalizzazione della posizione indipendentista aveva però accentuato l’isolamento della Lega, riducendo il suo consenso. La Lega ritornò perciò ad allearsi con il Centrodestra nel 2000, vincolando gli alleati su due contenuti: il federalismo e l’immigrazione. Riacquistando così un ruolo importante nella politica italiana, il Carroccio riuscì ad avviare dopo alcuni anni una terza ondata di espansione elettorale.
I voti per la Lega raddoppiarono infatti nelle elezioni del 2008 e aumentarono ancora nelle successive elezioni europee e regionali. Il partito di Bossi era riuscito a dare voce e a gestire le paure direttamente collegata alla crescente presenza di immigrati. La Lega riuscì ad apparire come la forza politica che – nell’ambito del centrodestra – si impegnava più coerentemente e con maggiore forza per il contenimento dell’immigrazione e nella lotta alla criminalità; ciò anche grazie a una maggiore attenzione al territorio, ai rapporti con la “gente” nelle sezioni di base e al ruolo svolto dalla rete dei suoi sindaci. La capacità di conquistare consenso tra i ceti popolari e soprattutto fra gli operai sono stati anche nel 2008 i fattori più importanti dell’espansione elettorale leghista.
Nella fase in cui la politica è sempre più schiacciata sul rapporto fra il circo mediatico e le istituzioni, la Lega ha sviluppato la sua iniziativa soprattutto sul territorio, con attivisti e interlocutori in carne ed ossa che interagivano nell’ambito di contesti e comunità reali. Bossi aveva costruito un partito centralizzato che svolgeva molte delle funzioni dei tradizionali partiti di massa. Le credenze e le speranze condivise e diffuse dai leghisti rappresentavano d’altra parte una nuova forma di ideologia facilmente comprensibile a livello popolare. La solidità ideologica e organizzativa permetteva al partito di Bossi e ai suoi rappresentanti nelle istituzioni di muoversi con spregiudicatezza e pragmatismo su molte questioni di politica nazionale e locale.
Il radicamento sul territorio e lo stile di azione politica leghista riproponevano il modello già sperimentato dal movimento dei “comitati securitari” che si erano formati negli anni Novanta a Milano, Genova, Torino e in altre città del Nord. Questi gruppi tentavano di intervenire direttamente sulle presenze percepite come invasive degli spazi della loro comunità: prostitute, immigrati, spacciatori, piccola criminalità. I gruppi securitari potevano contare su pochi attivisti stabili, ma riuscivano a raccogliere consenso e sostegno dalla popolazione e ottenevano spesso una buona risonanza sui media locali. L’idea che questi gruppi interpretavano e diffondevano era quella di una comunità invasa da soggetti estranei, una comunità che poteva mobilitarsi per difendersi.
La Lega era riuscita a diventare il principale referente politico della società locale nelle aree in cui prevaleva il modello produttivo della piccola impresa. In questi contesti imprenditori e lavoratori sono spesso coinvolti nell’impegno comune per l’aumento della redditività delle imprese e per la sopravvivenza dello specifico distretto industriale. I voti leghisti provenivano anche da molti iscritti al sindacato: per gli interessi economici gli operai continuavano ad affidarsi ai sindacati tradizionali (Cgil, Cisl e Uil) mentre per la rappresentanza politica il riferimento del partito di Bossi alla comunità locale/regionale sembrava meglio intercettare quella “voglia di comunità” emergente nelle società contemporanea di cui parla Bauman (2001).
La Lega in realtà non mirava tanto ad attivare una stabile partecipazione dei cittadini quanto a raccogliere il consenso, il sostegno e la delega della popolazione locale per le proprie iniziative. Nei piccoli centri come nei quartieri delle grandi città operavano gruppo di leghisti che installavano gazebo per raccogliere le firme a sostegno delle proprie iniziative o per ottenere la partecipazione a referendum su svariate questioni di interesse locale. Queste iniziative trovavano un forte supporto dalla rete degli amministratori leghisti, che richiamavano l’attenzione dei media locali con i loro interventi spesso provocatori.
Nella prassi dei leghisti emergeva con chiarezza uno dei tratti che caratterizzano tutte le formazioni della destra populista: la tendenza a proporsi come unico ed esclusivo veicolo per l’espressione della volontà popolare. Le sezioni di base erano d’altra parte molto attente ai mutamenti di umori e opinioni della popolazione locale. A volte sostenevano anche proteste e rivendicazioni in contrasto con le politiche del governo nazionale o delle amministrazioni regionali che coinvolgevano la Lega. L’incoerenza politica era però superata – e poteva essere riconfermata la fedeltà elettorale – grazie all’identità attribuita al Carroccio, riconosciuto come partito che “sta dalla parte” delle popolazioni locali, impegnato a difenderne il territorio, la sicurezza e gli interessi. L’assenza degli altri partiti dal territorio e la poca chiarezza delle loro proposte rendevano ancora più visibile in molte località il profilo politico del partito di Bossi.
Per dare concretezza all’idea di “Padania”, la comunità immaginata che rappresentava l’elemento centrale della propria identità, la Lega si è impegnata a sviluppare una sorta di “patriottismo difensivo” a geografia variabile. Ai processi di tipo globale in corso venivano contrapposti la difesa delle comunità a base territoriale, dei suoi interessi, della sua cultura e in generale delle sue forme di vita tradizionali, compresa la religione cattolica.
L’idea centrale proposta era sempre quella della “comunità invasa”, cercando di istituire sostanziali differenze fra i diritti dei “padroni di casa” e quelli degli eventuali “ospiti” più o meno desiderati. L’idea di “differenziarsi”, sia in termini di diritti sociali che di protezione, a discapito di coloro che provenivano da altri territori era stato uno dei principali punti di forza sui quali la Lega aveva costruito i suoi consensi (dapprima fra i commercianti, i piccoli imprenditori e i lavoratori autonomi; poi fra gli operai e, successivamente, anche fra gli impiegati).
Erano legittimate tutte le forme possibili di resistenza allo sviluppo di una società multietnica, così come l’idea del diritto a un “primato” (o alla esclusività) di chi apparteneva alla comunità locale (e anche alla regione, alla Padana o all’Italia) rispetto agli immigrati nell’accesso al lavoro, ai servizi sociali e alle risorse pubbliche. È la stessa idea che era stata inventata da Jean Marie Le Pen: il principio del “primato nazionale” (les Français d’abord), sviluppando una strategia che si era rivelata molto efficace sul piano elettorale.
La Lega di Bossi riproponeva queste idee in modo più flessibile, sia riferendole alle comunità locali o regionali, sia estendendole all’intera Padania. L’iniziativa politica poteva svilupparsi così a diversi livelli, impegnandosi talvolta anche nella difesa della comunità e dei confini nazionali, e non solo di quelli regionali o della Padania.
4. La Lega di Matteo Salvini e il cambiamento di strategia
Dopo il tramonto di Bossi e la perdita di consensi, è Matteo Salvini a prendere le redini della Lega, e con lui molte cose cambiano radicalmente: non è più la Lega “Padana” che tentava di costruire la “macroregione” del Nord. Viene soprattutto recuperato una parte del repertorio tradizionale leghista contro gli immigrati provenienti dal Nord Africa, un tema sempre presente anche sui media. Sono abbandonati o lasciati in secondo piano la secessione, il federalismo e le polemiche antimeridionali.
L’elettorato del partito si è così molto trasformato negli ultimi anni. Nel 1996 il voto leghista raggiungeva i livelli più elevati tra gli elettori di centro, e poi si distribuiva simmetricamente sia a destra che a sinistra. Se all’inizio degli anni Novanta la Lega si proclamava “né di destra né di sinistra”, la sua collocazione e il suo elettorato si sono sempre più spostati a destra. Valorizzando i temi cari alla destra europea e ultra-nazionalista guidata da Marine Le Pen, l’elettorato del partito è ovviamente molto diverso da quello degli anni Novanta.
I cambiamenti del profilo politico della Lega attuati da Salvini hanno motivazioni di tipo diverso. La scelta radicale di riprodurre le idee e la strategia di successo del Font National era soprattutto motivata dalla necessità di dare una forte scossa al partito che, per effetto degli scandali e delle vicende che avevano coinvolto anche la famiglia Bossi, attraversava una fase di forte crisi. Assumendo come modello un partito che appariva “vincente” nelle elezioni francesi, con un ruolo crescente anche in Europa, Salvini cercava di far dimenticare la crisi della Lega e di rilanciarla come partito di lotta a livello nazionale.
La scelta di accentuare fortemente la personalizzazione del partito, coerente con le tendenze esistenti in molte forze politiche populiste, dipendeva invece più dalle preferenze e dalle attitudini personali del nuovo leader, che si sono dimostrate molto efficaci. È fortemente cresciuta la visibilità personale di Salvini su tutte le reti televisive, invitato a molteplici trasmissioni e talk-show. Anche le iniziative che il nuovo leader leghista gestisce sul territorio in tutte le regioni italiane, spesso contestate dagli avversari politici, sembrano costruite in modo tale da ottenere sempre una risonanza mediatica.
Nelle elezioni nazionali del 2018 la protesta degli elettori e la domanda di cambiamento delle politiche governative è stata intercettata dal Movimento 5 Stelle, soprattutto nelle regioni meridionali e tra gli elettori più in difficoltà per la crisi economica. Nelle regioni settentrionali e tra gli elettori più orientati verso destra, la domanda di cambiamento è stata invece raccolta della Lega di Salvini, che con il 17,4% dei voti è diventato il principale partito di centrodestra.
Per evitare nuove elezioni, i due partiti elettoralmente più vincenti si sono alla fine alleati in un nuovo governo. Le due forze politiche si erano proposte agli elettori impegnandosi per il cambiamento radicale delle politiche attuate dai precedenti governi, per offrire risposte alle richieste e alle attese dei cittadini. Matteo Salvini e in generale la Lega hanno partecipato e sostenuto il governo, ma al tempo stesso si sono molto impegnati per riconfermare la loro appartenenza alla coalizione di centrodestra. Il leader del Carroccio ha cercato di occupare quotidianamente la scena mediatica, moltiplicando dichiarazioni che suscitavano spesso polemiche, reazioni e critiche. Voleva in questo modo affermare la propria centralità nel governo e al tempo stesso connotarlo sulle questioni più importanti per l’elettorato di centrodestra: la paura dell’immigrazione, la gestione dell’insicurezza, la riduzione delle aliquote fiscali, la difesa della sovranità nazionale.
Questa strategia di comunicazione è stata molto efficace. Si è esteso rapidamente il consenso elettorale per il partito di Salvini, che nelle elezioni europee del 2019 ha raggiunto il livello del 34,3%, mentre si sono dimezzati i consensi per il Movimento 5 stelle. La Lega ha provocato la caduta del governo Conte e si è opposta con forza alla sua ricostituzione sostenuta anche dal centrosinistra, Il partito di Matteo Salvini ha però perso molti consensi rispetto alle elezioni europee. Una tendenza inversa ha caratterizzato Fratelli d’Italia, che ha visto più che raddoppiate le intenzioni di voto, raggiungendo il livello del 14%. Dopo le dimissioni del governo Draghi, la coalizione di centrodestra ha ottenuto un largo successo nelle elezioni politiche nazionali del 2022. Ma i voti per la Lega si sono fortemente ridotti. La Lega ha cercato di far emergere alcuni dei suoi obiettivi tradizionali nel governo guidato da Giorgia Meloni, in particolare sui temi delle autonomie regionali differenziate e sul contrasto all’immigrazione clandestina. Ma queste iniziative e le relative campagne propagandistiche non hanno per ora permesso al Carroccio il recupero dei consensi persi negli ultimi tre anni.
5. Conclusioni
Il populismo proposto e gestito con successo dalla Lega dagli anni Novanta si ripropone oggi con forza, ma è molto cambiato negli ultimi anni, con la leadership di Salvini. L’impegno in politica di Umberto Bossi era stato inizialmente solo di tipo etno-regionalista, influenzato dall’incontro con Bruno Salvadori, leader dell’Union Valdôtaine. Le difficoltà incontrate per sviluppare con successo mobilitazioni di tipo regionalista spinsero Bossi a tentare altre strade, da una parte cercando di utilizzare le possibilità di mobilitare l’antipolitica che stavano emergendo alla fine degli anni Ottanta, dall’altra tentando di legittimare e gestire politicamente l’ostilità verso gli immigrati provenienti dal mezzogiorno o da paesi extracomunitari.
Il Carroccio, cogliendo e interpretando opinioni e pregiudizi diffusi a livello popolare trasformò il regionalismo delle origini in populismo regionalista. Bossi ha gestito per molti anni la Lega, consolidando il suo partito e andando ben al di là di un semplice movimento di protesta contro la partitocrazia. Ha però mantenuto una sostanziale coerenza con la propria identità originaria. La Lega era riuscita a stabilire con le comunità territoriali a cui faceva riferimento un rapporto “vero”, quale gli altri partiti non erano più in grado di stabilire perché sempre più dipendenti dai media per comunicare con i cittadini.
La crisi esplosa nel 2012 ha costretto Bossi alle dimissioni e ha aperto la strada, dopo il breve periodo gestito da Maroni, alla svolta radicale della strategia del partito promossa da Matteo Salvini, da una parte assumendo come riferimento il Font National, dall’altra optando per una decisa “personalizzazione” del partito, usando nuovi e vecchi media per una comunicazione diretta con gli elettori.
Salvini ha assunto dunque la destra populista europea e i suoi valori come riferimento politico principale. Una destra populista che si sta riorganizzando su scala continentale, e lotta contro le politiche di austerità e al tempo stesso si impegna contro gli immigrati e l’Islam, lasciando cadere le divisioni e le reciproche insofferenze del passato. Il nuovo leader leghista ha cercato di rilanciare il suo partito con un populismo dunque più “classico”, rispetto a quello bossiano che aveva caratterizzato il primo trentennio leghista, ma anche molto meno caratterizzante, inedito e identificante, tanto che il suo appeal e consenso attuale può venir facilmente sostituito da altri soggetti e leader, che si rifanno a quello stesso tipo di populismo. Quasi una crisi preannunciata della nuova Lega.
Bibliografia
Bauman Z., 2001, Voglia di comunità, Laterza, Roma-Bari
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*Paolo Natale è Professore al Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche dell’Università degli Studi di Milano, dove insegna Metodi e tecniche della ricerca sociale e Survey Methods. E’ membro del Comitato scientifico della SISE (Società Italiana di Studi Elettorali) e della rivista ComPol (Comunicazione Politica). Esperto di sondaggi, collabora da anni con l’istituto di ricerca Ipsos, diretto da Nando Pagnoncelli. E’ stato editorialista del quotidiano Europa per un decennio, fino alla sua chiusura; ora scrive per i giornali online Gli Stati Generali e Fondazione Hume e per Repubblica Milano.
Tra gli ultimi volumi pubblicati: Il Movimento 5 stelle: dalla protesta al governo (Mimesis 2018), L’ultimo partito. 10 anni di Partito Democratico (Giappichelli 2017, con L.Fasano), Web & Social media (Maggioli 2017), Politica a 5 stelle (Feltrinelli 2013) e Attenti al sondaggio! (Laterza 2009).
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