Il referendum 30 anni dopo. Declinare l'Italia al futuro, l'occasione del dopo pandemia - Fondazione PER
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Il referendum 30 anni dopo. Declinare l’Italia al futuro, l’occasione del dopo pandemia

di Ida Angela Nicotra

 

Non vi sono certezze sul fatto che gli italiani il 9 giugno del 1991 andarono al mare, anche perché non abbiamo memoria del clima di quella domenica d’estate, ma certamente tantissimi di loro andarono a votare per il referendum che aboliva le preferenze multiple. 

Si recarono alle urne il 62,50% degli aventi diritto e vi furono una pioggia di si, pari al 95,57% dei consensi. Il trionfo della proposta referendaria fu probabilmente il frutto della volontà di cambiamento da parte dei cittadini che si schierarono contro i partiti tradizionali, nettamente ostili alla preferenza unica. Una decisione che derivava direttamente dal popolo e originava dalla forma più importante di democrazia diretta: appunto il referendum abrogativo.

Un referendum che era stato pensato nel 1988. Il movimento guidato da Mario Segni nacque proprio per chiedere l’introduzione di una nuova legge elettorale di tipo maggioritario. Anche con l’aiuto dei radicali di Marco Pannella, i referendari raccolsero le firme necessarie per la consultazione popolare.  Il 10 agosto del 1990 in Cassazione vennero depositate circa 600 mila firme per il quesito sulla preferenza unica che fu l’unico dei tre presentati a superare il vaglio di ammissibilità. La Corte costituzionale, infatti, bocciò le altre due domande referendarie, recuperando solo quello sull’abrogazione della preferenza plurima alla Camera.

Il voto sulla preferenza unica disvelava l’umore della pubblica opinione contro il decadimento della politica. L’istituto referendario ha rappresentato fin dall’origine il meccanismo più idoneo di integrazione correzione della democrazia rappresentativa e ha avuto l’innegabile pregio di evitare che la sovranità popolare si esprimesse solamente sul versante della mediazione politico – parlamentare. Quanto maggiore è la disaffezione dei cittadini alla vita politica del Paese tanto più avvertito è il ricorso al referendum.

L’erompere sulla scena collettiva dei referendum sulle leggi elettorali avvenne dopo il primo quarantennio di democrazia consociativa. Durante quel primo mezzo secolo di storia costituzionale, anche in virtù dell’impianto proporzionalistico, si era consolidato un sistema di democrazia “statico” che funzionava in assenza di alternative di governo, con una forza politica, il partito comunista destinata a sedere tra i banchi dell’opposizione. 

L’evoluzione in senso maggioritario raccolse l’esigenza di superare il sistema di democrazia bloccata e la degenerazione del modello partitico e gli episodi di corruzione e malcostume che avevano segnato tra gli anni settanta e ottanta alcuni passaggi della vita istituzionale.

La stagione referendaria, che iniziava proprio trent’anni or sono, ha contribuito in maniera significativa alla scrittura di una nuova legge elettorale. Il verdetto popolare di fatto aprì le porte alla riforma maggioritaria del 1993 che inaugurava la democrazia c.d. dell’alternanza. La scelta dei Governi quale effetto immediato del voto espresso dagli elettori fu un inedito assoluto dell’epoca repubblicana.

Per la prima volta forze politiche marginali hanno fatto ingresso nell’area ministeriale. Il nuovo metodo di elezione agevolò anche il superamento la c.d. conventio ad excludendum, una consuetudine costituzionale basata sull’accordo tra i partiti per escludere le formazioni antisistema dalla maggioranza politica. Ciò ha consentito lo sdoganamento del MSI nel 1994 con la svolta di Fiuggi, della Lega nel 2001 che abbandona progetti di secessione e della Rifondazione comunista che nel 2006 entra nel secondo Governo guidato da Romano Prodi.

La lunga fase dell’esclusione dei gruppi minoritari dalla partecipazione al processo decisionale ha lasciato il posto alla regola dell’avvicendamento. Le maggioranze e le minoranze si alternano al governo della Nazione, sicché l’opposizione di oggi può divenire maggioranza dopo le prossime elezioni. Finisce l’era dei movimenti politici relegati permanentemente al ruolo di opposizione. 

Le coalizioni di centro destra e di centro sinistra, proprio grazie alla formula elettorale maggioritaria, evidenziano ciò che li unisce e minimizzano le differenze, pur presenti, tra le diverse componenti all’interno dei due schieramenti. Il Mattarellum, sistema maggioritario a turno unico per la ripartizione del 75 % dei seggi parlamentari, incentiva proprio l’aggregazione tra partiti.

Insomma, si afferma il bipolarismo che certamente trova terreno fertile nel mutato contesto internazionale con la fine della contrapposizione tra i blocchi ma che difficilmente si sarebbe affermato senza il supporto della legge maggioritaria. L’Italia maggioritaria tende ad assomigliare di più ai Paesi europei che fondano il loro sistema politico – istituzionale sulle ragioni dell’accountability come la Francia, il Regno Unito, i Paesi Scandinavi. Come la stessa Spagna che adotta un particolare sistema proporzionale con sistema di sbarramento che produce effetti maggioritari.

Le conseguenze del modello bipolare non tollerano partiti che governano in ogni caso, a prescindere dal risultato delle urne, perché consente al corpo elettorale di scegliere i programmi e le forze politiche per governare. Ciò incide sul corretto funzionamento della democrazia.

Agli inizi degli anni ’90 sull’onda lunga del movimento referendario a sostegno del maggioritario si giunse alla approvazione della legge sulla elezione diretta dei sindaci. Si aggiunse un importante tassello della transizione politica italiana che tocca il livello locale. Con l’introduzione di una nuova forma di governo, il c.d. modello di neoparlamentarismo, i destini di sindaco e consiglio comunale si legano quasi in maniera indissolubile e i cittadini sono chiamati a votare direttamente non solo per i consiglieri ma anche per il candidato sindaco.

La formula del “simul – simul” cambia l’architettura dei rapporti tra esecutivo e legislativo. La sfiducia eventualmente votata al sindaco trascina inevitabilmente con sé verso lo scioglimento anticipato anche il Consiglio. Inizia la stagione dei sindaci che ha rappresentato un esempio di politica vicina alle persone.

Intanto la politica nazionale attraversa uno dei periodi più bui, in cui gli scandali del sistema delle tangenti e il processo di Tangentopoli si abbattono come uno tsunami sulla politica. 

Ma la forza dirompente del movimento referendario non si ferma; il sistema di investitura diretta del Presidente della Regione diviene parte della riforma del Titolo V e si afferma come principio costituzionale. La ricerca della stabilità degli esecutivi regionali spinge le forze politiche a replicare il modello dei Comuni anche per le Regioni. La legge costituzionale 18 ottobre 2001 n.3 modifica l’art.126, con l’introduzione dell’elezione a suffragio universale e diretto del Presidente della Giunta e lo scioglimento del Consiglio regionale a seguito dell’approvazione della mozione di sfiducia nei confronti del Presidente. Presidenti di Regioni e Sindaci sono espressione diretta del corpo elettorale e si preoccupano di dare risposte alle istanze delle comunità territoriali di riferimento anche in vista del successivo appuntamento elettorale.

La storia di questi tre decenni racconta la divaricazione del livello di governo centrale dai livelli decentrati: la strada tracciata dal referendum sulla preferenza unica rimane incompiuta, bruscamente interrotta dallo scardinamento della legge Mattarella. Nel sistema politico ha preso il sopravvento la nostalgia del passato e nel 2005 l’insofferenza dei leaders verso coalizioni litigiose ha ricondotto alla scelta proporzionalista.

La legge Calderoli costituisce la prova di un evidente ripensamento. La sostituzione affettata del Mattarellum ha di fatto restituito ai partiti assoluta libertà di azione sia rispetto ai partner ribelli della coalizione, sia rispetto al corpo elettorale. I cittadini, che grazie al collegio uninominale sceglievano il parlamentare, si sono dovuti accontentare di votare per un lunghissimo listone bloccato che di fatto li ha esautorati dalla possibilità di scelta dei loro rappresentanti. Il porcellum segna il tramonto dell’era partitica a vocazione maggioritaria.

Nel 2013 una sentenza della Corte costituzionale dichiara illegittima la legge n. 270 del 21 dicembre del 2005 con riferimento sia al premio di maggioranza assegnato alla coalizione più votata senza una soglia minima da raggiungere al fine di far scattare il premio, sia in quanto precludeva all’elettore la scelta sui parlamentari. Due anni dopo trova spazio in Parlamento l’approvazione dell’Italicum (l. n. 52 del 2015) voluto dal Partito democratico.  Si tratta ancora una volta di una legge proporzionale, con eventuale doppio turno e soglia di sbarramento.

Ma l’Italicum non venne mai applicato perché dura troppo poco, nel 2017, infatti, sarà parzialmente bocciato dalla Consulta. Il nuovo sistema elettorale introduceva il sistema di ballottaggio tra le due liste più votate, se nessuna raggiungeva il 40%, con i capilista bloccati nei collegi plurinominali. I giudici costituzionali sancirono l’incostituzionalità del ballottaggio per come costruito nel metodo di voto del 2015 esso “determinava una lesione della rappresentatività degli elettori”.

Successivamente interviene il Rosatellum per disciplinare l’elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica. Il nuovo sistema proporzionale ha trovato applicazione alle elezioni politiche del 4 marzo 2018. Intanto il sostanziale bipolarismo, che aveva resistito anche all’avvento delle leggi proporzionali, è stato radicalmente superato da una configurazione tripolare del sistema partitico. Nessuno dei tre schieramenti politici ha ottenuto la maggioranza sufficiente per formare “in solitudine” un governo.  Così il Capo dello Stato, al fine di risolvere la complessa situazione politica, si è trovato costretto a conferire due mandati esplorativi consecutivi (un unicum nella storia repubblicana) al Presidente del Senato prima e a quello della Camera dopo. Nasce il governo giallo-verde ma dopo un anno la crisi del primo esecutivo della XVIII Legislatura trova l’epilogo nel secondo governo Conte, sostenuto da una maggioranza differente e le posizioni dei partiti ribaltate (Lega all’opposizione e Partito Democratico al governo con i 5 Stelle).

Arriviamo ai nostri giorni con il terzo Governo in tre anni di legislatura. La compagine governativa cambia nuovamente fisionomia. L’esecutivo guidato da Mario Draghi, voluto dal Presidente della Repubblica per fronteggiare l’emergenza sanitaria ha due priorità: la campagna di vaccinazione di massa e la gestione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.

La crisi pandemica ci ha messo di fronte alle debolezze più evidenti del sistema istituzionale italiano dai conflitti tra Stato e Regioni nella gestione del Covid, al ruolo del Parlamento, all’uso delle fonti del diritto per limitare le libertà fondamentali.

Sarebbe il momento di riannodare il filo della storia. Magari evitando i tanti errori del passato.

Le riforme iniziate con il movimento referendario nel 1991, ma rimaste incompiute (anche per il fallimento di due referendum costituzionali), andrebbero portate a compimento. A cominciare dalla riforma del bicameralismo con una Camera che rappresenta i territori, da una disciplina elettorale che rimetta al centro della scena pubblica i cittadini, ripartendo dalla legge Mattarella e da un sistema di armonizzazione tra i diversi livelli di governo.

Le riforme istituzionali rappresentano una tappa importante per condurre l’Italia oltre la pandemia.     

Ida Angela Nicotra
nicotra@per.it

Professore ordinario di Diritto Costituzionale nel Dipartimento di Giurisprudenza dell'Università di Catania. Componente del comitato editoriale di diverse riviste giuridiche specializzate. Dal 2014 al 2020 è componente del Consiglio dell’Autorità Nazionale Anticorruzione. Nel 2013 è stata tra i membri della commissione per le Riforme Costituzionali nominata dal Presidente del Consiglio Enrico Letta.

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