
28 Mag Il referendum del giugno 1991: l’avvio folgorante di 25 anni di riforme incompiute (1991-2016)
di Carlo Fusaro
Premessa
Il 17 gennaio 1991 con la sentenza 47, che stabilì fondamentali precedenti in materia, relatore il presidente Giovanni Conso, la Corte costituzionale ammetteva uno dei tre referendum richiesti in materia elettorale, quello che si sarebbe tenuto il 9 giugno dello stesso anno. Esso riguardava la legge elettorale della Camera limitatamente alle parti in cui prevedeva per l’elettore la possibilità di esprimere più preferenze (da tre a quattro a seconda del numero dei candidati in lista), e consentiva di poterlo fare anche scrivendo non il nome, ma solo il numero d’ordine del candidato o della candidata: se Maria Rossi era in lista al quindicesimo posto, per votarla si poteva scrivere sulla scheda “15”.
La sentenza, invece, non ammetteva gli altri due referendum, di assai maggiore impatto: (a) quello che intendeva estendere a tutti i comuni italiani il sistema elettorale maggioritario di lista dei comuni sotto i cinquemila abitanti; (b) quello che avrebbe abolito, al Senato, il quorum del 65% per l’elezione nel singolo collegio del candidato con più voti, trasformando così quel sistema elettorale in un sistema per circa tre quarti plurality o first past the post, parzialmente annullando gli effetti dell’emendamento Dossetti: quello che, sovvertendo la proposta del governo De Gasperi, aveva appunto reso proporzionale la formula, grazie alla previsione in base alla quale per essere eletti occorreva almeno il 65% dei consensi.
Ma, a meno di volersi rivolgere solo ad iniziati o anziani, non si può cogliere la portata di quella vicenda politico-istituzionale senza descrivere prima il contesto nel quale essa veniva a collocarsi.
Il contesto
Le firme per la presentazione delle tre richieste referendarie erano state raccolte dai Comitati referendari con grande difficoltà, grazie soprattutto a impegnate minoranze di diversi partiti. Decisivi furono i comunisti, come le componenti del movimento cattolico che rifiutavano l’unità politica nella Dc: la Fuci, le Acli, intellettuali come Pietro Scoppola e Arturo Parisi, la stessa minoranza “di sinistra” guidata da De Mita. Le firme depositate in Cassazione furono 608.000, il minimo indispensabile dato che una certa percentuale va inevitabilmente perduta nei riscontri.
La politica nazionale era allora dominata dal c.d. CAF: l’alleanza fra i socialisti di Bettino Craxi (assurto a statista dopo i suoi 4 anni di governo: 1983-1987) e la maggioranza moderata della Dc, guidata da Andreotti, presidente del Consiglio e da Arnaldo Forlani, segretario dopo la cacciata di De Mita (1989). La strategia delle c.d. “riforme possibili” (quelle utili ma non tali da incidere sulle convenienze indisponibili dei cinque alleati) era giunta alla fine. Il decennio degli anni Ottanta inaugurato dai due primi governi di pentapartito, guidati da un non Dc, il repubblicano fiorentino Giovanni Spadolini, non aveva portato a quelle innovazioni del sistema politico-istituzionale pur definite indispensabili: basti evocare il fallimento della prima Commissione bicamerale per le riforme istituzionali (1983-1985).
Il bilancio complessivo non era negativo, ma i limiti di quelle riforme, a fronte delle esigenze del paese, erano evidenti, almeno agli occhi dei riformisti. Già in passato minoranze intellettuali e politiche avevano evocato la necessità, oltre che di innovazioni di rango costituzionale, di una riforma elettorale che incidesse sulle leggi elettorali proporzionali con cui dal 1948 venivano elette le due Camere: vero fondamento e regola materialmente costituzionale del sistema politico del secondo Dopoguerra. Ma passi avanti concreti non ne erano stati fatti perché le convenienze di breve periodo delle maggioranze di governo e la miopia dell’opposizione comunista avevano sempre prevalso: si poteva al massimo pensare a un maggioritarismo funzionale (di qui il superamento del voto segreto in Parlamento), ma non a un maggioritarismo strutturale (che superasse il proporzionalismo elettorale).
Nel frattempo, mentre il paese doveva ancora confrontarsi con gli ultimi feroci cascami del terrorismo rosso (Roberto Ruffilli, colui che nella Dc aveva impostato i tentativi di riforma istituzionale, un mite accademico sceso in politica a fianco di Ciriaco De Mita, era stato assassinato dalle Brigate rosse il 16 aprile 1988), il mondo era cambiato: era caduto il muro di Berlino (9 novembre 1989), si era esaurita la presa sovietica sull’Europa orientale, Gorbacev era presidente di un Urss che sarebbe stata dichiarata sciolta di lì a poco (8 dicembre 1991). Basti pensare che due settimane dopo la sentenza 47, si sarebbe tenuto l’ultimo congresso del PCI (il 31 gennaio 1991 a Rimini): ma già dalla fine del 1989 il segretario Achille Occhetto aveva lanciato la proposta del suo superamento, avallata dal XIX congresso a Bologna (1990). In campo istituzionale Occhetto e i riformisti intorno a lui avevano finalmente rovesciato l’impostazione tradizionale del PCI: non si trattava di bloccare le riforme maggioritarie in attesa dell’alternativa (alla Dc e ai governi costruiti intorno ad essa), ma si trattava di promuoverle proprio per rendere l’alternativa concretamente possibile. Di qui la scelta di sostenere i referendum e di seguire le proposte di quanti, come Augusto Barbera, erano impegnati in quella direzione da anni, fino ad allora protagonisti impotenti a fronte dell’egemonia conservatrice. Lungi dal voler trasformare la nostra in una repubblica presidenziale, il progetto era quello di evolvere verso un regime parlamentare tipo Westminster in un contesto non bipartitico: il modello era la strategia riformatrice concepita dagli intellettuali progressisti del Club Jean Moulin in Francia (primo fra tutti Maurice Duverger) per superare la IV Repubblica, così simile all’Italia della c.d. Prima repubblica: riforma elettorale tale da permettere l’investitura virtualmente diretta del premier.
Ecco perché, quando il VI governo Andreotti pose per tre volte di fila la fiducia per impedire che le Camere, che stavano varando la riforma degli enti locali, votassero l’elezione diretta dei sindaci (a proposito di autonomia dei singoli parlamentari eletti con le preferenze!), i riformisti presero atto che la via parlamentare alle riforme era preclusa: e ripresero un’idea del costituzionalista bresciano Serio Galeotti, quella di ricorrere al referendum abrogativo ex art. 75 Cost. per incidere sulla legislazione elettorale, nel rispetto di limiti che la Corte costituzionale aveva già abbozzato. Un Comitato per il referendum elettorale fu allora costituito il 6 aprile 1990 con questa presidenza collegiale: Augusto Barbera (Pci), Antonio Baslini (Pli), Aldo De Matteo (Acli), Marco Pannella (radicale), Mario Segni (Dc: questi sarà eletto presidente con Barbera vice). Il Corel predispose i tre quesiti di cui abbiamo già detto. Fra i promotori, Corel a parte, c’erano accademici come Paolo Barile, Serio Galeotti, Enrico Galli Della Loggia, Massimo S. Giannini, Alberto Monticone, Angelo Panebianco, Pietro Scoppola, Salvatore Veca (e, nel suo piccolo, l’autore di questo articolo); fra i politici una ventina di deputati (Pci, Pli, Sinistra indipendente, radicali, Pri, Psdi), quattro senatori (meritano la citazione: Alfredo Diana, Nicolò Lipari, Gianfranco Pasquino, Gianfranco Spadaccia), neanche un socialista, i giovani leader della Fuci (fra cui Stefano Ceccanti e Giorgio Tonini). Significativamente i maggiori partiti, tranne i radicali, erano rappresentati da minoranze interne, variamente tollerate nella loro iniziativa dalle rispettive dirigenze in attesa di schierarsi successivamente.
Le ragioni del referendum
Un manifesto del neonato Partito democratico della sinistra (Pds) per la campagna referendaria del 1991 avrebbe pochi mesi dopo recitato: «Le preferenze alimentano tangenti e corruzione. Aboliamole». Era un testo un po’ tendenzioso: il «sì» non avrebbe “abolito” le preferenze ma le avrebbe ridotte ad una sola. Ma il senso dell’iniziativa era chiaro.
Si trattava certo del quesito, dei tre, con il più limitato impatto sul sistema partitico: secondo i malevoli questa sarebbe stata precisamente la ragione del via libera dell’allora prudente Corte costituzionale. Il fatto è che mentre la legge elettorale del Senato era una legge strutturalmente maggioritaria convertita in proporzionale dall’emendamento Dossetti, la legge elettorale della Camera era una legge strutturalmente proporzionale: non era proprio possibile abrogarne la sostanza salvo lasciare il sistema senza una legge che la giurisprudenza costituzionale considerava, a torto o a ragione, “costituzionalmente necessaria”.
Ciò detto, il significato della abrogazione delle preferenze multiple e dell’indicazione numerica del voto non era affatto irrilevante.
Bisognava ricordare che i partiti dell’epoca, specie Psi e massimamente la Dc, erano divisi in correnti interne strutturate come partiti autonomi, con proprie fonti di finanziamento e con propria organizzazione (giornali, sedi, minicongressi). Le preferenze multiple erano essenziali per perpetuare questo assetto e per esaltare la competizione interna, estesa al momento del voto. Era e resta questo uno dei due maggiori difetti del sistema italianissimo del voto di preferenza da esprimere nel quadro di più o meno ampie liste di partito: la competizione infrapartitica finisce col prevalere su quella interpartitica, minando la coesione e la leale collaborazione fra persone appartenenti formalmente alla stessa organizzazione politica; distorce inoltre il voto in entrata, specie laddove il suo ricorso è endemico, facendo prevalere le istanze personali su quelle programmatiche del partito.
L’altro micidiale difetto era quello denunciato dal manifesto Pds: il voto di preferenza impone campagne elettorali personalizzate di centinaia e centinaia, migliaia e migliaia di candidati e candidate, ciascuno messo nella necessità di procacciarsi le risorse per farla, con le quasi inevitabili conseguenze. A leggere le discussioni dell’epoca si scopre che ben prima di Mani pulite il tema della corruzione politico-amministrativa a fini di finanziamento di partiti e singoli era caldo: e le preferenze erano al centro delle analisi praticamente unanimi di politologi e sociologi.
Non basta: diversamente da quello che Berlusconi (anticipando Trump) avrebbe tentato per alcune settimana di dare a bere nel 2006, le nostre elezioni erano sempre state assai corrette. Ma, con un’eccezione: se il controllo reciproco fra rappresentanti di lista ai seggi, insieme ai rigorosissimi meccanismi incrociati dello scrutinio (chiunque abbia partecipato sa di cosa parlo), garantiva risultati ineccepibili nell’attribuzione dei voti di lista, per il computo delle preferenze le cose stavano diversamente, in particolare nelle zone del paese dove vi si faceva più ricorso (le differenze fra centro-nord e sud con la Sicilia sono sempre state clamorose). Spesso, dopo aver combattuto per ciascun voto di partito, si chiudeva un occhio sulle reciproche preferenze: tanto più che espresse anche numericamente era facile alterarle, per esempio aggiungendo un numero con la punta del lapis nascosta nell’unghia (il 2 diventava 12 o 21, per dire). Valanghe di atti delle Giunte per le elezioni delle due Camere nelle legislature fino alla XII lo attestano.
Gli effetti politici del referendum
Queste dunque erano le buone, quanto limitate ragioni del referendum sulla legge elettorale della Camera. Ebbene, gli effetti politici si sarebbero rivelati di ben maggiore impatto, dando la stura a un venticinquennio di battaglie per riformare le istituzioni politiche italiane.
Il 3 giugno 1990, un anno prima, si era votato per tre referendum ambientalisti: sulla caccia, sul diritto di accesso dei cacciatori ai fondi privati, sull’uso dei pesticidi, promossi da radicali, verdi, Pci, associazioni ecologiste ed appoggiati anche dal Psi. L’esito fu un numero travolgente di «sì» (fra il 92 e il 94%): ma per la prima volta non fu raggiunto il quorum di partecipazione (i votanti si fermarono al 43% circa). Era successo che le associazione dei cacciatori erano state le prime a capire che per far fallire un’iniziativa referendaria ormai giunta al voto, la strategia migliore per chi si sentiva in minoranza non era tanto fare una vana propaganda per il «no» quanto convincere gli elettori dell’opportunità di astenersi. Con tassi di partecipazione strutturalmente calanti, tanto più che tutti i referendum han sempre visto tassi di partecipazione inferiori rispetto a quelli delle elezioni, bastava sposta un 5-10% degli elettori verso l’astensione per avere eccellenti possibilità di rendere invalido il referendum ancorché sostenuto da decine di milioni di elettori (nel 1990 i «sì» erano stati quasi 18 milioni, ma non erano valsi a nulla).
Così una larga parte della classe politica, socialisti e Lega in testa, ricorsero a questa stessa strategia in vista del 9-10 giugno 1991: emblematico il famoso invito ad “andare al mare”, piuttosto che alle urne. La partecipazione, oltre il 62%, e i quasi 27 milioni di sì (il 96% di coloro che si recarono ai seggi) non segnalarono perciò solo che una gran parte dei cittadini erano contro la corruzione e a favore della preferenza unica, né solo che essi chiedevano più in generale quelle riforme politico-istituzionali che i partiti promettevano da un decennio senza farle, ma soprattutto che la parte conservatrice del ceto politico, fino ad allora maggioritaria, aveva clamorosamente perso il contatto con l’opinione pubblica. Una conferma si ebbe, poche settimane dopo, dal modo come reagirono, di fatto cestinandolo, al messaggio del presidente Cossiga per le riforme istituzionali. Nocquero certo i comportamenti fuori dalle righe del vulcanico sassarese (per cui molti riformatori finirono col respingere le sue ipotesi di riforma a prescindere): resta che quell’estremo appello all’autoriforma del sistema politico-istituzionale cadde nel vuoto, con conseguenze devastanti.
Il resto basta ricordarlo per cenni: mentre crollava l’Urss, in Italia finiva col VI governo Andreotti il pentapartito, la firma del trattato di Maastricht lanciava una sfida competitiva difficile da reggere all’Italia, il mondo delle imprese abbandonava i partiti tradizionali, la valanga delle inchieste giudiziaria sulla corruzione svelava le proporzioni del finanziamento illegale della politica mettendo sotto scacco l’intera classe politica, i referendari rilanciavano trionfalmente la loro strategia raccogliendo per i due modificati quesiti Senato e comuni milioni di firme, la mafia lanciava il suo attacco allo Stato, la lira subiva tracolli e svalutazioni: era la crisi del 1992-3 culminata col trionfo dei sì al referendum maggioritario per il Senato del 18 aprile (il Parlamento era riuscito invece a varare l’elezione diretta dei sindaci con la legge 81/1993 poche settimane prima). E con la fine del sistema dei partiti del Dopoguerra.
Trent’anni dopo…
Quel referendum limitato nei contenuti oggettivi, fu dunque l’avvio folgorante d’una stagione di riforme: riforme tentate, solo in parte minima realizzate e destinate a restare prima incompiute, poi addirittura ad essere in parte rovesciate.
La spinta riformatrice si esaurì infatti in pochi anni: lo segnalò un altro referendum, in un altro 18 aprile, quello del 1999, quando – complice il non aggiornamento delle liste degli elettori residenti all’estero – il quorum per l’abrogazione della parte proporzionale residua della legge elettorale fu sfiorato ma non raggiunto (votò il 49.58% degli elettori). La strategia referendaria era stata fermata sull’orlo del suo compimento. In ambito costituzionale, poi, non s’era fatto nulla (Commissione De Mita – Iotti, 1992-1994; Commissione D’Alema 1997-1998). Nel 2005 le leggi Mattarella furono abbandonate a sé stesse e sostituite dalla legge Calderoli, mentre nel 2006 un altro referendum seppellì la riforma costituzionale del centrodestra. L’ultimo tentativo, il più coerente ed omogeneo (proprio perché elettorale e costituzionale al tempo stesso), quello del governo Renzi promosso dal presidente Napolitano (con l’iniziale avallo di Forza Italia), è di soli cinque anni fa, e non c’è bisogno di raccontare com’è andata.
Ora sono trenta gli anni passati da quel giugno 1991: e si continua a giocherellare con le leggi elettorali, immaginate più proporzionali o più maggioritarie a giorni alterni. Intanto, l’Italia è un paese che da decenni non cresce, che è capace, al massimo, di fermarsi sull’orlo del precipizio quando le istituzioni europee e i mercati lo obbligano, un paese che non sa cambiare, paralizzato davanti al futuro, nel quale il riformismo continua ad essere velleità, nel quale gli strumenti politico-istituzionali per politiche coraggiose di lungo periodo nell’interesse generale semplicemente non esistono.
Così ci siamo periodicamente costretti a ricorrere alle alte tutele prestate dai nostri presidenti (Scalfaro, Napolitano, Mattarella), divenuti i titolari ultimi dell’indirizzo politico della nazione e indotti a ricorrere governi di salute pubblica: Ciampi, Dini, Monti, Draghi. Solo grazie a queste surroghe si riesce ad andare avanti più o meno stentatamente: del resto la politica conta meno di un tempo (e non è un male) e le scelte chiave si fanno in sede di Unione Europea (ed è un bene).
Una cosa, però, mi pare certa: non era quello che avevano in mente gli elettori del sì del giugno 1991 e tanto meno i volenterosi che si erano presentati in Cassazione a depositare i quesiti per rendere maggioritari i nostri sistemi elettorali e permettere così ai cittadini di decidere col loro voto da chi farsi governare. Che di questi tempi a questo obiettivo si irrida, un giorno sì e l’altro pure, quasi fosse una specie di assurda idiozia, dice tutto.
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