Il riformismo non è la politica del "meno peggio" - Fondazione PER
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Il riformismo non è la politica del “meno peggio”

di Enrico Morando

 

Si sta facendo una gran confusione tra riformismo e pragmatismo. Fino al punto di ridurre il primo alla ricerca del “meno peggio“. Vorrei provare a discuterne, partendo dai dati reali (“il riformismo  è la capacità di guardare in faccia ai fatti e di differenziare l’analisi“ Bettini Linkiesta 30-7-2020) della situazione italiana.

 

Pragmatismo e ideologismo

Per rendere produttivo l’esercizio, sarà bene uscire preliminarmente da un equivoco: un atteggiamento pragmatico -l’attitudine a guardare con il massimo di distacco possibile ai dati della realtà, al fine di approfittare di ogni occasione si presenti per il perseguimento del proprio scopo- può essere proprio sia dei riformisti, sia degli estremisti massimalisti. Così come lo è stato dei comunisti: Togliatti era un convinto sostenitore dell’alternativa di sistema al capitalismo, ma è difficile trovare nella vicenda italiana del novecento un leader politico altrettanto realista e capace di adattare pragmaticamente la propria iniziativa al mutare del contesto e dei rapporti di forza, nella società e nelle relazioni tra le forze politiche.

E, già che ci siamo, lasciamo perdere anche le reciproche accuse di ideologismo: le ideologie ben intese hanno avuto e conservano grande fecondità, perché forniscono a chi ne assuma criticamente una a proprio riferimento un punto di vista sulla realtà, senza il quale l’iniziativa politica finisce per ridursi a movimentismo sconclusionato; e una chiave interpretativa utile anche per lo sviluppo del confronto/conflitto politico-culturale tra e nei partiti (un esempio per tutti: le attuali correnti interne al PD, che nascono e muoiono sulle carriere di capi e capetti, sono assolutamente imprevedibili nel loro comporsi e scomporsi, proprio perché prive di qualsiasi riferimento ideologico).

 

All’origine delle nostre difficoltà economiche

Detto questo, guardiamola in faccia questa realtà italiana: da quasi trent’anni la nostra economia perde terreno rispetto alla media dell’area Euro (ne ho lungamente scritto nel libro curato da Claudia Mancina per la Fondazione PER “Il futuro è della sinistra liberale“). Poiché all’origine di queste difficoltà economiche -a loro volta causa ed effetto di diffuse sofferenze sociali e di crescente disuguaglianza- c’è il cattivo andamento della produttività (in buona sostanza, la capacità del sistema di produrre cose e servizi che siano appetiti dai consumatori, combinando capitale, lavoro e materie prime)…

E poiché a determinare questo deficit di produttività contribuiscono in modo determinante la decrescita demografica, l’arretratezza tecnologica di larga parte delle nostre imprese, le insufficienti performance delle infrastrutture materiali (reti stradali, energetiche, delle telecomunicazioni) e immateriali (giustizia, istruzione, istituzioni pubbliche), non abbiamo alternative: o il cambiamento radicale, in tutti questi campi, o il declino (a questo punto, neppure troppo lento). La pandemia aggrava ognuno di questi problemi. Ma nessuno di essi si è creato a causa della pandemia stessa.

 

Il compito dei riformisti e le radici del populismo

Il compito dei riformisti discende da questa difficile “realtà“. Esattamente come in questa realtà -anche a causa della storica debolezza e delle divisioni dei riformisti italiani- affonda solide radici il populismo. Quello di destra e quello di sinistra. Diversi per motivazioni, radicamento e obiettivi -diversità che sarebbe stupido, da parte dei riformisti, ignorare o addirittura nascondere-, essi sono tuttavia simili (uniti? A volte) su di un punto fondamentale: perennemente alla ricerca di “colpevoli“ cui imputare gli aspetti sgradevoli della realtà, essi privilegiano il brevissimo termine, e rifiutano il tempo lungo delle soluzioni “strutturali“: Quota 100, la revoca delle concessioni autostradali… Ecco le loro risposte “giuste“, non la legge Fornero, l’APE social e la “gronda“ di Genova.

Non è vero che -negli anni che ci stanno immediatamente alle spalle, dal primo governo Prodi fino ai governi di Letta, Renzi e Gentiloni- non si siano realizzate riforme “vere“, in campi anche molto rilevanti.

 

È mancata una lunga e stabile stagione di governo riformista

È vero però che i riformisti italiani non sono mai stati in grado di dar vita ad una lunga e stabile stagione di governo riformista, secondo la sequenza: progetto di cambiamento, costruzione sullo stesso di attivo consenso popolare, vittoria elettorale, governo per l’attuazione del progetto, ricandidatura, nuova vittoria elettorale…

Ed è vero che, alla fine, fuori da questa sequenza, sono sempre stati i conservatori a prevalere: sia perché il cambiamento necessario mobilita, subito e massicciamente, quanti si sentono minacciati nelle loro piccole o grandi rendite di posizione, mentre resta a lungo passiva la grande maggioranza dei cittadini, che potranno domani -ma è un domani spesso lontano- godere dei buoni frutti della riforma. Sia, soprattutto, perché le riforme una ad una, senza una visione -e una leadership individuale e collettiva (il partito riformista a vocazione maggioritaria), che la elaborino e la incarnino in un continuo confronto coi cittadini, per suscitarne l’impegno-, possono magari incontrare un diffuso consenso (lo hanno fatto il Jobs Act e la riduzione strutturale dell’Irpef sul lavoro dipendente a reddito basso), ma non “scaldano i cuori“ e non indicano una meta per cui valga la pena spendersi.

 

La sequenza virtuosa: partito riformista, vocazione maggioritaria, progetto di governo

Per innescare la sequenza virtuosa, non ci sono scorciatoie: partito riformista a vocazione maggioritaria, che seleziona la leadership e la linea con l’intervento -attivo e decisivo- di milioni di elettori (si sceglie il leader del Paese, non solo del partito); libro bianco (vedi Michele Salvati nel libro già citato) sui problemi del Paese, da cui trarre, sulla base di una chiara  “visione” del suo futuro, un coerente progetto per il governo, da conquistare in una dura competizione con i conservatori e i populisti.

“Liberalismo massimalista appeso al nulla“, che metterebbe i riformisti, “fuori dal corso dell’odierna fase storica“, perché nel 2008, con Veltroni “si impiantò nella società italiana un grande partito a vocazione maggioritaria…“, mentre “oggi non è così“?

Sinceramente, penso sia vero il contrario: se il PD -l’unico partito riformista che può credibilmente nutrire l’ambizione ad essere partito a vocazione maggioritaria- trasforma il contingente stato di necessità (un governo col M5S, diretto dal capo del governo Salvini-Di Maio, per impedire il precipizio verso i “pieni poteri“ di Salvini), in una scelta strategica, e progetta di delegare ad altri la “rappresentanza dell’elettorato riformista e moderato, oggi disperso e senza guida…“, c’è il rischio che l’esigenza di cambiamento del Paese resti per lungo tempo senza un interprete credibile.

Vorrei essere chiaro: penso che sia stato giusto dar vita al Governo giallorosso e che sia indispensabile l’impegno dei riformisti per far sì che esso completi la sua esperienza e ottenga i migliori risultati per l’Italia. Ma penso che questi risultati saranno molto al di sotto del minimo indispensabile se il PD e IV -i riformisti della coalizione di governo- si priveranno (e priveranno gli italiani) di un progetto politico che collochi l’attuale esperienza in un orizzonte strategico che la superi, anche attraverso un riequilibrio degli attuali rapporti di forza parlamentari ed elettorali, tra M5S e PD.

 

Nessuna salvezza fuori dall’Europa

Che le cose stiano così, è dimostrato proprio dalla cocciuta realtà… dei fatti. Dov’è che, nel passaggio tra Conte uno e Conte due, si è ottenuta una svolta netta, compresa come tale da tutti gli italiani (che la giudicassero positiva o negativa) e dagli osservatori di tutto il mondo? La risposta è facile ed immediata: in tema di rapporto tra Italia e Unione Europea. Esattamente il tema sul quale il posizionamento del PD e dei riformisti italiani è più netto ed ha rilievo strategico: nessuna salvezza fuori dall’Europa. Che nel M5S le resistenze fossero formidabili, è reso ancora oggi evidente dalla imbarazzante vicenda della richiesta dei fondi MES per ristrutturare il sistema sanitario nazionale. Ma queste resistenze sono state vinte -e, alla fine, lo saranno anche sul MES-, perché anche i dirigenti del M5S sapevano che il PD “non poteva“ dar vita ad un governo che  contraddicesse la sua natura di Partito europeista. Nessun altra delle questioni in campo -con l’eccezione del tema “prescrizione mai“- aveva ed ha un carattere altrettanto strategico.

È stato dunque giusto, su altri temi, accontentarsi anche del “meno peggio“. Che non c’entra col riformismo, ma va tenuto in grande considerazione, quando non si ha il pallino del gioco in mano. Ma questo non può e non deve diventare l’orizzonte strategico dei riformisti. Non per compiacere se stessi e il loro “riformismo ideologico“, ma per non privare il Paese anche della speranza.

 

Ma il “meno peggio” non basta

Quanti legittimamente sostengono la linea della “alleanza strategica“ PD-M5S dovranno meglio delinearne le architravi, oggi piuttosto precarie. Da un lato, essi “guardano ad una alleanza tra partiti che, con una legge proporzionale e uno sbarramento del quattro o cinque per cento, abbiano la possibilità di esprimere pienamente di fronte agli elettori le loro caratteristiche, i loro ideali, i loro valori, la loro idea dell’Italia (…) e dopo il risultato elettorale siano predisposti ad un compromesso di coalizione, più trasparente, onesto e motivato“. Dall’altro, affermano che “la popolarità che ha conquistato Conte e il suo rapporto con la maggioranza degli italiani, sono il punto di partenza per ogni ricerca di una leadership della coalizione, rappresentativa e inclusiva dell’insieme delle forze che intendono collaborare“.

È evidente che le due cose, insieme, non stanno: o si vuole un sistema in cui ogni partito va di fronte agli elettori “libero“ da vincoli di coalizione, raccoglie quello che raccoglie in termini di consenso e poi lo usa -dopo il voto- per tentare di dar vita ad una maggioranza e ad un governo… O si vuole un sistema in cui le coalizioni sono, appunto, frutto di “ intese strategiche“ di lungo periodo e si propongono come tali agli elettori, che a quel punto -con un unico voto- si esprimono sia sulla rappresentanza, sia sulla formazione del governo.

Nel primo caso, la costruzione preventiva di una leadership di coalizione, che incarna davanti agli elettori il compromesso politico-programmatico raggiunto dai partiti che la compongono, è una contraddizione in termini, perché impedisce di fatto ad ogni partito di presentarsi credibilmente con “i suoi ideali, i suoi valori, la sua idea di Italia“. Nel secondo caso, con l’individuazione preventiva della proposta di premiership, si vincola ogni partito che la condivida ad una proposta di governo, precisa sia nella sua guida, sia nel suo programma (non c’è leadership comune credibile se non c’è programma comune).

Nella scelta tra l’una o l’altra strategia tutto dipende dalla legge elettorale, proporzionale o maggioritaria? No. La legge elettorale ha un grande rilievo, e resto convinto che sarebbe un gravissimo errore, per i riformisti italiani, imporre in questa legislatura l’approvazione di una legge elettorale proporzionale che l’intero destra-centro avversa, che vanifica decenni di impegno politico (e di esiti referendari), e contraddice tutti i programmi del centro-sinistra nelle sue varie forme. Ma il tema che sto discutendo va oltre quello della legge elettorale: nei Paesi -come la Germania- con legge elettorale proporzionale e sbarramento alto i partiti vanno effettivamente “liberi“ al voto, propongono agli elettori il loro candidato cancelliere (di diritto o di fatto, il loro leader) e, dopo il voto, quelli che danno vita ad una coalizione decidono -come cosa ovvia- che a guidarla sia il candidato cancelliere del partito che ha ottenuto più voti.

 

Serve un partito a vocazione maggioritaria

Dunque -proporzionale o maggioritaria che sia la legge elettorale- il nodo che va sciolto con chiarezza è quello circa la natura del partito dei riformisti: partito a vocazione maggioritaria, che costruisce alleanze attorno alla sua “visione“ sul futuro del Paese e, quindi, alla sua leadership; o partito che si concepisce come uno dei numerosi partiti di una coalizione che, al suo interno, predica e pratica la teoria della divisione del lavoro tra i membri della coalizione stessa? E per questo auspica che i moderati (?) diano vita a partiti “grandi e unitari…“?

Non si giunge a sciogliere questo nodo se si guarda soltanto a ciò che oggi-con questa strana alleanza PD-M5S- si può concretamente ottenere. Tutti dichiarano di apprezzare le parole di Draghi: “… I sussidi servono a sopravvivere, a ripartire. Ai giovani bisogna però dare di più: i sussidi finiranno e resterà la mancanza di una qualificazione professionale, che potrà sacrificare la loro libertà di scelta e i loro redditi futuri“. Ecco. La formazione del Governo giallorosso ha impedito che l’Italia a trazione Salviniana si autoprecipitasse fuori dall’Europa. È stato dunque giusto perseguire con tenacia il male minore. Ma, in prospettiva, mentre cerchiamo di dare un senso anche ai banchi con le ruote, abbiamo l’obbligo di un progetto politico che riapra una concreta speranza di soluzione dei problemi che appesantiscono da decenni il nostro cammino. I giovani meritano il bene. Non solo il meno peggio.

Enrico Morando
morando@perfondazione.eu

Presidente di Libertà Eguale. Viceministro dell'Economia nei governi Renzi e Gentiloni. Senatore dal 1994 al 2013, è stato leader della componente Liberal dei Ds, estensore del programma elettorale del Pd nel 2008 e coordinatore del Governo ombra. Ha scritto con Giorgio Tonini "L'Italia dei democratici", edito da Marsilio (2013)

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