Il Southern Range d’Europa: un vero Piano per la transizione energetica e del lavoro - Fondazione PER
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Il Southern Range d’Europa: un vero Piano per la transizione energetica e del lavoro

di Adriano Giannola

Natura e struttura del PNRR

Il Piano Nazionale  (PNRR) è una riedizione dell’ intervento straordinario applicato al Paese per un lasso di tempo straordinariamente breve. Privo di strumenti straordinari, soggetto a controlli puntuali e stringenti, il rischio -già realtà- è di dover fare ampio ricorso a decretazioni di urgenza e commissariamenti, cioè alla peggiore straordinarietà possibile.

Dopo quasi due anni di ottimistiche celebrazioni, matura l’urgenza di individuare priorità che diano un nerbo strategico alla sua attuazione, per evitare che si risolva in una burocratica allocazione di fondi guarnita di decine di micro “reforms” affidate a più o meno evanescenti “autorità di missione”.

In un sussulto di consapevolezza, il decreto legge annuciato dal Ministro Fitto il 16 febbraio prevede l’accentramento della governance dei fondi europei e risponde all’ urgenza di por mano a integrazioni e aggiustamenti nei percorsi operativi annunciando, auspicabilmente, una narrazione che chiarisca priorità, percorsi ed obiettivi di un Piano Nazionale degno di questo nome.

A preoccupare è il riconscimento dello stato confusionale nel quale versa la gestione delle politiche di coesione e del pachidermico PNRR. Lo scorso 15 Febbraio, nel Consiglio dei Ministri, il Ministro conclude la Relazione sullo stato di attuazione della politica di coesione europea e nazionale affermando che “Gli esiti dell’analisi delle precedenti sezioni rappresentano…. un quadro molto lontano dalle aspettative, che impone un ripensamento del sistema di governance della politica di coesione, per rafforzare in modo effettivo e tempestivo l’azione di impulso, coordinamento e governo strategico e attuativo dei fondi”.

Il filo conduttore di una seria azione di progetto e di programma investe il tema di fondo di esplicitare una ben precisa strategia che affronti la sfida multidimensionale della transizione, a partire dall’ emergenza energetica, che va accortamente calibrata su un plausibile percorso sostenibile che superi slogan codificati (smart e green, tra tutti) di cui sono impregnati le miriadi di interventi dello scatolone progettuale del PNRR.

Si impone la necessità di dare un’anima a un Piano Nazionale che è tanto imponente quanto non ambizioso, strategicamente amorfo, strutturato in miriadi di adempimenti (le reforms) che preludono a una manutenzione straordinaria (appunto smart e green)  dell’ esistente più che alla doppia esigenza di imprimere un mutamento radicale alle dinamiche del Sistema Paese e -non secondariamente- al delicatissimo tema della coerenza tra la transeunte straordinarietà e una ordinarietà che consenta di essere adempienti alle condizionalità poste dall’ Unione.

A ben vedere, due sono i fondamentali pilastri sui quali poggia la breve stagione di questa straordinarietà.

Il primo, essenzialmente perequativo, (riduzione delle disuguaglianze, promozione della coesione sociale) rinvia ai diritti di cittadinanza: istruzione, salute, mobilità locale (art. 117…) da recuperare, invertendo decenni di progressivo deterioramento.

Il secondo pilastro, essenziale per ridare fiato al Grande malato d’ Europa ed agli intenti perequativi, rinvia all’ indispensabile compito di avviare interventi di struttura, finalizzati a innescare una “modernizzazione trasformatrice” capace di aprire una stagione di sviluppo del Paese, senza la quale il PNRR-manutentivo rappresenterà, bene che vada,  un fuoco fatuo; un illusorio fuoco di paglia. 

La finalità perequativa del primo pilastro non si esaurisce certo nella equivoca guerra sulle quote minime al Sud. La “quota 40%” per il Sud va in realtà letta più come vincolo, un “tetto” alle pretese di uniformità dei diritti sanciti dalla Costituzione e da una legge di attuazione, la 42 del 2009.

Su questo aspetto va detto:

a. L’ allocazione delle risorse a fini perequativi su istruzione, sanità, mobilità territoriale è responsabilità del Governo Centrale.

b. E’ assolutamente improprio che per assegnare risorse a tutela di diritti fondamentali dei cittadini, si faccia ricorso a “bandi competitivi” tra istituzioni che li rappresentano.

Quanto al conseguimento degli obiettivi individuati  (progetti, esecuzione) rimane la responsabilità del Governo di operare, se necessario, per default in armonia con il criterio di sussidiarietà -orizzontale e verticale- categoria cardine dell’ Unione recepita in Costituzione (artt. 118 e 120) se necessario attivando forme istituzionalmente previste quale la molto declamata e poco praticata “terza missione” con la quale enti come Università, Politecnici, CNR, ecc. contemplano in Statuto la “cura” del territorio (La perequazione delle dotazioni fisiche -presupposto dei diritti (scuole, ospedali, ecc.) promosse dalle “risorse straordinarie” investe la politica “ordinaria” di bilancio per il funzionamento e la manutenzione che non può che attingere ai mai attuati fondi perequativi pervisti dall’ art. 119 e contemplati dalla legge di attuazione 42/2009. Dovrebbe essere evidente che l’inosservanza ormai ventennale di questi principi sterilizza -per il tempo necessario alla perequazione- ogni pretesa di “autonomia rafforzata”, come recita l’ ultimo comma dell’ art. 116 Cost che la condiziona “all’ armonia con quanto previsto dall’ articolo 119 Cost.”).

Il fatto che la pratica dei cosiddetti bandi competitivi segua un percorso opposto evidenzia quanto sia ideologica, non casuale l’adozione di un modello fondato sull’ assioma dello Stato “arbitro” e non “regista”. Il che rappresenta un serio ostacolo affinché l’intervento straordinario del Piano Nazionale produca quel cambiamento di rotta per realizzare il quale non si può sfuggire dal definire una chiara individuazione sul “che FARE”.

Alla strategia del FARE è fortemente collegato il secondo Pilastro cui spetta la responsabilità di realizzare non la Ripresa, bensì una Rinascita adeguata a generare con il flusso di risorse del novellato intervento straordinario lo sviluppo e la sostenibilità prospettica della perequazione economica e sociale.

La necessaria premessa su questo versante è condividere l’urgenza di intervenire sul decadente post fordismo della nostra specializzazione flessibile che – fino a venti anni fa- celebrava presunte virtù del “modello di sviluppo italiano”. Dovrebbe essere oggi più che evidente che continuare a coltivare l’integrazione mitteleuropea perseguita dal Centro-Nord, con rendimenti rapidamente decrescenti, sollecita con determinazione all’ impegno di tornare protagonisti nel Quasi Oceano Mediterraneo, piazza strategica della globalizzazione che ci ha visto progressivamente disintermediati e scandalosamente assenti.  Abdicare a quel ruolo equivale a rinunciare ad una enorme “rendita posizionale”, tanto più oggi che il cumulo delle emergenze belliche ed ambientali rende la dimensione Euro-mediterranea centrale, a conferma che per cogliere le reali opportunità  occorre svegliarsi dal sonno ultratrentennale.

Piano del Lavoro e transizione

Gli eventi impongono di ragionare se e come sia possibile affrontare e volgere in positivo le emergenze ormai così inestricabilmente interconnesse mettendo a frutto le opportunità storicamente trascurate.

Il tema della transizione, sintetizza, in tutte le sue sfaccettature, sia il peso delle nostre assenze che la ricchezza delle prospettive. La specificità della transizione energetica resa emergenziale dalla guerra in Europa rinvia alla nostra peculiarità di bene posizionale. Una prospettiva “ottimale” tanto più fertile quanto più la si interpreti per porre rapidamente il Paese sui binari di un duplice strategia di innovazione logistica ed intermodale che consente di cogliere immediatamente il vantaggio dell’Italia, attivando un processo evolutivo il cui spazio è cogentemente desumibile dall’ obiettivo di decarbonizzazione integrale dell’UE da realizzare alle scadenze del  2030 e del 2050. 

Da questo punto di vista il nostro -finora inespresso, per non dire represso- vantaggio non ha stimolato una progettualità tesa a tradurlo da nozionale ad effettivo come sarebbe logico attendersi, né tantomeno ha alimentato una corrispondente ambizione di governare una transizione sostenibile che riporti il Paese da ospite a protagonista nel Quasi Oceano. 

Questa esigenza prioritaria andrebbe tradotta in un progetto pubblico-privato che si proponga di affrontare la drammatica e lacerante “questione sociale e demografica” del grande malato d’ Europa. Farvi fronte richiede di imprimere allo scatolone manutentivo del pachidermico PNRR una drammatica selettiva semplificazione e accelerazione su un preciso percorso con il quale affrontare la priorità di ottimizzare l’ uso delle risorse fossili, lo sviluppo delle fonti energetiche rinnovabili, il controllo delle emissioni inquinanti all’ interno di un quadro di sostenibilità ambientale  strumentale al rilancio dello sviluppo finalizzato a realizzare in automatica, fortissima complementarità la strutturazione -da protagonisti- di un Southern Range Euro-mediterraneo. Tutto ciò prefigura l’avvio di un vero Piano del Lavoro ispirato nei suoi obiettivi alla condivisione di quello proposto negli anni della ricostruzione post-bellica (Il Piano del Lavoro adotta la prospettiva analitica che si rifà alla storica impostazione della cosiddetta politica attiva dell’offerta che alimenta un intervento strutturale di sviluppo. A suo tempo Saraceno argomentò che l’approccio è sostanzialmente diverso -al di là di una superficiale apparenza- alla keynesiana politica attiva della domanda finalizzata a intervenire in chiave anticiclica. Una distinzione della quale Saraceno rivendica l’origine nei contributi di Rathenau, Hilferding e della scuola storica tedesca. che egli adottò e tradusse nell’ approccio keynesiano all’ economia dell’offerta (Infrastrutture e Industrializzazione) che caratterizzò l’ intervento straordinario della Cassa per il Mezzogiorno).

Iniziare questo percorso del FARE immediatamente esplicitato nel Piano del Lavoro richiede di incidere su scelte e soluzioni, di prioritaria rilevanza per l’UE (tema assente nel PNRR), di superare l’ottica della manutenzione straordinaria smart e green, di riqualificare l’esausta specializzazione flessibile in armonia con le condizionalità UE, per arrestare il “doppio divario” Nord-Sud e Italia-UE e fare fronte alla desertificazione che la demografia del Mezzogiorno annuncia al Paese.   Lanciare un PNRR al governo di un “progetto” pubblico-privato saldamente orientato, innovativo per incisività ed efficacia replica l’impegno e la cogenza degli anni ’50 assumendo il compito di vincere la sfida posta dall’ emergenza sociale  là dove essa è già ai livelli di guardia.

Dal punto di vista metodologico, l’opzione del piano del lavoro è la risposta, saggia e preliminare, a strategie -temo sterili- delle cosiddette politiche attive del lavoro alla cui assenza o inefficacia si usa impropriamente addebitare l’amara e certificata incapacità di creare occupazione complementando misure di contrasto alla povertà (male o ben congegnate che siano). 

L’ ormai lunga esperienza del caso italiano conferma che per sua natura il modello di politiche attive è geneticamente destinato a raccogliere ben magri risultati, se non il fallimento nella misura in cui ci si affanna a favorire “l’incontro tra domanda e offerta” in un mercato nel quale è ex ante impossibile trovare un equilibrio a condizioni socialmente sostenibili. Senza l’apporto di un qualificato e saggiamente amministrato Piano, quel mercato resterà in squilibrio strutturale permanente. E’ una evidenza che l’esperienza somministra da anni nei quali la filosofia ha imperversato con almeno tre riforme del mercato del lavoro meglio definibili come “svalutazioni interne”, sostitutive dell’impossibile manovra del cambio tanto cara e preziosa per continuare a credere di rianimare il peculiare nostro post fordismo. E’ surreale che si lamenti oggi la “povertà” dell’Italia laddove questo esito è stato efficacemente perseguito dapprima con la flessibilità, poi la precarietà, spacciate per conquiste che ci hanno fatto approdare infine alla occupazione povera. 

Fedele al principio Hirschmaniano di una cosa che conduce a un’altra il Piano va scandito per innestare la reazione a catena di un progetto pubblico-privato che presieda all’ indispensabile mutamento strutturale del Sistema secondo linee, accantonate da anni, oggi evidenti, che guardano -e non possono che guardare- a un Mediterraneo anche esso da trasformare.  Mettere a norma le ZES del Sud e le ZLS del Nord con le aree doganali intercluse, realizzare le indispensabili bonifiche, le necessarie implementazioni infrastrutturali (che non richiedono grande fantasia) organizzare come è doveroso fare un Cluster strategico significa agganciare Augusta-Catania al quadrilatero del Sud continentale e alla sequenza di scali che da Gioia Tauro risale le coste adriatiche e tirreniche fino a Genova e Trieste nel quasi oceano mediterraneo del re-shoring della globalizzazione: mentre tramonta il Drang nach Osten tedesco, si rende agibile -direi si impone- di orientare a questo prospettiva la potenza di fuoco del  PNRR e del fondo complementare. Un’ impresa ampiamente possibile a condizione di svegliarsi rapidamente per porre le fondamenta di un Southern Range articolato nei cluster di porti, ZES e ZLS.

Dunque è urgente passare ai FATTI e dare rapida attuazione a un progetto pubblico-privato segnato da una precisa sequenza di interventi infrastrutturali, logistici, normativi.

Simili fantasie non risultavano pervenute fino a ieri al Ministero della transizione e -ancora meno- a quello della Mobilità sostenibile: due omissioni che se non smentite dal nuovo governo, equivalgono a una rinuncia.

La salutare, necessaria inversione, (il rovesciamento della prassi  di Gramsci-Bordiga), potrà accadere solo all’ insegna di una logistica che muove proprio dalla scala nazionale come un fondamentale tratto della transizione e che sostituisce già ora, nella indispensabile provvisoria continuità del regime fossile, al “vettore strada” il “vettore mare” iniziando dall’ apertura di due corridoi nazionali costieri mediterranei integrati da corridoi  orizzontali terrestri (stradali e ferroviari) per chiudere con l’ algoritmo ottimale i tanti ultimo miglio allo sbarco. Due-tre anni sono il tempo necessario per sperimentare, attrezzare, rodare l’avvio dei corridoi marini in contestuale sincronia alla definizione -già matura- di rapporti tra armatori, autotrasportatori, Ferrovie, ecc. con il corredo di incentivi, norme premiali idonee al decollo -peraltro già iniziato- di questa enorme e innovativa transizione sociale oltre che energetica ed ambientale che,  in costanza di regime fossile, inaugura un percorso di fase ottimale.

Fin da ora è possibile stimare il differenziale (tonnellate di CO2, Gas, Petrolio per tonnellata/kilometro e polveri sottili) a pari movimentazione di persone e soprattutto merci, così da valutare come la transizione di regime logistico consenta una contestuale transizione energetica a parità di fonte primaria, con l’ effetto di garantire e soprattutto anticipare il conseguimento del’ obiettivo 2030 anche in carenza del contributo incrementale delle energie rinnovabli, l’ altra strada maestra che deve accompagnare la marcia della rivoluzione logistico-intermodale (geotermia in primis!).

L’ attenzione a valutare l’impatto di sostenibilità-contabile -ambientale di una tale scelta non ha finora trovato riscontro nel PNRR, laddove il progetto dovrebbe comparire come un essenziale aspetto del FARE. Il disegno di attrezzare la logistica Nord-Sud del Paese e di consolidare il vantaggio sarebbe fortemente favorito dal poter avviare la radicale trasformazione di Sistema beneficiando immediatamente del supporto tecnico-finanziario di una UE attenta alla prospettiva di un’offerta di servizi fatalmente sostitutivi delle molte rotte “insostenibili” che hanno dominato e tutt’ oggi dominano approdando al Northern Range  in virtù della nostra conclamata incapacità competitiva.

Che si realizzi questo auspicio non solo è plausibile ma potrà essere reso inderogabile via, via che si fa più stringente il vincolo della decarbonizzazione e il parallelo ridimensionato Drang Nach Osten.

Strumenti prioritari del FARE sono dunque quelli che immediatamente sfruttano gli spazi operativi di ottimizzazione nell’ uso delle fonti fossili ai fini della transizione energetica: il loro impatto sullo sviluppo viene colpevolmente sottovalutato così come, nel Paese e specie nel Mezzogiorno, non si valuta appropriatamente l’urgenza  di varare un piano del lavoro che investa  la più vasta area di “disagio sociale” dell’ Unione.

Realizzare rapidamente al Sud l’indispensabile complemento strutturale della rivoluzione logistica dopo trenta e più anni di colpevole, ghettizzante e consapevole inerzia implica un deciso intervento sulle priorità del PNRR che mentre alloca 500ml€ (con la fondata previsione di superare 1mld€) per la diga foranea del porto di Genova, ha finora opposto assoluto ostracismo alla “bella idea” delle autostrade del mare.

Mettere a sistema con un progetto organico Augusta, Pozzallo, Gioia Tauro, Taranto, Bari, Napoli, Ravenna, Civitavecchia, Livorno, Savona, ecc, ecc con una spesa pari o inferiore al miliardo, imprimerebbe un deciso cambio di rotta e contribuirebbe all’ impegnativo intento di non rimanere ospiti ma protagonisti nel Mediterraneo.

Dal PNRR al PNRRH

L’Italia è la quasi isola con oltre 8.000 km di costa, con una dotazione diffusa di porti, armatori e autotrasportatori. E’ naturale che l’opportunità di interpretare la transizione dedicando particolare attenzione all’intermodale marittimo costiero risulti un modello condizionante e finanche risolutivo nella transizione. Un modello che asseconda una evoluzione naturalmente coerente alla problematica dimensione ecologica, da accompagnare, accelerare e governare incentivando sotto molteplici aspetti l’adesione degli operatori a questo processo di sviluppo dell’intermodalità ferro-strada-mare. Una prospettiva peraltro ampiamente sostenuta dalle politiche ambientali e dei trasporti dell’UE, che da tempo ha un programma finalizzato alla creazione di Corridoi Intermodali Marittimi Costieri tra porti gateway (grandi e medi) su un impianto di linee (rotte costiere) da porto a porto.

Promuovere l’intermodalità fin da subito è in sintonia con l’ obiettivo di abbattimento drastico delle emissioni e la significativa riduzione dei fabbisogni di energia fossile grazie al decollo del Southern Range euromediterraneo iniziando dall’ offrire servizi con linee regolari ad alta frequenza Ro-Ro dapprima nei collegamenti tra porti della penisola da estendere rapidamente alla rete delle relazioni mediterranee. In questa prospettiva l’Italia, naturalmente prima nel settore intermodale ferro-mare-gomma, conta primari operatori a livello internazionale che rappresentano la prima industria del Mezzogiorno.

Lo sviluppo di un programma di transizione intermodale sulle brevi, medie e lunghe distanze (300 – 1.000 km) può realizzarsi in tre-cinque anni con un significativo passaggio dal tutto-strada sia all’intermodale strada-mare, che al ferro-mare, una dimensione quest’ ultima per la quale occorre  superare la vexata quaestio del ponte, necessario per dar vita al mitico corridoio uno Helsinki-Malta e realizzare il sistema metropolitano calabro-siciliano con la capitale dello Mediterraneo, nonché indispensabile  per attivare il sistema portuale della ZES di Augusta-Catania cardine fondamentale che attende dalla rivoluzione logistico-modale la progressiva messa a valore dei suoi tratti di eccellenza: gli enormi spazi disponibili per il new manufacturing da insediare nell’ area doganale interclusa del primo approdo in Europa per gli sbarchi da Suez.

Il flusso di traffico stradale dalla lunga percorrenza si concentrerebbe prevalentemente nel first e last mile nell’ordine dei 100 km, sottraendo alla rete stradale una pressione che usura e danneggia le infrastrutture con una previsione di minori spese di manutenzione che attualmente sono dell’ordine di due mld€ per anno.  Gli incentivi tariffari connessi alla scelta intermodale di elevata frequenza multiporto costiero consentono altresì di sostituire il costoso modello attuale fortemente sussidiato, della cosiddetta continuità territoriale.

L’ intervento infrastrutturale è un aspetto essenziale per attrezzare idonei terminali dedicati a funzioni logistiche evolute da ubicare non all’interno delle aree portuali di antico impianto, ma in ampie aree prossime ai porti con raccordi esclusivi di accesso e deflusso sia nelle Zone Economiche Speciali del Sud e quelle a Legislazione Semplificata del Centro-Nord. Entrambe, istituite ormai da oltre quattro anni ancora stentano a decollare per carenza di strategia nazionale e debolezza di governance: su questo ambito più che negli interstiziali labirinti delle reforms il Governo dovrebbe lavorare e, tramite il PNRR mettere le basi per una decisiva innovazione di sistema.

Attrezzare terminal, provvedere alle bonifiche, riattare aree industriali dismesse, raccordi ferroviari, scali merci inutilizzati sono un immediato oggetto di un “piano del lavoro” che rigenera, riconverte siti a funzioni logistiche di elevato valore e in parallelo provvede alla digitalizzazione degli itinerari, delle operazioni di carico e scarico e ottimizza la gestione dei tempi tra origine e destinazione da considerare come input value adding dei processi logistici.

L’ impulso all’intermodalità dà un sostanziale contributo  all’ attivazione progressiva del Southern Range e al cambiamento di rotta per il Paese, attualmente tra i meno green in Europa e a lungo restio a considerare il ruolo strategico dell’economia del mare, il che impone di recuperare con il tempo perduto, lo spazio lasciato sguarnito. La  svolta verso una mobilità alternativa al dominante trasporto mono-modale stradale è un’ impegnativa priorità da inserire in evidenza nell’ agenda  del PNRR, del tutto compatibile con l’Hirschmaniana logica sequenziale indispensabile  per mettere pienamente a frutto vantaggi consistenti e lungamente trascurati, per il grande impatto sull’ adempimento dei “compiti a casa” del 2030 e del 2050 e perché abilita il Paese non solo al governo attivo della “transizione” ma rende possibile la costruzione del Southern Range con una rapidità che (nonostante  due anni già sprecati) rientra ancora nei tempi del PNRR. 

Il Southern Range, la via breve alla transizione

La strategia della transizione energetica non può dunque che partire dai trasporti un fatto che rende più che mai rilevante essere “bene posizionale” per eccellenza, naturale piattaforma logistica nel Mediterraneo. Come ripetutamente detto, a questo vantaggio non ha corrisposto quasi per nulla una capacità di metterlo produttivamente a valore e il varo del Southern Range rappresenta l’opzione in campo; lo stesso dicasi per l’ancor più ipotetico avvio delle autostrade del mare affidato al lento lievitare della forza delle cose che può prendere corpo facendo leva sui vantaggi oggettivi dei quali può fruire un progetto pubblico-privato di intermodalità pianificata in vista delle scadenze 2030 e 2050.

Un elementare esercizio previsionale offre una prototipale indicazione del differenziale che un PNRRH consentirebbe di realizzare in costanza di regime  fossile confrontando il trasporto a lunga percorrenza stradale nazionale con l’ alternativa virtuale del trasporto via mare, tradotto in variazione delle emissioni di CO2  per un identico ammontare di tonnellate/chilometro (t/km) di merci trasportate. Dal differenziale di CO2 è anche desumibile il vantaggio potenziale in termini di “autonomia energetica” misurata dal differenziale quantitativo di fonti fossili impiegate.

Il target europeo per il settore dei trasporti autostradali da conseguire entro il 2050 è la riduzione del 60% delle emissioni rispetto ai livelli del 1990; esso rappresenta il contributo all’obiettivo omnicomprensivo che fissa una riduzione dell’80-95% fissato nel 2011 dalla Commissione Europea nella Roadmap for a low carbon economy (Ai fini di ottemperare ai macro-obiettivo: le città dovrebbero dimezzare entro il 2030 l’uso delle auto con motore termico, eliminandole del tutto entro il 2050; sarebbero da spostare su ferrovia la maggior parte del trasporto passeggeri su medie distanze; entro il 2030, almeno il 30% del trasporto merci che supera i 300 km dovrebbe utilizzare la ferrovia o la via d’acqua (il 50% entro il 2050); sono poi da incrementare i carburanti a basse emissioni nel trasporto aereo fino al 40% entro il 2050; e ridurre tra il 40 ed il 50% entro il 2050 le emissioni di CO2 da oli combustibili utilizzati nel trasporto marittimo).

Il settore dei trasporti è responsabile in Italia di circa il 30% del totale nazionale di tutte le emissioni di gas serra; nel 2018 il 72% delle emissioni di CO2 del settore è imputabile al trasporto passeggeri; il 28% al trasporto merci per un totale del 92,9% a fronte del 7,1% imputabile alle altre modalità.

Utilizzando i dati provenienti dalle principali database elaborate a livello europeo concernenti le emissione di CO2 per tonnellate-kilometro (t/km) trasportate e per categorie di veicolo è possibile confrontare con estrema analiticità i differenziali nei Parametri di emissione con riferimento alle diverse tipologie dei vettori evidenziando, come è facile comprendere, che grazie all’ effetto di scala, questo differenziale di emissione per t/km è consistente e del tutto a favore del vettore marino.

Considerando (per sintesi) i valori medi non ponderati relativi alle emissioni dei camion-TIR pari a 223,6 g per t/km e l’analoga emissione per t/km delle navi, pari a 24,5g la riduzione delle emissioni di CO2t/km del passaggio da gomma a mare è di 202,3 g.

Dal confronto (particolarmente prudenziale e quindi sottostimato) l’obiettivo di ridurre del 30% le emissioni inquinanti complessive del comparto dei trasporti (quindi conteggiando anche le emissioni imputabili alle navi) il “travaso dalla gomma al mare” dovrebbe essere pari al 89,2%. Diversamente per l’obiettivo posto a livello europeo di ridurre del 30% l’uso del vettore su gomma, il travaso si attesta al 78,8%. In un lasso di tempo quindi che, a seconda dei casi, va dai sette ai 10 anni, è modulabile un intervento con una intensità che consenta di raggiungere in anticipo l’obiettivo del 2030 avendo -al contempo- il significativo effetto collaterale di aver modificato strutturalmente il ruolo e la competitività della nostra offerta di servizi, requisito fondamentale per il decollo del Southern Range.

PNRR, PNRH e il Southern Range

Rileva sottolineare lo scarso successo delle politiche UE molto concentrate sulla sostituzione del ferro alla strada (Si rinvia al Capitolo IX del Rapporto SVIMEZ 2021 per ulteriori evidenze). Infatti l’autotrasporto merci anziché ridursi si consolida al 73% a livello europeo nonostante i corposi sostegni finanziari andati ad incentivare il trasporto merci sulle reti ferroviarie tedesche, francesi e olandesi per favorire l’inoltro ferroviario di container da e verso i porti del Northern-Range da tutti i paesi europei del modello logistico Eurocentrico-Mittel europeo. Una politica molto costosa che ha penalizzato per molti aspetti l’opzione Euro-mediterranea della portualità nei paesi che si affacciano sul Mediterraneo; nel nostro caso significativamente corroborata -è da sottolineare- dalla persistente inerzia italiana.

A spiegare questa nostra, apparente, ottusa disattenzione, va detto che il modello Eurocentrico non solo lambisce, bensì coinvolge da anni il Centro-Nord industriale le cui componenti più evolute e tecnologicamente avanzate hanno ormai solidi rapporti di complementarietà che le inserisce nelle catene del valore: termine nobile per la vecchia subfornitura di specialità e che caratterizza il modello di integrazione subalterna che ha soppiantato i distretti territoriali della specializzazione flessibile. L’esaurirsi della storica spinta tedesca verso Est, l’emergente mercato dell’ Unione Africana, l’incentivo al re-shoring sono per molti versi novità che  conferiscono fin da ora un ruolo centrale al quasi oceano Mediterraneo la cui riconversione lo vede evolvere da mare di transito a piazza di riferimento del mondo globale del dopo pandemia (e auspicabilmente del dopo-guerra).

Il soccorso dell’UE al grande malato d’ Europa è un richiamo alla responsabilità di partecipare in modo attivo alla definizione del nuovo ordine globale. La nostra prospettiva è di essere capaci di far valere una forza contrattuale, scarsa in passato, da implementare capitalizzando i vantaggi che può offrici un Quasi Oceano “piazza grande” di relazioni e di scambi. Al momento non è certo possibile dire che il messaggio di puntare ad un PNRR Hirschmaniano capace di afferrare il bandolo e dipanare la matassa, si sia sostituito alla rischiosa logica della manutenzione, essa è ancora una prospettiva in bilico, in attesa di una regia capace di portarla in porto.

Il Mezzogiorno in tutto ciò conta o non conta? Direi che a contare è la prospettiva Euro-mediterranea: in un Paese integrato dalla logistica, dall’ intermodalità, dai corridoi TEN-T, il Sud deve semplicemente tornare al suo ruolo fondamentale di agente di sistema.

A realizzare tutto ciò non è utile il PNRR “indifferenziato” della grande manutenzione delle “missions“, delle “milestones“, delle falangi di “reforms” con le quali lo Stato – Arbitro rinuncia alla Regia.

Certamente il Sud non è condizione sufficiente, ma è sicuramente condizione necessaria all’ avvio ed al successo del percorso; solo se si riuscirà a rimettere con determinazione in corsa “Napoli” con la Sicilia nel quasi Oceano Mediterraneo, tornerà a correre “Milano”; non viceversa.

Adriano Giannola
giannola@per.it

Professore Ordinario di Economia Bancaria (1980-2014) all' Università di Napoli Federico II. Membro del CdA del Banco di Napoli (1995-1998); dal 2000 al 2013 presiede l'Istituto Banco di Napoli-Fondazione e dal 2012 al 2015 il Teatro Stabile-Teatro Nazionale Mercadante di Napoli. Membro dal 2006 del CdA, dal 2010 è presidente della SVIMEZ.

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