
29 Apr Il Sud impari a spendere bene i soldi (che ci sono)
di Francesco Gastaldi
Nel dibattito che si è sviluppato in Parlamento sul Piano Nazionale di Rilancio e Resilienza, numerosi interventi si sono soffermati sulla richiesta di maggiori risorse per interventi al Sud.
Il Piano si inserisce all’interno del programma Next Generation EU (NGEU), il pacchetto da 750 miliardi di Euro concordato Unione Europea in risposta alla crisi pandemica. Il Piano italiano prevede investimenti pari a 191,5 miliardi di euro, finanziati attraverso il Dispositivo per la Ripresa e la Resilienza, lo strumento chiave del NGEU. Ulteriori 30,6 miliardi sono parte di un Fondo complementare, finanziato attraverso lo scostamento pluriennale di bilancio approvato nel Consiglio dei ministri del 15 aprile. Il totale degli investimenti previsti è pertanto di 222,1 miliardi di euro.
Come dichiarato dal presidente del Consiglio Mario Draghi, il Piano ha come principali beneficiari le donne, i giovani e il Mezzogiorno e dovrebbe contribuire a ridurre i divari territoriali. Il Piano destina 82 miliardi al Mezzogiorno, una quota del 40 per cento del totale. Senza entrare nel merito delle progettualità previste, il vero interrogativo riguarda le possibilità degli interventi di dare origine a uno sviluppo economico autonomo, autopropulsivo e radicato territorialmente. Spesso le politiche per il Sud hanno risolto alcuni problemi, ma ne hanno anche creato di nuovi, sia pur con sfumature di giudizio talora significative, gli osservatori delle dinamiche di sviluppo dell’economia italiana paiono concordi nel sottolineare varie problematiche di inefficacia dell’azione pubblica di sostegno alle economie regionali meridionali. Alla disponibilità di spesa non si è accompagnata una corrispondente produzione interna, ma solamente una maggiore dipendenza dalla spesa pubblica.
Nella prima fase di intervento, nel dopoguerra, si era concentrato sulle politiche agricole, sulla riforma agraria e sul settore infrastrutturale; queste misure avevano contribuito ad attenuare le tensioni sociali innescate dalle lotte contadine e a sostenere il reddito della popolazione. A partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta si fa strada la convinzione che il mercato non è in grado da solo di assicurare l’avvio di una fase sostenuta di sviluppo e che occorra, di conseguenza, un insieme di interventi pubblici e di infrastrutture in grado di abbattere gli ostacoli che impediscono il miglioramento qualitativo delle risorse produttive. Si concepisce una politica di industrializzazione dall’alto che si propone di creare pre-condizioni di sviluppo e dare soluzione a due elementi di debolezza dell’economia italiana: da un lato la debolezza strutturale dell’industria manifatturiera meridionale, dall’altro la dipendenza dall’estero in materia di prodotti siderurgici ed energetici.
Per superare gli elementi di debolezza si pensa di realizzare impianti nei settori di base (siderurgia e petrolchimica) sulle coste del Mezzogiorno. Le teorie dei “poli di sviluppo” suggerivano inoltre la realizzazione di industrie (affidate ad ENI ed IRI) che avrebbero attivato processi di sviluppo e di concentrare in alcune aree le attività economiche tramite incentivi (finanziamenti agevolati e contributi a fondo perduto). Si mira a un forte coinvolgimento delle imprese pubbliche, alle quali viene imposto l’obbligo di localizzare nel Mezzogiorno per almeno il 60% dei loro investimenti. In questi anni la diffusa tendenza a concepire lo Stato come un ente essenzialmente “redistributore” ogni forma di intervento pubblico ha portato a sottovalutare le funzioni che esso avrebbe potuto svolgere in favore dell’attività economica e della promozione dello sviluppo locale. Il vizio di fondo sta nel fatto che si pensava che un forte investimento di spesa in opere pubbliche potesse creare una domanda di beni tale da attirare investimenti e sviluppo.
In molte aree le politiche di industrializzazione centralistiche e dall’alto non hanno creato un tessuto industriale locale e non hanno avviato uno sviluppo endogeno autosostenuto, anzi l’ingente quantità di risorse che si sono riversate al Sud hanno alimentato circuiti assistenziali, legami di dipendenza rispetto ad altre aree del Paese e di riconoscenza nei confronti dei gruppi di potere dominanti, provocando la demolizione della originaria struttura artigiano-industriale
Inoltre, spesso, il problema non è stato rappresentato dalla quantità di investimenti a disposizione (ma anche in occasione del PNRR i parlamentari hanno chiesto più soldi), ma dalla capacità di spesa e di mettere in moto processi virtuosi, il problema non è stato la quantità di denaro disponibile, ma in alcuni casi il non saper spendere (bene) le risorse, anche fra diverse alternative disponibili. A questo si aggiunge il fatto che per molti anni si è sviluppata la tendenza, da parte della classe politica locale e nazionale a valutare le politiche di intervento, non in termini di efficacia rispetto a bisogni o problemi emergenti, ma in termini di “produttività elettorale”. Speriamo che queste stagioni siano concluse. Il Sud impari a spendere e a spendere bene i soldi (che ci sono)!
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