
09 Lug Il Sud, la moneta e lo sviluppo da De Gasperi a Draghi
di Leandra D’Antone
Le manifestazioni di declino economico-industriale evidenti da decenni in Italia e nell’ultimo periodo quelle degli effetti socio-economici gravissimi della pandemia – nonché l’imponenza dell’azione istituzionale e finanziaria dispiegata in sede europea e nazionale per il loro superamento – hanno sollecitato il diffuso richiamo alle gravi difficoltà superate con efficacia negli anni della Ricostruzione postbellica, al Piano Marshall e al “miracolo economico”.
Il richiamo di Mattarella e Draghi alla ricostruzione postbellica
Tale richiamo è stato particolarmente significativo, insieme alla consapevolezza della enorme differenza di scenario politico, nel discorso del Presidente Sergio Mattarella in occasione della festa della Repubblica e nell’introduzione del Presidente del Consiglio Mario Draghi al Piano nazionale di rilancio e resilienza inviato alla Commissione Europea per il programma Recovery Fund-Next generation, quest’utimo del valore complessivo di 750 miliardi e per la prima volta a carico del bilancio comune.
Proprio in questi giorni il Piano italiano è diventato operativo con l’approvazione della prima tranche di un davvero cospicuo impegno con un programma intensamente innovativo destinato alle giovani generazioni. Come è noto si tratta di un Piano del valore di ben 235 miliardi di euro, di cui 209 dal RF tra prestiti e contributi a fondo perduto: quasi tre volte le risorse finanziarie destinate all’Italia dal 1948 al 1952 dall‘European Recovery Program.
I dati con cui Draghi ne ha motivato la consistenza e la cogenza sono stati: il maggior numero di vittime della pandemia tra i paesi europei, il maggior calo del Pil rispetto alla media europea ( 8,9 % a fronte del 6,2% ), precedentemente, tra il 1999 e il 2019, la modesta crescita del Pil – il 7,9%, intorno a 5 volte meno rispetto a Francia, Germania e Spagna. Valori di gran lunga inferiori rispetto agli stessi paesi hanno riguardato la produttività, i livelli di NEET, la partecipazione delle donne al lavoro, il contrasto all’inquinamento e agli effetti dei cambiamenti climatici; tutti i fenomeni ricordati sono stati fortemente più accentuati nel Mezzogiorno. Draghi ha ricordato come negli anni della Ricostruzione, tra il 1950 e il 1970, il reddito pro-capite italiano sia cresciuto del 5,3% l’anno, la produzione industriale dell’8,2% annuo, la produttività del lavoro del 6,2%. Il reddito medio dell’italiani era passato dal 38 al 64% di quello degli Usa e dal 50 all’88% di quello della Gran Bretagna. Aggiungo che, nello stesso periodo, nelle regioni del Sud l’incremento del reddito era stato superiore a quello delle regioni del Nord, partendo nel 1950 dal massimo storico della distanza con il 51% del Pil rispetto al Nord, per un vero e proprio crollo tra le due grandi guerre. Fino alla prima guerra mondiale il Pil del Sud si attestava a più dell’80% rispetto a quello del Nord; a mio avviso quello si poteva definire ancora un divario fisiologico.
I fattori che accomunano la ripresa dopo la guerra alla ripresa dopo la pandemia
Oltre alla memoria storica incoraggiante di una grande prova data dall’Italia al massimo delle difficoltà storiche, diversi fattori accomunano la Ricostruzione italiana e la missione fondamentale dell’attuale governo.
Pur nella radicale differenza dello scenario politico, possiamo senz’altro ricordare l’elevato profilo istituzionale e di cultura economica degli uomini chiamati a guidare le grandi trasformazioni in corso, questi ultimi erroneamente indicati come puri tecnici. Tali furono e continuano ad essere i governatori di banche centrali proprio in quanto responsabili della moneta, l’istituzione economica a più alto contenuto politico di un paese.
Altri elementi comuni sono la – allora realizzata, ora programmata- sinergia tra capitali pubblici e privati, tra istituzioni internazionali e nazionali, tra strumenti dell’azione politica ordinaria e strumenti straordinari.
E ancora, lo sono gli obiettivi fortemente innovativi dei programmi di spesa: nel dopoguerra un sistema economico-industriale competitivo con prodotti di consumo di massa e all’avanguardia nelle ultime frontiere tecnologiche con grandi imprese pubbliche e private; oggi la transizione ecologica e digitale dell’intero sistema-paese: dalla pubblica amministrazione e servizi, alle imprese e alle reti di comunicazione.
Centrale è rimasto anche oggi un “interesse straordinario per il Mezzogiorno” maturato soprattutto in ambito internazionale. Negli anni del dopoguerra tale interesse provenne dalle istituzioni atlantiste e keynesiane di Bretton Woods; oggi. Il Mezzogiorno non figura nella visione di De Gasperi allora, e di Draghi oggi, come una “questione irrisolta” riguardante un ampio spazio territoriale da allineare alle dinamiche relativamente più virtuose delle aree più forti, ma come la più importante scommessa per il futuro dell’Italia nell’Europa e della stessa Europa oggi necessariamente “mediterranea”.
L’impegno colossale che attende Mario Draghi
Come quelle per la Ricostruzione, anche oggi le politiche italiane di Rilancio e Resilienza e particolarmente quelle per il Sud, sono in definitiva “monetarie e di sviluppo”. Tanto più che, ancor prima della pandemia, forti asimmetrie economiche con disagi sociali, rafforzate da politiche europee rigide di riduzione del debito nei paesi membri e confermate nel corso delle ultime crisi finanziaria e del debito sovrano, hanno più volte messo in bilico, fino all’exploit di movimenti nazionalisti e anti-euro, la robustezza dell’Unione europea (fino alla pandemia, solo unione economica ma non fiscale e politica) e della sua moneta di riferimento.
Peraltro negli ultimi decenni l’intero assetto geopolitico ed economico mondiale è diventato fortemente instabile per la potenza raggiunta da grandi economie ex comuniste, ora capitalistiche ma a regimi autoritari, come la Cina e la Russia, e fino alla nomina di Biden, per l’antieuropeismo della presidenza Trump.
Se si considera questo scenario il governo Draghi ha sulle spalle la responsabilità di un paese come l’Italia da rigenerare, di un una moneta come l’euro e un continente come l’Europa da rifondare, di un nuovo sistema di cooperazione anche con le nuove potenze, ma anche su robuste alleanze cementate da storici valori politici, economici sociali, su una rinnovellata solidarietà atlantista basata sui valori della democrazia, della difesa dei diritti politici e civili e sul rispetto della concorrenza ovvero sulla difesa dalla concorrenza sleale. Questo impegno colossale, che sta sempre meglio prendendo forma, è urgente e necessario, ma gli esiti non sono affatto scontati.
La collaborazione tra De Gasperi e Menichella
Tornando al passato, negli anni della Ricostruzione, anni della nascita e del consolidamento di una democrazia fondata sui partiti antifascisti e di ampia mobilitazione delle masse popolari, Il Presidente del consiglio De Gasperi e il governatore della Banca d’Italia Donato Menichella, concepirono e attuarono una politica italiana monetaria e di sviluppo di forte impronta meridionalista ispirata alla parità aurea del dollaro e ad una collocazione politica atlantista. Oggi è il Mezzogiorno è anche orizzonte di riferimento del Presidente del Consiglio Mario Draghi, già alla guida della Banca d’Italia e di seguito Presidente della Bce. Il Recovery Fund-Next Generation ha finanziato il Piano italiano in maniera assai più cospicua -più del doppio dell’ammontare rispetto ai Piani degli altri stati europei- decidendo, sulla base degli indicatori di reddito, di qualità dei servizi, di occupazione giovanile e di crisi demografica, di destinare al Mezzogiorno la quota di gran lunga più degli investimenti.
Finita la seconda guerra mondiale, l’Italia già fascista e sconfitta in guerra, liberata dall’esercito alleato e dai partigiani, raccolse immediatamente nelle politiche nazionali la missione meridionalista al centro dei programmi dei grandi partiti nazionali democratici – il Pci, la Democrazia cristiana- e da sempre negli orizzonti di quel partito delle istituzioni economiche rappresentato dagli uomini dell’Iri e della Banca d’Italia, primi fra tutti Donato Menichella; missione tanto più urgente in seguito alle conseguenze della grande crisi e delle distruzioni belliche particolarmente gravi nel Mezzogiorno e per la persistenza nell’area di vaste sacche di arretratezza economica e sociale in agricoltura.
La Conferenza di Bretton Woods
Nel 1944 alla Conferenza di Bretton Woods era nato il nuovo ordine monetario internazionale fondato sulla parità aurea del dollaro (“atlantismo a guida statunitense”), sulla difesa del capitalismo dal comunismo e da pericoli di grandi crolli come avvenuto negli anni Trenta, con nuove istituzioni come il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale per la ricostruzione e lo sviluppo.
L’impianto keynesiano di Bretton Woods era tutt’altro che fondato sul debito, ma sul rigore monetario e una attenta espansione degli investimenti e sull’idea che il comunismo dovesse essere sconfitto combattendo la povertà. La Banca mondiale riservava enormi risorse finanziarie ad investimenti per le aree depresse del mondo. Sotto la guida monetaria di Menichella, la presidenza della Repubblica di Luigi Einaudi e la presidenza del consiglio di Alcide De Gasperi, l’Italia era entrata nelle istituzioni di Bretton Woods acquisendo la piena partecipazione ai finanziamenti internazionali in dollari. Il prezzo politico della scelta atlantista, non subita, ma convintamente partecipata, fu allora l’esclusione dal IV ministro De Gasperi del Partito comunista legato all’URSS di Stalin. Il quadro sociale era altamente conflittuale per le lotte dilaganti nelle campagne per la terra e il lavoro; l’Italia non aveva ancora una costituzione e doveva affrontare le prime elezioni democratiche dopo il fascismo. La scommessa fu tutta concentrata sul valore delle scelte (altro che i sondaggi elettorali attuali!) e fu quella di portare l’Italia alle prime posizioni tra i paesi civili nel mondo e superare i gravissimi divari territoriali, la disoccupazione, la mancanza di istruzione, la povertà.
La stabilizzazione della lira
La prima scelta fu la stabilizzazione della lira, congegnata da Luigi Einaudi (faro del liberismo italiano) e Menichella (già direttore dell’Iri e protagonista dell’intervento pubblico) non come atto di restaurazione liberista come descritta spesso dalla storiografia, ma perché indispensabile alla partecipazione alle nuove istituzioni internazionali (ripeto, di ispirazione keynesiana) e al grande piano americano di ricostruzione dell’Europa. Gli aiuti e prestiti in valuta aurea per finanziare cicli di investimenti per l’espansione dell’economia e dell’occupazione consentirono di raggiungere e consolidare la convertibilità della lira e l’equilibrio della bilancia dei pagamenti in una situazione di grave carenza di capitali e tecnologie.
Menichella disegnò in prima persona l’intera strategia nazionale di lungo periodo della acquisizione e scansione nel tempo dei prestiti in dollari attraverso il Piano Marshall, quindi all’esaurirsi del Piano Marshall, dei prestiti della Banca mondiale alla Cassa per il Mezzogiorno appena istituita.
L’alternate executive della Banca d’Italia presso la Banca mondiale, Francesco Giordani, già Presidente dell’Iri dopo Beneduce, su indicazione di Menichella fin dal 1947 si preoccupò di congelare tutti i prestiti richiesti all’Istituto dal governo italiano per finanziamenti industriali (alla siderurgia integrale e alle grandi industrie italiane esportatrici), indicando come loro fonte ideale il Piano Marshall; e di riservare i cospicui prestiti della Banca mondiale un Piano per il Sud, area depressa non del tutto sottosviluppata, che proprio in quanto dotata di know how e di dinamismo, avrebbe avuto sicuro successo potendo rappresentandone una pietra miliare dell’azione delle Banca.
Un piano per il Sud
Su sollecitazione di Menichella, che ne faceva parte, il Piano fu preparato dalla Svimez, l’Associazione per lo sviluppo industriale del Mezzogiorno nata nel 1946 e composta da tutto il mondo della finanza e delle industrie italiane a riprova di un meridionalismo condiviso anche perché vantaggioso per tutto il paese. La questione meridionale fu la carta vincente giocata dalla Banca d’Italia e dal Governo italiano presso la Banca mondiale per far si che i finanziamenti in dollari per i piani di investimenti italiani si protraessero dopo la conclusione del Piano Marshall per ancora 10 anni, con progetti annuali rigorosamente esaminati e valutati nei risultati dall’Istituto internazionale, come è ovvio sia quando si erogano prestiti.
Alla fine del primo decennio della vita della Cassa l’Italia era per la prima volta diventata competitiva all’estero con produzioni industriali di massa, aveva superato lo storico equilibrio dei bassi consumi dei bassi consumi e il Pil delle regioni del Sud era cresciuto con ritmi superiori a quelli delle regioni del Centro-Nord. Nel 1960 Menichella lasciò volontariamente la Banca d’Italia col riconoscimento di miglior banchiere del mondo; alla lira italiana fu assegnato l’Oscar della moneta.
Della complessità del disegno di sviluppo nazionale in cui giocò un ruolo fondamentale l’azione della Cassa, è straordinaria testimonianza il saluto che Menichella rivolse a Eugene Black al momento in cui il Presidente lasciò la Banca Mondiale.
Il saluto a Eugene Black
Dapprima gli ricordò i contatti precedenti l’istituzione della Cassa e la decisione di inaugurare un grande piano di investimenti nel Sud in un momento favorevole per la bilancia dei pagamenti italiana: come l’aumento del deficit la guerra di Corea avesse spinto a contenere entro 10 milioni di dollari i primi due prestiti; la decisione tra il 53 e il 56, di fronte all’esaurimento degli aiuti Marshall, di allargare la spinta creditizia e liberalizzare il mercato per favorire l’innovazione tecnologica degli apparati produttivi e favorire l’occupazione; la soluzione ai pericoli per la convertibilità fosse stata trovata nel sensibile aumento del contributo in dollari della Banca mondiale ai progetti industriali della Cassa.
Poi Menichella ricordò a Black: “Soffermarsi sulle vicende monetarie di un paese e un po’ come scrivere sinteticamente la sua storia economica….Occorse dunque, a un certo momento, tirare le somme della lunga preparazione. Questo compito toccava a voi e a me, perché in un leale negoziato scocca sempre l’ora in cui le intenzioni si conoscono e la fiducia si matura. Allora si chiudono le carte, si smette di fare i conteggi, si abbandonano i se e i ma, e si decide fra capi responsabili guardandosi negli occhi e impegnando soprattutto la dirittura morale. Il nostro incontro avvenne a Parigi, ricordate signor Black? …Non mercanteggiammo. Alla fine dei nostri colloqui, nei quali vi diedi soprattutto l’assicurazione che la politica economica italiana, pur diventando attiva, si sarebbe sempre ispirata alla necessità di mantenere e tutelare l’equilibrio monetario, sola condizione alla quale l’aiuto sarebbe diventato benefico, io vi chiesi di destinare alla Cassa per il mezzogiorno un concorso complessivo della Banca Mondiale di 250 milioni di dollari. Le mie speranze non andarono deluse. Vi dichiaraste disposto ad appoggiare un nuovo prestito di 70 milioni al quale ne sarebbero seguiti altri due, dello stesso importo, sempreché il programma della Cassa per il Mezzogiorno si fosse svolto con regolarità e con efficacia. E pensavo al diverso corso che avrebbe potuto verificarsi nel nostro paese se voi non aveste accolto la mi proposta e la banca non si fosse spostata nella misura dei suoi prestiti a noi, dalle modeste cifre di primi anni. Non è stato ancora inventato uno strumento capace di registrare con fedeltà e senza amplificazioni e distorsioni, nell’animo dei governatori delle banche centrali, il timore che talvolta li prende di un probabile andamento deficitario della bilancia dei pagamenti del proprio paese, specie quando, come era allora il nostro caso, le riserve sono modeste: al posto della serenità subentra l’ansia, al posto del coraggio la pavidità e il quadro può apparire anche a tinte più forte di quanto la reale prospettiva comporterebbe. Tutto il meccanismo del credito può esserne influenzato da quel timore anche inconsciamente ingrandito e, per effetto di un rallentato funzionamento di quel meccanismo, la produzione può venire contenuta al di sotto delle affettive possibilità e all’espansione può subentrare la stasi o la regressione. Certo la storia non si fa con i se ma è verosimile che il coraggio che abbiamo avuto nel consentire a più riprese l’espansione creditizia, che era stata alla base del mirabile sviluppo del reddito nazionale negli ultimi 10 anni, ci sarebbe mancato o sarebbe stato comunque molto più contenuto e circospetto se l’assistenza data al nostro paese dalla Banca mondiale al momento opportuno non fosse stata così decisa, importante e cordiale, come essa fu principalmente per vostro merito, signor Black”.
Il contesto politico attuale è profondamente diverso da quello del dopoguerra
Il Piano Marshall e la Cassa per il Mezzogiorno furono visti con favore in clima politico ostile da un sindacalista del calibro di Giuseppe Di Vittorio, mentre imperversavano scontri persino cruenti tra braccianti e polizia. Il suo partito, il Pci, cominciò a giudicare positivamente l’intervento straordinario solo all’inizio degli anni Settanta, al momento della costituzione delle Regioni, quando aveva già perduto la sua originaria missione e autonomia dai partiti politici e forse proprio per quest’ultima ragione.
Intelligenza monetaria, economica e politica furono allora e continuano ad essere oggi requisiti imprescindibili di una classe dirigente capace e lungimirante. Tali requisiti sembrano assenti, o sono o sono presenti in maniera confusa negli orizzonti dei partiti e dei movimenti politici oggi più influenti.
Il contesto politico nazionale attuale è radicalmente diverso dal passato per la disgregazione del sistema dei partiti, il profilo generalmente basso degli attuali leader di partiti e movimenti e persino l’assenza di regole elettorali che garantiscano la governabilità.
Per questa ragione, nell’impossibilità di una soluzione parlamentare all’ultima crisi di Governo, in un momento decisivo della storia nazionale ed europea, il Presidente della Repubblica ha affidato il Governo e la sua composizione a chi, come Mario Draghi, già Direttore generale del Tesoro, Governatore della Banca d’Italia e Presidente della Banca centrale europea, quei requisiti ha maturato nell’ambito delle istituzioni del governo economico e monetario italiane ed europee e deve ora mettere alla prova di una difficilissima partita da giocare e vincere con il consenso dell’attuale parlamento.
Quella del declino italiano e delle conseguenze della pandemia e quella della debolezza di una unione europea in cui la moneta e lo sviluppo sono rimasti finora dissociati proprio dall’assenza di unione politica, fiscale e di bilancio. Draghi non è “uomo solo al comando” essendo fortunatamente ancora molti in Italia e in Europa i profili istituzionali e culturali di analogo livello; ma sicuramente si addice alla sua enorme responsabilità l’appellativo di SuperMario.
Non c’è Europa senza unione di bilancio e bancaria
Se nel contesto nazionale italiano è vistoso il difetto di una classe dirigente politica adeguata, altrettanto vistoso è diventato nel contesto europeo il limite di una unione economica e monetaria che non sia accompagnata da una unione di bilancio e bancaria. La pandemia ha solo fatto cadere momentaneamente una fortissima resistenza dei paesi europei con debito contenuto a condividere il debito eccessivo dei paesi meno virtuosi. Il Recovery Fund ha messo per la prima volta insieme il fisco e i bilanci degli stati europei e realizzato con gli eurobond un esordio di unione bancaria, ma si tratta di un progetto ancora difficile da consolidare.
Se Mario Draghi ne è oggi interprete principale dal contesto italiano, ieri lo è già stato da quello europeo. Infatti il suo Quantitativy Easing, prima della pandemia del valore 2600 miliardi su 4682 di asset della Bce, ha già in passato rotto parzialmente un tabù, non solo per il carattere espansivo dell’intervento bancario, ma anche per aver avviato l’acquisto di titoli del debito degli stati sul mercato secondario quando li regolamenti Ue non lo consentivano. L’uomo del whathever it takes, di una moneta coniugata allo sviluppo – quindi col suo contenuto politico- ha una missione pubblica ben più ampia di quella legata alla già difficile costruzione e alla messa in cantiere del PNRR italiano, dopo l’incapacità dimostrata dal governo precedente e dovendo ottenere il consenso di un parlamento in cui fanno ancora da arbitri partiti e movimenti delle due precedenti maggioranze di governo.
Il ruolo strategico del Mediterraneo
Come abbiamo già ricordato, gli spazi e orizzonti economici e di valori della competizione globale sono diventati più ampi e più raffinati rispetto a quelli dell’europeismo atlantista e della contrapposizione tra paesi capitalisti e paesi comunisti. In questi spazi e orizzonti, economici, geopolitici e di idealità, l’Europa gioca oggi il suo destino.
Ecco perché il Mediterraneo in cui si giocano la riconquista di egemonia da parte di una potenza globale sofferente come gli Usa, e la conquista di egemonia della nuova espansiva potenza cinese, è adesso una delle più importanti sfide dell’UE, già inclusa nell’originale progetto europeo con la previsione nel 2010 della istituzione di una zona di libero scambio tra paesi rivieraschi, ma mai giocata.
Un piccolo ma determinante pezzo di mondo europeo, il Sud d’Italia, anzi più precisamente il Sud del Sud, ovvero le regioni più meridionali d’Italia, la Calabria e la Sicilia, con i loro porti strategici e le necessarie connessioni intermodali materiali e immateriali, non solo torna ad essere strategico per l’Italia e per l’intero continente, ma non può più essere considerato una pura questione di disuguaglianze sociali da colmare, disuguaglianze rilevantissime in ogni campo ed esse stesse frutto di vista corta.
Il PNRR italiano contiene questa consapevolezza – non mancano i richiami alla centralità del Sud in tutte le dichiarazioni del Governo- che invece era solo demagogicamente presente, nonostante i proclami mediatici meridionalisti, nella bozza votata dal precedente governo. Tutta la struttura di governo ha disegnato con grande rapidità e competenza il complesso e poderoso piano di riforme (pubblica amministrazione e giustizia, semplificazione e concorrenza) e le missioni (digitalizzazione, competitività, cultura e turismo; rivoluzione verde e transizione ecologica, infrastrutture per una mobilità sostenibile, istruzione e ricerca, inclusione e coesione, salute) con la consapevolezza di dover riservare al Mezzogiorno il massimo dello sforzo per compensare le gravi disparità che lo interessano nella dotazione infrastrutturale e nei servizi di ogni tipo.
La logica del whatever it takes serve anche per il Sud
Ma la consapevolezza non basta. Occorre esattamente che il Sud d’Italia sia trattato immediatamente con la stessa logica del whatever it takes. Non dunque riservando ad esso una quota specifica (il 40%) del totale degli investimenti complessivi, ma tutto ciò che serve, e quindi gli investimenti migliori. Sappiamo che la guida di questo esecutivo ha cultura e la visione per realizzare questo fine. Possiamo dire che ciò stia avvenendo? Nel merito si sono già levate diverse obiezioni soprattutto sulla dotazione di asili, sui finanziamenti per la ricerca e in generale sugli investimenti in infrastrutture.
Tuttavia l’obiezione più significativa è stata proprio in questi giorni l’invito della commissione europea a non contabilizzare i fondi strutturali nel 40% delle risorse da destinare al Sud, ma di usarli come risorse aggiuntive. Quanto alle scelte di investimento e qualità dei progetti, a me sembrano anche rilevantissime, forse ancora più di altre apparentemente di contenuto sociale più elevato, alcune grandi opere infrastrutturali che, mancando, rendono il Mezzogiorno irrimediabilmente più disuguale rispetto ad altre parti del paese.
Il PNRR italiano giustamente ha incluso tra le 6 missioni del piano quella della mobilità sostenibile, e, al suo interno quella di dotare il Sud d’Italia dell’alta velocità ferroviaria (oltretutto ad elevatissimo impatto ecologico), da cui incredibilmente sono state finora escluse proprio le regioni “immerse” nel Mediterraneo. Tuttavia nel Piano non solo a tale missione viene riservata una quota minima di finanziamenti – la metà rispetto al rispetto agli analoghi investimenti nel Centro-Nord- ma vi figura un progetto di Rfi che per la linea ad l’Alta velocità Salerno-Reggio Calabria prevede di seguire lo stesso itinerario di quella autostrada che, come è noto, divise per la prima volta l’Italia in due.
Il principale investimento nella mobilità nel Sud d’Europa prevede dunque la deviazione dalla costa tirrenica verso l’interno per poi rientrarvi avendo allungato di 25 km il percorso e immaginato di costruire 180 km di gallerie su 400 Km di linea! Sicuramente, rispetto alla scelta del percorso tirrenico, prevede più spesa, meno velocità, non sufficiente competitività rispetto ad altre modalità. Se aggiungiamo che la linea cosiddetta ad Alta velocità Palermo Catania prevista nel PNRR presenta come suo traguardo due ore di tempo per 190 Km vediamo di fatto sfumare l’obiettivo di un Southern Range logistico veramente europeo fondato sui più importanti porti italiani per il traffico di navi containers e per il traffico energetico: Gioia Tauro e Augusta-Santa Panagia.
Ora, con la fortuna di avere alla guida del Paese un uomo competente, visionario e al tempo stesso pragmatico come Draghi, europeista, di rinnovati principi liberali, democratici e solidali già radicati nella tradizione atlantista ed ora riconiugati nella prospettiva globale della green economy e della unificazione digitale, non è proprio concepibile che il Sud italiano debba continuare a morire di un meridionalismo quantitativo basato sulle percentuali nazionali di ripartizione della spesa.
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