
29 Dic Il superamento del Pci, l’89 e il senno di poi
di Andrea Romano
30 anni dopo: quello che l’Ottantanove del PCI avrebbe potuto essere (e che per fortuna non fu)
Si racconta che nel febbraio 1918 Vladimir Lenin, festeggiando insieme ai più stretti compagni di partito i tre mesi trascorsi dalla presa del Palazzo d’Inverno, sottolineasse con molta enfasi come il potere bolscevico fosse già durato qualche giorno in più della Comune di Parigi. Un risultato evidentemente non scontato per quello che i suoi protagonisti vivevano come un esperimento incerto e rocambolesco, che pareva avviato a navigazione improvvisata e a difficile sopravvivenza.
La scena ci restituisce una percezione di fragilità che cozza con la vicenda successiva dell’Unione sovietica, ovvero con quanto oggi conosciamo del fenomeno storico che prese avvio in quei giorni. Ma resistere alla tentazione di osservare i fenomeni storici dal loro punto d’arrivo è sempre un buon criterio per sfuggire alle deformazioni della teleologia. E quindi per cogliere fino in fondo i tratti d’improvvisazione di vicende politiche che cominciano lungo un certo sentiero, ne percorrono poi un altro e infine si esauriscono in tutt’altra direzione. D’altra parte – per congedarci da Lenin – si sa che lo spirito tattico era uno dei tratti che egli rivendicava con più orgoglio, citando spesso il napoleonico “on s’engage et puis on voit” come cifra delle proprie decisioni, in paradossale contraddizione con la granitica esibizione pianificatrice del regime che ne avrebbe raccolto l’eredità.
L’Ottantanove italiano e il superamento del Pci
Possiamo applicare lo stesso metodo all’Ottantanove italiano? E possiamo dunque mettere a confronto l’ispirazione iniziale, le motivazioni, gli obiettivi che animarono il superamento del PCI con quanto è poi accaduto nella successiva vicenda della sinistra italiana? Forse sì. Ma non tanto per mettere a fuoco chissà quali contraddizioni – che pure appaiono ovvie in un percorso trentennale che si è svolto incrociando trasformazioni ampie e radicali dell’assetto politico-istituzionale della Repubblica italiana – ma piuttosto per guardare al punto d’arrivo di questo percorso con qualche elemento di ottimismo in più rispetto alla tradizionale retorica delle “occasioni perdute”.
Perché se guardiamo retrospettivamente alle condizioni di partenza del percorso che avrebbe infine condotto al Partito Democratico, o per lo meno alle condizioni relative al binario post-comunista, non si può non cogliervi un buon numero di idee e immagini che puntavano ad un approdo ben diverso da quello che avremmo poi conosciuto. Quelle idee e quelle immagini guardavano non tanto allo sviluppo anche in Italia di un grande partito riformista, europeista e pienamente integrato nel quadro delle socialdemocrazie europee – quale poi sarebbe concretamente diventato il PDS-DS nel corso degli anni Novanta – ma piuttosto alla velleitaria aspirazione a superare in un colpo tanto il comunismo quanto la democrazia liberale, per approdare ad un vago “oltrismo” insieme post-comunista e post-capitalista.
In altri termini, alcune delle premesse che l’Ottantanove italiano seminò in quegli anni sul lato sinistro della politica italiana – e dunque le circostanze nelle quali si preparò e poi si svolse il superamento del PCI – non lasciavano immaginare granché di quanto ne sarebbe poi derivato. E solo l’abbandono di quelle premesse e di quelle idee, maturato attraverso le concrete prove di governo degli anni Novanta, avrebbe instradato l’eredità del comunismo italiano sui binari di quello che sarebbe infine diventato il Partito Democratico. La fine del PCI non fu dunque una delle tante “occasioni perdute” di cui sarebbe costellata la storia della sinistra italiana, ma piuttosto una falsa pista poi fortunatamente abbandonata a cui oggi guardare con il sollievo della distanza. Perché quella pista avrebbe potuto rendere assai più complicato includere la sinistra post-comunista in quel campo di governo europeista e riformista che gestì la crisi repubblicana dei primi anni Novanta. E solo il suo abbandono rese possibile il pieno utilizzo delle risorse politiche e culturali lasciate in eredità dal PCI nella transizione dalla Prima alla Seconda Repubblica.
L’illusione del “neocomunismo”
Guardiamo in particolare alla breve ma intensa stagione del “neocomunismo”, fiorita nel PCI a cavallo tra il 1988 e il 1989 e direttamente legata all’illusione che il tentativo di riforma dell’Unione Sovietica promosso da Michail Gorbaciov nella seconda metà degli anni Ottanta portasse con sé il rilancio delle prospettive del comunismo occidentale. In realtà qui siamo ancora alla vigilia del vero e proprio Ottantanove, tra la primavera del 1988 e l’autunno del 1989, quando nel cosiddetto “nuovo PCI” si poteva allo stesso tempo celebrare il bicentenario della Rivoluzione francese all’insegna dei “diritti del cittadino” (come avvenne al XVIII congresso del PCI, nel marzo 1989) e leggere nei primi sconvolgimenti che attraversavano l’Europa orientale la manifestazione di “un grande bisogno di comunismo” (come affermò ancora nel 1988 l’allora segretario della FGCI Pietro Folena).
Per la verità vi fu anche allora chi, come Giorgio Napolitano, trovava “cervellotica l’idea secondo la quale il PCI, magari appagato dalla conferma dei suoi giudizi critici sull’Urss, possa affidare ora le sue fortune alla forza di trascinamento della riforma gorbacioviana” (come il futuro Presidente della Repubblica disse in quella stagione al Corriere della Sera). Ma al di là dei dubbi di Napolitano e di altri dirigenti di matrice più tradizionalmente socialdemocratica, le modalità prevalenti nel dibattito pubblico e nello stesso corpo politico più esteso con cui il PCI arrivò alla frana del 1989 presentavano tutti i segni dell’illusione secondo cui la diversità del comunismo italiano avrebbe potuto essere preservata e persino rilanciata proprio grazie all’impresa di Gorbaciov: un leader che in Italia, più che in altri paesi dell’Europa occidentale, poté godere di una glorificazione pubblica che gli derivava non solo dal suo effettivo sforzo di pacificazione internazionale ma anche e soprattutto dal suo impegno per rinnovare le idealità comuniste.
Il crollo del socialismo reale fu un colpo a sorpresa
L’illusione del “neocomunismo” italiano fu tanto radicata, per quanto di breve durata, da impedire ai vertici del PCI di farsi trovare preparati dinanzi al precipitare degli eventi che nel giro di poche settimane – tra l’estate e l’autunno del 1989 – portarono la gran parte dei paesi dell’Europa orientale ad archiviare i regimi socialisti e infine all’esito simbolico della caduta del Muro di Berlino.
Una impreparazione che, nelle parole di Claudio Petruccioli (allora coordinatore della segreteria nazionale del partito), prese le forme dello sgomento: “Restammo sbigottiti. Da tempo eravamo convinti che il potere nei paesi comunisti fosse molto scosso; ma prolungavamo oltre l’evidenza la speranza nelle correnti riformiste. Adesso eravamo al dunque. Nel giro di poche settimane, come nel gioco del domino, buona parte dei partiti dell’Est avrebbero potuto seguire l’esempio ungherese; e, magari, tutti con lo stesso simbolo, che si sarebbe identificato, in quei paesi, con la riconquista delle libertà. Entrammo in uno stato di frenesia”.
Il vero e proprio Ottantanove – il crollo definitivo del socialismo reale – arrivò dunque dalle parti del PCI come un colpo a sorpresa, cogliendolo alle spalle mentre era intento nella spericolata avventura del rilancio ideale e programmatico del comunismo sotto l’ombrello della perestrojka gorbacioviana. E anche per questo la risposta che venne dall’annuncio della Bolognina prese le fattezze di quel “dibattito sulla Cosa” che il compianto Iginio Ariemma ha descritto nel suo La casa brucia come “grande e autoreferenziale (…) perché mentre discutevamo appassionatamente di comunismo, della trasformazione del nome e dell’identità, l’Italia e il suo destino sono rimasti in disparte o sullo sfondo, nonostante la partecipazione di decine e decine di migliaia di militanti intelligenti e appassionati”.
Un dibattito nel quale l’ondata dell’oltrismo straripò ben oltre quanto era già accaduto nella breve stagione del neocomunismo. Perché di fronte all’urgenza di rispondere al precipitare degli eventi che veniva dall’Europa orientale non era sufficiente andare oltre il comunismo italiano – che pure si rivelava impresa impegnativa – ma si trattava di superare tutto ad un tratto il liberalismo e il socialismo, la democrazia e l’Occidente, l’Est e l’Ovest etc. In un diluvio autoreferenziale scandito da quello che Edmondo Berselli definì una straordinaria manifestazione di “metafisica della loquacità”.
Il nuovo partito e la cultura di governo
Eppure tutto il confuso e velleitario flusso alluvionale di oltrismi che accompagnò il superamento del PCI trovò modo di instradarsi sui binari di una cultura politica pragmatica, europeista e riformista quale fu quella che qualificò prima il PDS e poi DS nel corso degli anni Novanta. Ma ciò che in buona sostanza salvò l’Ottantanove del comunismo italiano da sé stesso e dalle proprie fumisterie non fu tanto una battaglia culturale interna al partito o attorno ad esso, quanto piuttosto la concretezza delle sfide imposte alla sinistra post-comunista da quanto accadde all’Italia anche in conseguenza dell’Ottantanove globale.
Ovvero l’incrinarsi irrimediabile degli equilibri della Prima Repubblica e l’avvicinamento del partito erede del PCI alla responsabilità di governo. Un avvicinamento cauto, graduale, timoroso, talvolta vistosamente contraddittorio (si pensi al ritiro della delegazione dal Governo Ciampi). Ma nondimeno un percorso che portò quel particolarissimo partito, nato nel particolarissimo Ottantanove italiano, ad assumere nel giro di pochi anni una qualche forma di responsabilità nel governo nazionale. L’avvicinamento non avvenne tanto per la spinta inerziale a riempire il vuoto creato dalla crisi repubblicana, ma anche come risultato differito di una delle poche, autentiche innovazioni politiche che erano venute nel passaggio tra il PCI e il PDS.
L’aggiornamento della visione politico-istituzionale
Relativamente alla visione delle istituzioni e del sistema elettorale, quel passaggio aveva comportato l’abbandono degli schemi su cui si era costruita la vicenda del comunismo italiano dopo la seconda Guerra mondiale:
–la sacralità del proporzionale a cui ci si era legati fin dalla Costituente aveva lasciato il posto alla suggestione di una riforma in senso maggioritario e dunque all’apertura ad una competizione di segno bipolare;
-la risposta tradizionalmente difensiva (se non apertamente demonizzatrice) che era venuta nei confronti della “Grande riforma istituzionale” lanciata a più riprese dal PSI di Bettino Craxi era stata sostituita da un’attenzione del tutto originale all’alternanza di governo, al superamento dei meccanismi consociativi, alla riforma dei rapporti tra Governo e Parlamento.
L’aggiornamento della visione politico-istituzionale era stata un’innovazione per l’appunto reale nel percorso tra comunismo italiano e post-comunismo italiano, oltre ad essere l’abbozzo di una risposta finalmente efficace alla crisi delle istituzioni repubblicane, e rappresentò la premessa più solida su cui si costruì l’assunzione di responsabilità di governo da parte del partito erede del PCI.
In sintesi, la nuova sensibilità di segno maggioritario e bipolarista che l’ultimo PCI aveva maturato in campo istituzionale facilitò, e non di poco, la successiva fuoriuscita del Pds dalla falsa pista creata dall’Ottantanove. Creando le condizioni perché la crisi della Prima Repubblica fosse l’occasione per utilizzare le risorse politiche e culturali del post-comunismo italiano e per avviare, a partire da quel passaggio, l’assunzione di responsabilità dirette di governo da parte degli eredi del PCI. Un esito tutto sommato positivo – considerando le premesse su cui era stata costruita la fuoriuscita dal PCI – a cui oggi guardare con il sollievo del senno di poi.
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