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Il valore del design per la competitività del sistema produttivo nazionale

di Pierangelo Marucco

 

Per questo intendiamo lanciare un nuovo movimento Bauhaus europeo, una piattaforma collaborativa del design e della creatività, in cui architetti, artisti, studenti, scienziati, ingegneri, designer e chiunque desideri contribuire possano realizzare questa visione. Il nuovo Bauhaus europeo sarà la forza trainante per connotare il Green Deal europeo in maniera innovativa e antropocentrica, rendendolo più attraente. Sarà un movimento basato sulla sostenibilità, l’inclusività e l’estetica, mirante ad avvicinare il Green Deal europeo ai cittadini e porre al centro della vita quotidiana il riciclaggio, le energie rinnovabili e la biodiversità.

Ursula von der Leyen nel suo discorso sullo stato dell’Unione del 2020

 

Premessa

Ritengo che il design, storicamente riconosciuto come motore d’innovazione e di competitività per le imprese, sia ormai un dato di fatto globalmente confermato. Possiamo perciò cercare di ampliarne qui la visione rispetto alle evoluzioni che il design stesso è andato sperimentando e che oggi lo pongono come soggetto di trasformazione e innovazione in grado di agire ben oltre i confini del “disegno industriale”.

Infatti, i diversi scenari di mercato, di ricerca, di formazione e di produzione vedono quotidianamente ampliarsi in ogni settore delle imprese e degli ambiti più diversi pensieri e pratiche “orientate al/col design”. Per questo è interessante osservare quali relazioni e sinergie esso attiva tra i fattori umano, economico, tecnologico e ambientale, rappresentando di fatto un elemento creativo d’innovazione culturale e di ricerca molto interessante da osservare nel suo pensare, agire e divenire.

Scorrendo rapidamente la storia del design, possiamo intercettare fin dalla sua nascita la propensione a essere, a porsi come elemento di innovazione e di trasformazione continua, sensibile a coniugare bellezza e utilità dei prodotti e dei servizi, sensibile ai bisogni, capace di risposte creative e al contempo “generatore di pensiero critico”.

Vorrei qui ricordare un pensiero del filosofo Enzo Paci intervistato da Franco Tatò: “le riflessioni teoretiche-sociali, economiche, politiche, scientifiche- potevano tradursi in manufatti dal significato simbolico di una cultura, la concretizzazione di modelli per un sempre nuovo rapporto col mondo” (Tatò 1995: 9).

E oggi più che mai il design, nelle sue più diverse accezioni ed espressioni, è sollecitato a raccogliere sfide epocali che lo stimolano a ripensarsi per contribuire a ridisegnare il futuro. A ripensarsi anche rispetto a criticità e squilibri nella distribuzione delle conoscenze, delle risorse, dei beni e degli strumenti che gli attuali modelli di sviluppo economico ripropongono. Il design è oggi chiamato ad anticipare e reinterpretare, anche criticamente, i processi di evoluzione sociale, ambientale, estetica e tecnologica.

Per questo si rende opportuno indagare i settori più avanzati del design che da tempo si pongono come riferimenti tra ricerca, progetto, imprese, istituzioni, territori e società (locale e globale) al fine di esprimere soluzioni particolari o sistemiche efficaci all’innovazione della vivibilità e al governo dei processi.

Si sta riconfigurando da qualche tempo un design europeo e italiano capace di ricostruire legami sociali e nuove pratiche progettuali e culturali, nelle quali la progettazione di uno sviluppo inclusivo e sostenibile può essere efficacemente compartecipata.

In questo testo ripercorreremo rapidamente la storia, la pratica e le evoluzioni attuali del design, col fine di leggerne la predisposizione storica a interagire coi processi di trasformazione e di innovazione, che ne evidenziano l’originalità del nuovo percorso culturale che si sta delineando.

A questo proposito voglio ricordare quanto scriveva nel 1994 il mio maestro Andries Van Onck, allievo di Tomàs Maldonado  alla Scuola Ulm, quando a proposito delle origini del rapporto tra utente e prodotto scriveva: Sorge spontanea la domanda se la dimensione rituale della cultura e dell’esistenza abbia ancora un significato nel mondo industrializzato.

Infine, proveremo a intercettare alcune traiettorie evolutive che vedono il design come portatore di innovazione anche nei territori e nelle comunità, così come nelle reti di interazione e ricerca tra l’umano, il naturale e l’artificiale. Questo è lo scopo di questo contributo.

 

Dal Werkbund al Bauhaus a ULM e poi…

Se ripercorriamo a volo d’uccello la recente storia europea e italiana del design osserviamo alcuni passaggi fondamentali che ci offrono le traiettorie del “disegno industriale”, che prefigurano il potenziale di quel percorso evolutivo che oggi chiamiamo genericamente “Design”.

Tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, la rivoluzione industriale rappresenta una radicale innovazione che dall’Inghilterra, all’ Austria, alla Germania, alla Svizzera, al Belgio, etc. coinvolge decisamente l’architettura, l’arte e le arti applicate. Queste discipline si trovano a generare un nuovo rapporto tra progettazione architettonica, dei prodotti e degli ambienti, da un lato, e mondo dell’industria e del (nascente) design industriale, dall’altro lato.

Si vengono così a elaborare nuovi criteri di progettazione estetica e funzionale di prodotti e ambienti, affrontando il concetto di produzione seriale di alcuni beni di consumo di massa. È il tempo di sancire e attivare il passaggio dalla produzione artigianale a quella industriale.

In questo contesto, la Wiener Werkstätte e la Deutscher Werkbund sono due importanti organizzazioni dalle quali, in quel periodo, nasce il modello culturale, creativo e produttivo che darà origine al Movimento Moderno, all’interno del quale l’architettura, l’arredamento, l’arte e quello che in seguito è definito design, si incontrano e si confrontano con l’imprenditorialità, la tecnica e la produzione. Il Movimento giunge così a elaborare visioni e nuove pratiche in cui il progetto, la produzione e il mercato troveranno nuove sintesi creative ed economiche, dando vita al Progetto Moderno del XX secolo.

La Werkbund nasce a Monaco nel 1907 ad opera di Hermann Muthesius, che trae spunto dall’esperienza delle Arts and Crafts britanniche (ArtDream Guide) e intende coinvolgere le arti nel meccanismo della produzione industriale. Muthesius auspica una solidale convergenza di artisti, artigiani, architetti e imprenditori verso la definizione di una prassi comune.

Nello stesso 1907, la ditta tedesca AEG, conosciuta anche come produttrice di elettroutensili, assume l’architetto Peter Behrens che, influenzato dalle idee di Muthesius, si trova il compito di progettare una serie di nuovi edifici in cui dovranno concretizzarsi le sintesi tra forma e funzione. Il più famoso di essi è la AEG-Turbinenfabrik di Berlino. Behrens diventa quindi strategico non solo perché progetta parte degli edifici AEG, ma perché progetta anche i prodotti e la comunicazione pubblicitaria dell’azienda.

Lo studio di Behrens diventa una fucina di giovani architetti che da lì a breve diventeranno i maestri del Movimento Moderno: Walter Gropius, Ludwig Mies, van der Rohe e anche Le Corbusier.
Nel medesimo clima, oltre a Behrens, si forma anche il suo allievo Walter Gropius. Il giovane Gropius riprenderà gran parte dei motivi ideali che hanno ispirato il Werkbund, rielaborandoli e, come vedremo, trasferendoli nel celebre esperimento didattico del Bauhaus.

Decisive per la Germania stessa saranno le due esposizioni: quella di Colonia nel 1914 e quella di Stoccarda nel 1927, ricordate tra gli eventi più significativi per comprendere il portato epocale del Deutscher Werkbund. Nell’Esposizione di Colonia, Van de Velde, Behrens e Gropius presentano esempi significativi di architettura e design di ambienti in acciaio, cemento e vetro. Invece, nel 1927 a Stoccarda (Weissenhof), sono presentati i progetti di molti architetti europei che anticipano tematiche riguardanti la produzione standardizzata di unità di abitazione.

 

Il Bauhaus

Il 1° aprile 1919, Walter Gropius fonda in Germania a Weimar il Bauhaus, scuola di arte, architettura e design che opera in Germania dal 1919 al 1933, nel contesto storico-culturale della Repubblica di Weimar. Il Bauhaus ha sede a Weimar dal 1919 al 1925, a Dessau dal 1925 al 1932, e a Berlino dal 1932 al 1933. Chiuderà i battenti nell’agosto del 1933 in quanto invisa al nazismo e in seguito ad alcune incursioni della polizia.

Per comprendere l’importanza innovativa del Bauhaus va tenuto conto delle particolari condizioni socioeconomiche e culturali della Germania prima e durante la Repubblica di Weimar. I temi di discussione, formazione e sperimentazione del Bauhaus si inquadrano nell’ampio rapporto arte-industria, cultura-produzione e si inseriscono all’interno dell’organizzazione della produzione manifatturiera e del fordismo, dei concetti di produttività, razionalizzazione e tipizzazione. Si comincia a parlare di “scienza della forma”, peraltro prestando attenzione ad allineare la produzione estetica ai bisogni di ampi strati sociali.

Che si parta dalla progettazione e realizzazione di un oggetto, di un prodotto, piuttosto che da una scenografia o un’architettura, l’approccio metodologico riguarda le leggi di natura funzionale, economica, gestaltica (strutturante la forma) riferite ai processi di lavorazione industriale, purché sempre con attenzione alle esigenze sociali. È proprio in queste visioni e prassi che si riconosce il contenuto culturale e politico innovativo del Bauhaus.

L’innovazione del Bauhaus sta proprio nella sintesi tra le esigenze della produzione industriale (tecnica, lavorazione e materiali) e le esigenze sociali, e da qui la necessità di pensare in termini di pianificazione sociale. Quindi, se l’attività di progettazione è finalizzata a creare prodotti accessibili alla massa, mantenendo un alto grado di funzionalità, si è attenti al valore del bene pensato.

A mio avviso, è in questo senso più ampio che va inteso il concetto di funzionalità, che implica non solo le performances dei prodotti, ma anche il valore e la cultura del progetto secondo una prospettiva sociale, con l’intento di “governare le condizioni di vita e di lavoro” (Moholy-Nagy Bauhaus 1923-1928).

Per comprendere l’interessante evoluzione che lo stesso Bauhaus ha negli anni, riporto qui alcune citazioni e riflessioni (tutt’ora aperte) utili a comprenderne la portata culturale-innovativa.

Il Bauhaus (Weimar) è stato la scuola d’arte più importante e autorevole del XX secolo … fu concepito come un’istituzione antiaccademica in cui, nell’ambito di un corso di studi basato sul pluralismo didattico, si privilegiava l’invenzione creativa piuttosto che l’imitazione. … In media era frequentata da centocinquanta allievi, per il venticinque per cento stranieri e per la metà donne … divenne un luogo d’incontro dell’avanguardia europea. Tutti i movimenti d’avanguardia, dall’Espressionismo al Futurismo, da Dada a De Stijl al Costruttivismo, esercitarono un’influenza sulle teorie e sulla produzione artistica della scuola. (Bothe 2000).

Ciò che ancora oggi mi lega profondamente al Bauhaus non sono tanto le mille piccole o grandi cose che di solito gli vengono riconosciute, ma piuttosto la grande lezione che i protagonisti del Bauhaus – i “Bauhausler” – ci hanno lasciato in eredità. E cioè l’irrinunciabile voglia di cercare, con tutti i mezzi, di dare risposte socialmente e culturalmente innovative alle esigenze della fase storica in cui ci tocca in sorte di vivere. (Tomas Maldonado)

Ripercorrendo l’interesse di Tomàs Maldonado per il Bauhaus, Raimonda Riccini scrive:

Fra i tantissimi elementi a cui attingere, vorrei limitarmi soltanto ad un paio di essi: 1) la questione Bauhaus come punto di partenza per ripensare la formazione nel campo delle discipline progettuali, sia come attività di insegnamento e organizzazione di strutture formative, sia come costruzione di una teoria pedagogica razionalmente fondata; 2) la questione Bauhaus come snodo della riflessione sulla dimensione politica, prima ancora che culturale, delle attività progettuali. (Riccini 2009: 111).

 

La Scuola di Ulm

Nel 1955, si inaugura ufficialmente a Ulm, sempre in Germania, la Hochschule Fuer Gestaltung (HFG) con il discorso di apertura tenuto da Walter Gropius e da Max Bill. Bill ha studiato al Bauhaus ed è rettore a Ulm fino al 1956. La scuola vivrà sei diverse fasi evolutive, tramite le quali si configurerà come una delle esperienze formative europee tra le più avanzate.

Fra i primi docenti della HFG ci sono Otl Aicher, Hans Gugelot e Tomàs Maldonado. Negli anni se ne aggiungeranno altri, fra cui Gui Bonsiepe.

La scuola rielabora fin da subito la preziosa eredità bauhausiana, in coerenza con il nuovo contesto storico. Si conferma che l’impegno preso con l’industria troverà sempre sintesi con l’impegno preso con la società. Al contempo, in quella fase storica immediatamente successiva alla Seconda Guerra Mondiale, si avverte la necessità di una ridefinizione culturale del concetto di modernità.

La formazione di un nuovo tipo di progettista deve pertanto sapersi porre in modo dialettico rispetto alle esigenze della vita quotidiana delle persone e alla necessità di arricchire culturalmente nelle condizioni allora difficili della società capitalistica. Per questo diventa fondamentale fornire una solida base metodologica al lavoro progettuale.

Vengono introdotte diverse discipline scientifiche come cibernetica, ergonomia, tecniche matematiche, economia, fisica, politologia, psicologia, semiotica, sociologia e teoria dei sistemi e della scienza. Tali discipline determineranno svolte importanti per la teoria, la pratica e l’insegnamento del design e della comunicazione.

Particolare interesse riveste la relazione tra la scuola e la collaborazione di alcuni suoi docenti con la ditta Braun di Francoforte, per la quale Maldonado confermerà lo svilupparsi di uno “stile Braun”, da alcuni abusivamente chiamato anche “stile Ulm”. Tale stile evidenzia l’unitarietà stilistica dei suoi prodotti: “l’unità nell’unità” che lo stesso Maldonado riconosce come diversa dallo “stile Olivetti”, nel quale egli intravvede “l’unità nella diversità”.

Renato de Fusco (filosofo-storico dell’architettura e della progettazione) dice della scuola: “Se la scuola di Ulm non fosse esistita, oggi avremmo difficilmente la possibilità di articolare un discorso non mercantile sul design” (de Fusco2012: 177).

Prima di passare al contesto italiano, va ricordata l’interessantissima esperienza europea del design scandinavo che dagli anni ’50 si esprime nei cinque paesi nordici di Danimarca, Finlandia, Islanda, Norvegia e Svezia generando un’identità estetica e culturale del design nord europeo, che molto influenzerà l’Italia. In tale esperienza si esprime il medesimo desiderio di modernità e innovazione nel design, in quella nuova tendenza dove si pone il processo creativo della progettazione in relazione alle nuove tecnologie industriali. Va evidenziato che i designers scandinavi sviluppano uno stile esemplare molto sensibile agli elementi del mondo naturale, anticipando una cultura ambientale che influenzerà non poco cultura, materiali ed estetiche del design.

 

Il caso del design italiano

In nessun paese si è pubblicato tanto riguardo al design come in Italia. Dopo la seconda guerra mondiale designer aziende e media hanno compreso con grande abilità come occupare un territorio al quale erano stati destinati per tradizione…Il modo di vivere ed il design italiano sono stati comunicati in una grande quantità di mostre, cataloghi, volumi illustrati, riviste e filmati…Il design inteso come parte costitutiva di un’opera d’art totale della cultura poteva svilupparsi solo in Italia. (Burdek 2008: 101).

Il design è dunque una disciplina di frontiera, che si pone a diaframma fra l’area più squisitamente scientifica del fare e la sua traduzione attraverso i canoni dell’area umanistica alla quale l’operatore attinge per codificare – o decodificare – i linguaggi che utilizza… La storia, e la cronaca, delle fortune del design italiano, che di fatto coincide, e non sorprendentemente date le premesse, con le fortune del design milanese (un episodio culturale d’estremo interesse anche se di estrema contraddittorietà), è di fatto la storia e la cronaca del nostro processo di industrializzazione. (Grassi & Pansera 1980: 12–13)

A tutt’oggi al design italiano viene riconosciuto un predominio nel mondo grazie alla sua predisposizione creativa alla sperimentazione e a un rapporto straordinariamente sinergico col tessuto delle imprese e della cultura. Grazie soprattutto a una propria vivacità intellettuale e critica, il design italiano ha saputo costruire un ambiente culturale che lo ha visto in una relazione fertile con intellettuali, studiosi e artisti del mondo dell’architettura, della filosofia, delle arti, della letteratura, della moda e della musica.

Questo rappresenta un aspetto innovativo anche dal punto di vista culturale. Tale aspetto merita almeno un rapido sguardo che, seppur incompleto, è indubbiamente significativo di quanto si viene a coagulare in Italia tra mondo dell’impresa, della cultura, dell’editoria e della rappresentanza già nella seconda metà del secolo scorso.

A questo proposito ricordiamo come accanto ad alcune tra le aziende italiane più prestigiose dei diversi settori produttivi (Ferrari, Lamborghini Maserati, Piaggio, Pirelli, Brionvega, Olivetti, Artemide, Flos, Kartell, Danese, Guzzini, Zanotta ecc.), l’ambiente culturale del design italiano si avvale di personalità particolarmente interessanti dal punto di vista professionale, filosofico, scientifico e artistico. Solo per citarne alcune ricordiamo Giulio Carlo Argan, Gillo Dorfles, Giò Ponti, Vittorio Gregotti, Enzo Paci, Aldo Rossi, Umberto Eco, Augusto Morello, Lucio Fontana, Bruno Munari, i fratelli Castiglioni, Albe Steiner, Anna Castelli Ferrieri, Gae Aulenti, Cini Boeri, Anty Pansera, Rodolfo Bonetto, Ettore Sottsass, Andrea Branzi, Alessandro Mendini, Mario Bellini, Giorgio Pininfarina, Giugiaro e molti altri.

Nato in Argentina e residente in Italia dagli anni Cinquanta, Tomàs Maldonado è certamente una personalità tra le più influenti che hanno contribuito a promuovere il disegno industriale sia dal punto di vista intellettuale e della elaborazione teorica, sia per la fertilizzazione internazionale del design italiano. A questo proposito, il collegamento diretto con la scuola di Ulm, dove ha insegnato, ha permesso innesti molto interessanti tra scuole (ULM) designer (Hans Von Klier, Andries Van Onck) e imprese (Olivetti).

Va qui menzionata la pionieristica Scuola Politecnica del Design (SPD) di Milano fondata da Nino di Salvatore nel 1954, che vide tra i suoi docenti lo stesso Maldonado e Attilio Marcolli – suo il testo “La Teoria del Campo”. SPD è la prima scuola di progetto in Italia, nata anagraficamente con lo sviluppo del design italiano che ha contribuito a diffondere nel mondo. Si aggregano intorno a SPD personalità di primo piano provenienti dal mondo dell’arte, del progetto e della cultura scientifica, nomi che hanno contribuito all’affermazione del design italiano. Bruno Munari, Max Huber, Pino Tovaglia, Rodolfo Bonetto, Walter Ballmer, Alberto Rosselli, Isao Hosoe, Heinz Waibl hanno tutti insegnato alla Scuola Politecnica di Design apportandovi una grande apertura sperimentale e un approccio umanistico interdisciplinare. Nella sua evoluzione, la scuola ha preservato la sua caratteristica essenziale, la combinazione inedita di strumenti teorici e operativi solo apparentemente lontani – l’ergonomia, la semiotica, gli studi sulla percezione, gli spunti provenienti dall’esperienze dell’arte cinetica –, caratteristica che le ha consentito di formare generazioni di professionisti consapevoli.

Fondamentale in quegli anni è la città di Milano e in particolare il ruolo della Rinascente, grande storico magazzino milanese:

[La Rinascente rappresenta] l’occasione per consolidare, attraverso una serie di importanti iniziative, i rapporti con la grafica, l’architettura e soprattutto con il design, che in quel periodo comincia ad assumere una sua organicità culturale, professionale e disciplinare.                                                                                                                                                       …È in questo clima di fattiva costruzione di una contemporanea cultura del design, che nel 1954 la Rinascente istituisce il premio Compasso d’Oro. Nato da un’idea di Gio Ponti e Alberto Rosselli e fortemente sostenuto da Aldo Borletti e Cesare Brustio … il riconoscimento era rivolto ai migliori risultati della produzione industriale. (La Rinascente).

Per capire la particolare innovazione espressa dal “sistema design italiano” nelle sue origini, altri due elementi sono strategici. Da una parte troviamo un settore di editoria e pubblicistica molto qualificata (Abitare, Casabella, Domus, Interni, Modo, Ottagono, Rassegna ecc.). La rivista Stile Industria fondata nel 1954 dall’architetto e designer Alberto Rosselli (1921-1976) si rivela fin da subito uno strumento culturale e informativo imprescindibile per designer e imprenditori. In Stile Industria, il concetto di “disegno industriale” – che tiene insieme funzionalità, materiali, ergonomia, marketing, brand – viene sottoposto a un continuo e costruttivo dibattito.

Dall’altra parte, a svolgere un ruolo decisivo/strategico [scegline uno] per la crescita, la formazione e la diffusione internazionale del design italiano, è la nascita dell’Associazione per il Disegno Industriale dei designer italiani (ADI). Dal 1956, l’ADI riunisce progettisti, imprese, ricercatori, insegnanti, critici e giornalisti intorno ai temi del design: progetto, consumo, riciclo e formazione. ADI è protagonista dello sviluppo del disegno industriale come fenomeno culturale ed economico. È un interlocutore privilegiato delle istituzioni nazionali e internazionali. Essa conferisce inoltre una delle onorificenze più prestigiose a livello internazionale, il “Compasso d’Oro” promosso proprio dalla Rinascente. (ADI).

Tra le aziende italiane che nel secolo scorso hanno avuto un ruolo determinante nello sperimentare il potenziale innovativo del design, certamente l’esempio più significativo è rappresentato dalla Olivetti di Ivrea. Nella sua evoluzione, quest’azienda vede interagire tecnologi, scienziati, artisti e umanisti. Essa rappresenta il connubio design-impresa all’interno di un contesto unico nel suo genere, in cui la responsabilità sociale e la cultura d’impresa hanno forti caratteristiche etiche.

Indipendenza, centralità della persona umana, comprensione profonda dei valori della cultura, progresso tecnologico e scienza come strumenti per progettare e regolare, “a misura d’uomo”, le istituzioni democratiche e il mondo produttivo: nell’adesione ai principi olivettiani. (Edizioni di Comunità).

Tutto ciò rappresenta per il design la sperimentazione più alta delle sue nuove potenzialità, chiaramente sollecitate dal mutamento della produzione industriale in senso culturale e tecnologico. I nuovi materiali e la microelettronica offrono al design nuovi orizzonti da esplorare e una nuova consapevolezza.

 

Olivetti e il design

Olivetti è un’impresa italiana tra le più importanti aziende al mondo, inizialmente attiva nel campo delle macchine per scrivere, poi in quelle da calcolo e dell’elettronica. Viene fondata nel 1908 a Ivrea dall’ingegnere Camillo Olivetti. Nel 1933, il figlio di Camillo, Adriano Olivetti, assume la direzione dell’azienda e dal 1935 Marcello Nizzoli (designer, architetto e pittore) inizia a lavorare per la Olivetti come grafico e come designer. Successivamente, molti altri designer progettano per Olivetti: Lodovico Belgioioso, Enrico Peressutti, Ernesto N. Rogers, Mario Bellini, Rodolfo Bonetto e altri.

Olivetti costituisce un esempio unico di impresa in cui si promuove il valore della cultura come fattore di crescita della società, dalla fabbrica e del territorio. Un esempio che ben presto diventa il più prestigioso del design italiano nel mondo. Dal 1954 al 2001 tredici prodotti di Olivetti riceveranno il prestigioso premio “Compasso d’Oro”.

Dall’Associazione Archivio Storico Olivetti:

“Dobbiamo far bene le cose e farlo sapere”. Con queste parole Adriano Olivetti intendeva che l’impresa, oltre a ricercare l’eccellenza in tutte le attività, deve anche saper comunicare i suoi valori e costruire un’immagine che sia l’espressione veritiera della realtà aziendale. L’impresa può comunicare con il design di un prodotto, con l’architettura di una fabbrica, l’arredo di un negozio, la grafica di un poster, il testo o il disegno di una pubblicità… La bellezza dei prodotti, degli edifici, dei poster o dei messaggi pubblicitari nella tradizionale cultura Olivetti non ha un valore solo formale: la bellezza della forma comunica la realtà dell’azienda e perciò ha un valore sostanziale. Le scelte estetiche in tutte le aree di attività sono considerate importanti quanto le scelte tecnologiche o gestionali. Lo “stile Olivetti” nasce da questa cultura che permea ogni fase della vita aziendale, ma che affida al prodotto e al suo design un ruolo centrale. (Archivio Storico Olivetti)

Nel 1959 Olivetti presenta al mondo l’Elea 9003, “il primo calcolatore elettronico commerciale progettato e prodotto in Italia. (…) L’Elea 9003 sarà un successo dal punto di vita tecnologico e scientifico e un modello innovativo sotto molti aspetti: dal metodo di lavoro al design firmato Ettore Sottsass” (Gazzarri 2021: 01).

 

Il Design e l’avvento del digitale avanzato

La relazione del design con la rivoluzione tecnologica dell’era digitale comporta una rielaborazione profonda che rimette in discussione buona parte delle sue migliori competenze. Tra queste l’ergonomia, che focalizza l’attenzione sulla centralità dell’essere umano. Dopo l’esperienza del rapporto essere umano-macchina del periodo tayloristico e l’elaborazione di criteri progettuali di design for all, l’essere umano deve ora interagire con la tecnologia informatica e la varietà degli ambienti di attività in cui il design può intervenire. “L’ergonomia estende i suoi campi d’interesse affiancando allo studio delle postazioni e dei processi lavorativi, interventi di valutazione e progettazione in tutti i campi delle attività umane” (CIIP 2014: 9).

All’interno delle tecnologie ICT, nuove metodologie vanno quindi ad arricchire la cassetta degli attrezzi del designer. L’approccio dello user-centered design pone al design l’elaborazione di nuove metodologie progettuali, unitamente al concetto di “usabilità”. Tale concetto comporta una progettazione in termini di efficacia, efficienza e soddisfazione d’uso, in cui diventa importante lo studio degli stessi ambienti, comportamenti e contesti d’uso. Lo studio della psicologia degli oggetti, degli utenti e dei contesti d’uso (user experience) comporta per il design nuove competenze e nuovi approcci cognitivi interdisciplinari (psicologia ed ergonomia cognitiva, neuroscienze ecc.).

 

Design tra tecnologie intelligenti, ricerca, materiali ed economia circolare

La rapida evoluzione delle tecnologie digitali ha portato a un continuo incremento di usabilità, dispositivi intelligenti e contesti applicativi interconnessi, che stanno trasformando la nostra vita e il nostro habitat.

Sappiamo che lo scenario futuro per il design è fortemente caratterizzato dalle biotecnologie, nanotecnologie, sistemi intelligenti. Infatti Intelligenza Artificiale, Internet degli Oggetti, robot e piattaforme tecnologiche sono per il design alcuni degli strumenti-ambienti di “nuova interazione” (interaction design), nei quali è opportuno che il design si ponga come progettista di sintesi interdisciplinari e politecniche. Occorre prestare sempre più attenzione alle implicazioni psicologiche, comportamentali e sociali che ogni nuovo progetto e implementazione creeranno, agli effetti ambientali in cui impatteranno.

A questo punto si pone una questione di fondo che riguarda la consapevolezza del nuovo ruolo che le tecnologie e i nuovi materiali coi loro impatti richiedono. Ecco che l’innovazione non può essere solo metodologica e alimentata da nuove competenze, ma sostanziale, valoriale, di visione sistemica, per un’assunzione di una “nuova responsabilità”, nel senso più politico del termine, nel quale coinvolgere imprese, territori e istituzioni. Intendo con ciò la necessità che un nuovo pensiero critico si esprima chiaro su come governare con efficacia predittiva e consapevolezza le conseguenze delle trasformazioni. In questo senso il collegamento tra il design per la sostenibilità ambientale e il design dell’economia circolare rappresenta un contributo importante perché si adotti un sistema virtuoso e sostenibile che sia comprensivo di persone, energia, risorse naturali e risorse economiche. Interesse particolare assume l’esperienza del circular product design, che si basa sui concetti di manutenzione, riuso e riciclo come strumenti per allungare la durata del ciclo di vita dei prodotti.

Tuttavia, questi stessi criteri vanno impiegati sia dal design delle comunità, degli ambienti e dei momenti della vita, sia da quello dei territori e delle città attivando forme di co-progettazione sociale che coinvolgano le forme istituzionali ed economiche per un design di governo culturale territoriale.

Questo design è di fatto immerso nella quarta rivoluzione digitale in una nuova relazione con le imprese:

In una stagione di crisi delle democrazie liberali e delle relazioni tra democrazia e cultura di mercato, sarebbe riduttivo pensare all’impresa esclusivamente come una macchina che genera profitto. Ecco perché diventa rilevante parlare di “impresa riformista” (Antonio Calabrò 2019).

Pertanto, a quale altra concezione sarebbe opportuno portare la storica definizione di disegno industriale, oggi che il “sistema design” ha a che fare con lo sviluppo della società contemporanea, con le politiche e i governi, gli ambienti, le comunità, le alterità e le territorialità, nei quali bisogna recuperare dalla propria storia la capacità di generare pensiero e futuro?

Per rispondere a questa domanda si sente la necessità di stimolare un nuovo movimento culturale, economico e sociale, capace di trasformare la scena di ogni dimensione che ci circonda: spingere le imprese, le comunità e le istituzioni a stimolare l’accesso alle conoscenze e alle competenze per investire sulla trasformazione.

Ciò significa che il design può ritrovare quel ruolo intellettuale, forte dei risultati concreti che da sempre è stato capace di produrre con “l’irrinunciabile voglia di cercare, con tutti i mezzi, di dare risposte socialmente e culturalmente innovative alle esigenze della fase storica in cui ci tocca in sorte di vivere”. (Maldonado-Riccini 2009: 111). In questo senso diventa utile raccogliere i dati dal Report di Symbola Design Economy (2020),

 

Symbola: il design e l’innovazione

Per avere un quadro di riferimento concreto dell’impatto che il design produce sull’economia e sull’offerta formativa, riprendiamo quanto è stato presentato il 26 novembre 2020 dalla Fondazione Symbola, Deloitte Private e POLI.design. “Da oltre quindici anni Symbola analizza la relazione tra green economy, creatività, coesione sociale e competitività – in termini di occupati, fatturato ed esportazioni” (Symbola 2020).

I risultati del report di Symbola Design Economy 2020 mirano ad accrescere la consapevolezza del valore del design per la competitività del sistema produttivo nazionale. I dati seguenti suggeriscono un quadro economico riferito ai risultati prodotti da imprese e design. L’Italia è il Paese europeo con il maggior numero di imprese in ambito design (34.000 mila), che offrono occupazione a 64.551 lavoratori e generano un valore aggiunto superiore a 3 miliardi di euro. Il nostro Paese contribuisce al 14,8% del giro d’affari a livello UE, dietro a Regno Unito e Germania, ma il 53,4% del nostro tessuto imprenditoriale è frammentato tra liberi professionisti e piccolissime imprese. Le imprese che nel 2019 hanno investito in design e green economy risultano più competitive in termini di fatturato, addetti ed export. Quanto alla formazione, le domande al test di ingresso per la laurea triennale a livello nazionale superano di quattro volte i circa 3.300 posti disponibili. Milano si conferma capitale del Design: la città assorbe il 18,3% dell’output nazionale e conta il 14% degli addetti in Italia.

 

Symbola: L’economia del Design: una fotografia in Italia e in Europa

Il settore del design in Europa conta un numero di imprese pari a circa 217.000 unità. L’Italia, con quasi 34.000 mila imprese, rappresenta circa il 15,5% dell’intero sistema del design comunitario, collocandosi saldamente al primo posto per numero di imprese, davanti a Germania e Francia. Il primato del nostro Paese, che offre impiego a 64.551 lavoratori con un valore aggiunto superiore a 3 miliardi di euro, è in parte attribuibile al forte legame tra design e Made in Italy, ma è caratterizzato anche da un’eccessiva frammentazione della struttura imprenditoriale nazionale. Quest’ultimo fattore spiega perché, nonostante un primato in termini di numero di aziende, Germania e Regno Unito registrino un livello di occupazione e un volume d’affari superiori a quelli italiani. Infatti, il complesso dei Paesi UE registra un volume di vendite pari a 27,5 miliardi di euro, e l’Italia ne alimenta da sola il 14,8%, in terza posizione dietro al Regno Unito (24,5%) e alla Germania (16,4%), ma largamente davanti a Francia (9,2%) e Spagna (4,6%). I settori industriali italiani che fanno maggiore ricorso al Design sono legno arredo, abbigliamento e automotive.

In Italia, il divario tra microimprese e grandi aziende è profondo: liberi professionisti e microimprese (meno di 100mila euro di fatturato) incidono ancora per oltre la metà dell’occupazione (53,4%), mentre le imprese con fatturato superiore a 5 milioni di euro hanno un’incidenza occupazionale dell’8,4%. Nel nostro Paese, pertanto, la maggior parte delle imprese si collocano nei segmenti piccola e micro impresa.

 

Symbola: La formazione italiana in ambito Design

Pur con molte differenze e caratterizzazioni, il sistema formativo italiano del Design è un’eccellenza che conta ben 18 Università, 15 Accademie delle Belle Arti, 15 Accademie Legalmente Riconosciute, e 11 Istituti privati autorizzati a rilasciare titoli AFAM e 6 ISIA, per un totale di 242 corsi di studio distribuiti in vari livelli formativi e diverse aree di specializzazione (Product, Communication, Fashion, Space) Nel complesso vengono formati 8.244 designer di cui 3.822 in Università e 4.422 unità del comparto AFAM. Si può osservare come un numero sempre maggiore di studenti scelga le Accademie Legalmente Riconosciute e gli Istituti privati autorizzati al rilascio di titoli AFAM. La maggior parte dei corsi di laurea triennale sono a numero programmato, con un numero di iscrizioni al test di ingresso di circa 13.000 domande, che supera di quattro volte i circa 3.300 posti disponibili. Il moltiplicarsi dell’offerta formativa, l’alto numero di richieste di iscrizione rispetto ai posti disponibili e il continuo estendersi degli ambiti professionali del designer, se da un lato decretano il successo dell’offerta formativa nazionale, dall’altro rendono necessaria una riflessione su confini, specificità e qualità della didattica. Circa il 70% degli studenti ha conseguito una laurea triennale o un diploma accademico di I livello, mentre il 21,3% ha approfondito gli studi conseguendo una laurea magistrale o un diploma accademico di II livello. Infine, solo l’8,7% ha perfezionato la propria formazione con master di I o II livello.

 

Design tra natura e ricerca – alcuni esempi

Se fino ad ora abbiamo privilegiato il rapporto tra design e mondo artificiale, è opportuno ora dedicare un discorso a sé stante al design della natura. Infatti, da anni esiste in Italia una realtà straordinariamente interessante della ricerca e della progettazione tra tecnologia, natura e design, che hanno attivato strategie di ricerca e progettazione per la realizzazione di prodotti “ibridi” come spiega egregiamente Carla Langella nel suo libro Hybrid design (2007). Ricordiamo qui l’importanza del lavoro dell’Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli.

L’hybrid design è un campo complesso e multiforme di ricerca tra design e biologia, basato sull’idea che i processi naturali possono essere osservati rispetto alle loro dinamiche evolutive plurali. Ci troviamo qui di fronte a un ambito altamente interdisciplinare che richiede competenze diverse e approcci interdisciplinari tra settori differenti quali la biologia, l’ingegneria, la fisica, la chimica, le scienze dell’informazione e il disegno industriale.

Si ricorda che l’ambito disciplinare del “progetto bio-ispirato” al quale l’hybrid design fa riferimento è nato negli anni Cinquanta con la bionica. Tale ambito si è evoluto, successivamente, con quelle discipline definite nel linguaggio anglosassone biomimetics e biomimicry, che si rivolgono alle scienze biologiche per trovare soluzioni ai problemi progettuali.

Nel design bio-ispirato si possono riconoscere i seguenti diversi e complessi livelli (Langella 2007: 50):

  • Il livello architettonico, che suggerisce al design analogie con strutture costruite dagli organismi viventi quali gli alveari o le tane degli animali;
  • Il livello morfologico-strutturale, nel quale l’imitazione delle biostrutture parte dall’osservazione di cellule, ossa, tessuti biologici, gusci di mitili ecc.;
  • Il livello biochimico, nel quale sono trasferiti i meccanismi biochmici osservati nei sistemi biologici, ad es. l’effetto di luminescenza delle lucciole o della fotosintesi clorofilliana [non fa luce, ma ha bisogno della luce per avvenire];
  • Il livello funzionale, che suggerisce l’imitazione di sistemi biologici come le funzioni anti-attrito della pelle degli squali o dei meccanismi animali di termoregolazione in situazioni estreme;
  • Il livello comportamentale, che si riferisce al trasferimento di comportamenti di tipo reattivo o protettivo;
  • Il livello dell’organizzazione, stadio di astrazione massima che consiste nel trasferire strategie organizzative o auto-organizzative proprie dei sistemi biologici.

In tema di design experience, Sabrina Lucibello (2019) documenta l’interessante ricerca che esplora le interfacce materiche interattive, con attenzione agli aspetti polisensoriali e basati sulla parametrizzazione di caratteristiche percettivo-sensoriali dei materiali, legate alle proprietà ottiche, tattili, olfattive e acustiche. Tali proprietà sono fondamentali per la produzione di “immaginario” per i concept del design cognitivo. Su queste ricerche, si ricordano le sperimentazioni metodologiche e didattiche delle ricercatici Marinella Ferrara e Lorena Trebbi.

A sintesi delle frontiere della ricerca sul design, va segnalato il Laboratorio Interdipartimentale sull’Environmental Design and Multisensory Experience (EDME), al quale si aggiunge il potenziamento del Teatro Virtuale presso il Dipartimento di Design, ideato e diretto dal Prof. Mario Bisson del Dipartimento di Design del Politecnico di Milano.

Documento direttamente dal sito ufficiale del prof. Mario Bisson:

[Il Laboratorio] promuove un corpus disciplinare trasversale, focalizzato sui processi di progettazione di ambienti smart, flessibili, adattativi ed ecocompatibili; ambienti che integrano il design dello spazio con i fattori percettivi e tecnici del colore, dei materiali e della luce, degli odori, della rappresentazione multimediale di fenomeni complessi, della realtà virtuale e aumentata, dell’interazione fisica con gli oggetti e con l’ambiente, i suoi dispositivi digitali e i suoi artefatti. Si avvale di conoscenze legate, oltre che al design, all’ICT, all’ingegneria dei materiali, alla sostenibilità dei sistemi, all’arte, alle neuroscienze, all’innovazione dei prodotti e dei processi industriali. Il Laboratorio è organizzato sul tema dell’esperienza virtuale interattiva multisensoriale. Esso risponde alla necessità di uno spazio fisico con tecnologia ICT innovativa (di proiezione, modellazione, sensoristica, luce, rappresentazione multimediale, interazione) svolte e materiali di ultima generazione per svolgere ricerche che coinvolgono simulazioni di attività e interazioni complesse (ad esempio nel settore bio-medico, ambientale, di produzione industriale, di riabilitazione, di entertainment, di marketing esperienziale) e previsioni sugli aspetti percettivi e di controllo digitale degli ambienti dove tali attività avvengono.

 

Conclusioni

In questa riflessione sulla relazione tra design e innovazione, ho cercato di evidenziare come il design rappresenti una delle leve strategiche più importanti per rispondere alle istanze d’innovazione, per come emergono sia nel contesto economico-produttivo, sia in quello della ricerca-progettazione-multidisciplinarità, sia in quello socio-culturale.

Considerata la formidabile trasformazione ed evoluzione del design, mi sembra che si renda più che mai opportuna l’elaborazione di un nuovo pensiero critico-rigenerativo del design attuale e dei suoi orizzonti. Un pensiero che permetta un approccio più sistemico, che superi i limiti dell’iperspecialismo settorializzante, ancora presente in diversi settori della ricerca e della formazione.

E a questo punto si potrebbe pensare di definire un nuovo concetto di responsabilità, capace di alimentare un’etica e una prassi orientate alla ricomposizione della frattura (epocale) generatasi tra l’intensità dei cambiamenti climatici, il diffondersi delle pandemie e la velocità del progresso scientifico e tecnologico?

Fenomeni che richiedono nuovi quadri di interpretazione, di implementazioni complesse e di governo.

A mio avviso questo contesto sollecita una cultura del progetto inedita: molto più interdisciplinare e politecnica, decisamente sinergica con tutti i settori del mondo della ricerca, e della società, in cui cultura e prassi siano fondate non solamente sulle buone pratiche (good design), ma diventino ispiratrici di “una nuova modernità”. In un’ottica di comunità, di valorizzazione della prossimità, condividendo quel senso di destino comune, di “Terra patria”, di cui parla Edgard Morin (1994). Una cultura del progetto dove le visioni di progresso e di futuro siano alimentate da valori di inclusività e proattività, contribuendo a rendere più sostenibile, equa, intelligente e competitiva la nostra società, più tutelato e confortevole il pianeta.

Stiamo assistendo al passaggio dal design della sostenibilità ambientale al design attuatore di valore da economia circolare e di rilancio di una nuova cultura del progetto, dell’impresa e dei territori.

Mi sembra interessante qui ricordare l’affermazione di Francesco Zurlo (Presidente di POLI.design e Preside Vicario presso la Scuola del Design, Dipartimento di Design, Politecnico di Milano) alla presentazione del 20 novembre 2020 con Symbola e Deloitte, dedicata al tema dell’Economia del design in Italia e in Europa:

È infatti in atto una progressiva integrazione di skills e capacità proprie del design nelle organizzazioni, nelle istituzioni, nella società, con l’avvio di un dialogo diretto con i decision maker di questo sistema… verso una dimensione più “nature” centred, attenta non solo all’utente, ma anche alla società, alla cultura, all’economia e all’ambiente.

Innovazione quindi anche nelle metodologie di studio e di prassi che vanno rielaborate per riuscire a dare “soluzioni di senso” alla complessità di processi, materiali e immateriali, e forse poter ricomporre un nuovo progetto democratico e sostenibile.

La realizzazione e la valorizzazione di spazi istituzionali dedicati alla ricerca e alla cultura del progetto, dell’impresa e dei territori trova in tutta Italia e in tutte le città terreno fertile, nelle reti museali e negli atenei, nei laboratori e nelle imprese, così come nei vari luoghi della cultura nei quali è possibile tornare ad incontrarsi. Qui vorrei sottolineare potenziale che il terzo settore potrebbe offrire al design sociale e compartecipato.

Infine, va riconosciuta l’importanza strategica dei musei della cultura di impresa (Associazione Musei e Archivi di Impresa), della Triennale milanese e soprattutto di ADI Museum-Il Museo del Compasso d’Oro. Tali musei stanno sperimentando una fase di radicale innovazione, la quale sta contribuendo a creare i presupposti di una rinascita culturale e intellettuale che coinvolge tutto il Paese e lo valorizza nel mondo. In questo senso, è emblematico l’esempio del Salone del Mobile e della Settimana del Design, che sono diventati straordinari eventi economici, sociali e culturali di forte richiamo internazionale.

Il design è quindi sollecitato a rielaborare la storica cultura del progetto per esplorare nuove modalità di pensiero sistemico e di intervento complesso, capaci di fecondare e arricchire l’attuale ruolo di progettista, di formatore e di ricercatore consapevole dei nuovi orizzonti, dove esperienze diverse permettono di “raccogliere quella “biodiversità” di idee e contributi che è indispensabile alla ricchezza del pensiero” (Rovatti 2019: Prefazione).

In conclusione, si avvertono le condizioni per rielaborare un nuovo pensiero critico-costruttivo che ponga il design come riferimento di senso, che pensa e agisce per prodotti, servizi, sistemi e relazioni. Prodotti, servizi, sistemi e relazioni che devono essere dedicati-progettati alle-dalle persone, dalla politica e dalle comunità.

 

Fonti

ADI Associazione per il Design Industriale. “L’Associazione.” https://www.adi-design.org/associazione.html

ADI Design Museum. https://www.adidesignmuseum.org

Archivio Storico Olivetti. Olivetti, Storia di Un’Impresa. “Il design dei prodotti Olivetti”. https://www.storiaolivetti.it/articolo/89-il-design-dei-prodotti-olivetti/

ArtDream Guide. “Arts and Crafts.” Glossario: termini dell’arte moderna e contemporanea. http://www.artdreamguide.com/_glossa/_a/arts-and-crafts.htm

Bisson, Mario. “Conosci Mario Bisson”. Dipartimento di Design. www.dipartimentodesign.polimi.it

Bothe, Rolf. 2000. Bauhaus Weimar. Electa

Burdek, Bernhard E. 2008. Design. Storia, teoria e pratica del disegno del prodotto. Edizione ISIA

Calabrò, Antonio. 2019. L’Impresa Riformista. Bocconi: Egea.

CIIP Consulta Interassociativa Italiana per la Prevenzione. 2014. La Storia dell’Ergonomia. A cura della SIE – Società Italia per l’Ergonomia. http://www.societadiergonomia.it/wp-content/uploads/2014/07/Storia_Ergonomia.pdf

De Fusco, Renato. 2012. Filosofia del Design. Einaudi.

Edizioni di Comunità. “La Storia.” https://www.edizionidicomunita.it/chi-siamo/la-storia/

Gazzarri, Maurizio. 2021. ELEA 9003. Storia del primo calcolatore elettronico italiano. Edizioni di Comunità.

Grassi, Alfonso, e Anty Pansera. 1980. Atlante del Design Italiano 1940/1980. Gruppo Editoriale Fabbri.

Langella, Clara. 2007. Hybrid design. Franco Angeli.

La Rinascente. “Gli anni d’Oro 1954-1957. La Rinascente e il premio per il design.” https://archives.rinascente.it/assets/paths/2/LaRinascente_Gli%20anni%20d%27oro-a021afbfb3ffdef43a08d821bcdf2afa2e71afbc2675384c18289ca2a3a8be78.pdf

Lucibello, Sabrina. 2019. Esperimenti di Design. ListLab.

Maldonado, Tomàs. 1991. Disegno Industriale. Un Riesame. Feltrinelli.

Manzini, Ezio. 2018. Politiche del quotidiano. Edizioni di Comunità.

Morin, Edgar. 1994. Terra-Patria. Raffaello Cortina Editore.

Museimpresa. “L’Associazione Italiana Archivi e Musei d’Impresa”. https://museimpresa.com

Riccini, Raimonda. 2009. Tomàs Maldonado. Bauhaus. Feltrinelli.

Rovatti, Andrea. 2019. Confini del Design. ADI Associazione per il Design Industriale, Delegazione Lombardia. https://re.public.polimi.it/retrieve/handle/11311/1129615/490339/ConfiniDesign_Rovatti.pdf

Symbola. 2019. Design Economy 2020. https://www.symbola.net/live/design-economy-2020/

Tatò, Franco. 1995. “Alla ricerca di Enzo Paci.” Stile Industria n.2.

Van Onck, Andries. 1994. Il Senso della Forma dei Prodotti. Lupetti.

Pierangelo Marucco
marucco@per.it
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