
23 Apr Il voto in Francia che segnerà il futuro dell’Europa
di Michele Marchi
Spenti i riflettori sull’ultima giornata di campagna, la Francia attende l’esito del ballottaggio presidenziale con un misto di tensione e di distacco, sospesa tra la passione per l’unico momento elettorale ritenuto ancora degno di nota e le pulsioni antipolitiche del voto di protesta o dell’astensionismo del primo turno. Per fornire qualche spunto di riflessione, ci si soffermerà su quattro istantanee, due interne al quadro francese e due al dibattito italiano sul voto transalpino.
La prima immagine ci riporta a venti anni fa, a fine aprile 2002, quando il padre di Marine Le Pen si qualifica clamorosamente per il ballottaggio contro Chirac. Per due settimane si susseguono appelli e manifestazioni antifasciste e repubblicane. Il presidente uscente rifiuta il dibattito televisivo per evitare di legittimare la candidatura frontista. Il tutto si conclude con una schiacciante maggioranza dell’82% per Chirac, un aumento della partecipazione tra il primo e il secondo turno di otto punti percentuali e un Le Pen che aumenta il suo score solo di circa mezzo milione di voti. A venti anni di distanza, il sondaggio migliore, dal punto di vista del presidente Macron, parla di vittoria 57% a 43%; quello peggiore, sempre dalla sua prospettiva, parla di successo 54% a 46%. Già al primo turno Marine Le Pen ha ottenuto quasi quattro milioni di voti in più del padre nel 2002. Ma soprattutto il suo processo di “dediabolizzazione” o meglio di normalizzazione, iniziato un decennio fa prendendo la guida del partito e marginalizzando progressivamente proprio il padre, sembra giunto al suo punto massimo, indipendentemente dall’esito del ballottaggio di domenica 24 aprile. Una delle ragioni per cui non è proponibile il “barrage republicain” è legata alla quasi totale scomparsa elettorale dei due partiti cardine della V Repubblica, post-gollisti e socialisti, che insieme il 10 aprile hanno raccolto circa un quarto dei voti di Le Pen (e un quinto di quelli di Macron). Questa “normalizzazione” è un segnale patologico per la democrazia in Francia o il giudizio può essere almeno in parte rovesciato, sottolineando la capacità di assorbimento del modello francese di una forza politica antisistema?
La seconda istantanea in parte aiuta a fornire una risposta a questa domanda. La fotografia questa volta mette uno accanto all’altro i dibattiti televisivi del 2017 e del 2022. Cinque anni fa il duello è tra i due outsiders che hanno estromesso, per la prima volta contemporaneamente, socialisti e post-gollisti dal ballottaggio. Da una parte l’energico e competente enarca e dall’altro la “tribuna del popolo” con un risultato devastante per quest’ultima, giudicata quasi unanimemente non all’altezza del ruolo presidenziale, soprattutto per la sua scarsa conoscenza dei principali dossier. Il dibattito del 2022 è l’emblema di Marine Le Pen normalizzata, attenta a non eccedere negli attacchi e soprattutto impegnata nell’offrire il volto della madre di famiglia, pronta ad impegnarsi al capezzale del “malato francese”, in ascolto di fronte alle sue sofferenze. Macron è parso a suo agio nell’infilarsi tra le pieghe di questa normalizzazione, proponendo un approccio offensivo e agitando lo spauracchio di una possibile elezione all’Eliseo da scongiurare in quanto pericolosa prima di tutto per l’incoerenza del suo progetto economico e della sua postura sui temi dell’Europa e della geopolitica (con particolare riferimento al dossier russo sul quale si tornerà a breve). La candidata del RN avrà pure portato al punto massimo la dédiabolisation, ma rappresenta ancora un salto nel buio troppo grande per una realtà come quella francese. In fondo Parigi non è Budapest (e nemmeno Roma verrebbe da dire maliziosamente e pensando al 2018…) e i primi a rendersene conto dovrebbero essere proprio gli elettori francesi.
Citare Roma ci porta alle due istantanee direttamente legate al nostro dibattito politico guardando oltralpe. La prima è quella dell’ex Presidente del Consiglio e oggi leader del Movimento Cinque Stelle Conte che, sollecitato su una ipotetica scelta tra Macron e Le Pen, decide di non scegliere. La risposta “pilatesca” non deve sorprendere. In fondo il Movimento Cinque Stelle così come la Lega di Salvini sono le opzioni antisistema cresciute nel contesto italiano e trovano nel voto lepenista e in quello di Mélenchon uno speculare riferimento. Il parallelo non deve però farci perdere di vista le specificità dei due contesti. Quelle francesi sono uscite chiaramente in un primo turno nel quale Le Pen, Mélenchon, Zemmour (tralasciando almeno altri due candidati protestatari minori) hanno raccolto più di diciotto milioni di voti, pari ad oltre il 50% dei francesi che sono andati al voto. Il quadro politico transalpino si è tramutato in una sorta di laboratorio idealtipico della crisi delle liberaldemocrazie occidentali di inizio XXI secolo. Due interpretazioni si confrontano, entrambe interessanti e che dovrebbero far riflettere. Una parte degli osservatori annuncia la fine della sfida destra-sinistra e parla di cristallizzazione di una contrapposizione tra mondialisti e patrioti o, più specificamente nel contesto francese, tra “Francia da rating A” e “Francia dell’ombra”, con i primi disposti a rinnovare la fiducia al presidente uscente e i secondi al primo turno divisi appunto tra Le Pen, Zemmour e Mélenchon e con questi ultimi ora indecisi sul da farsi. Ad oggi solo una minoranza di questo elettorato pare deciso a convergere sul voto lepenista, un terzo dovrebbe votare Macron e oltre la metà optare per scheda bianca o astensione. Vi è poi un altro gruppo di osservatori che, pur non disdegnando la lettura sociologica, non è però a parlare di superamento della dinamica destra/sinistra e ritiene che quella in atto nel contesto francese sia una transizione non ancora conclusa; viene perciò maggiormente sottolineata la dinamica di ricomposizione in corso, che sembrerebbe tendere ad una tripolarizzazione in grado potenzialmente di sostituirsi alla triade oramai declinante conservatorismo, liberalismo e socialismo.
Il cerchio si chiude con la quarta istantanea, che ha come protagonista il segretario del Pd Enrico Letta, il quale ha messo in guardia: fine dell’integrazione europea in caso di vittoria di Marine Le Pen. Mai verità è stata più pura. In apparenza Le Pen ha messo da parte i toni duri e i richiami alla Frexit del 2017. Ma i riferimenti nel suo programma alla preferenza nazionale in ambito industriale e sul mercato del lavoro, quelli nella direzione di un allontanamento dall’alleato tedesco, sino al primato del diritto francese su quello comunitario, condurrebbero ad una rimessa in discussione delle basi costitutive del processo di integrazione e della sua recente ripresa connessa alla doppia sfida del Covid e della guerra russa all’Ucraina.
Un successo di Macron diventa imprescindibile se si vuole continuare sulla strada della integrazione differenziata perseguita negli ultimi cinque anni. Nel bilancio del suo quinquennato i successi maggiori di Macron riguardano proprio l’Europa. Come dimenticare la sua tenacia, a partire dal discorso della Sorbona a poche settimane dal suo insediamento, seguita dallo sforzo per convincere Merkel della necessità di lanciare il Recovery Fund, primo passo per la mutualizzazione del debito. E infine come non citare l’importanza del concetto di autonomia strategica per l’Ue, introdotto ancora una volta dall’inquilino dell’Eliseo, e divenuto di drammatica attualità di fronte alla crisi russo-ucraina. Incoerente in politica economica e pericolosa per le istituzioni della Quinta Repubblica, Marine Le Pen sarebbe mortifera per l’edificio comunitario a maggior ragione con la guerra tra Russia e Ucraina in corso. Non a caso probabilmente del dibattito televisivo 2022 rimarrà impressa la frase rivolta da Macron a Le Pen: “Quando parlate alla Russia vi rivolgete al vostro banchiere “ (con riferimento al prestito contratto dal RN con un istituto bancario russo).
In definitiva se i sondaggi saranno confermati (quelli del primo turno lo sono stati), Macron diventerà il terzo presidente (dopo Mitterrand e Chirac) ad essere rieletto. Lo attenderebbe un quinquennato senza troppi obblighi (non potendo ricandidarsi) ma con molte responsabilità. Le istituzioni della V Repubblica sembrano reggere, ma il tessuto democratico transalpino è lacerato. La sua crisi politica latente e conclamata da anni deve essere finalmente arrestata, affinché non ne intacchi la tenuta istituzionale e di conseguenza trasformi Parigi in una minaccia per la tenuta stessa dell’Unione europea.
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