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In Iowa parte la corsa dei Democratici per la Casa Bianca

di Vittorio Ferla

 

Il grande giorno è arrivato. Ieri i democratici americani dell’Iowa hanno dato il via ufficiale alle primarie per scegliere il candidato che, nella seconda metà dell’anno, sfiderà il Presidente Donald Trump, cercando di impedirne la rielezione. I risultati si avranno nelle prossime ore. Le primarie americane consistono nell’elezione di un certo numero di delegati che poi alla Convention di luglio sosterranno uno dei candidati Presidente. La scelta, in Iowa, sarà fatta nei caucus, che sono assemblee di partito riunite per discutere e votare i candidati nelle palestre, nelle scuole, nei teatri o nelle sale parrocchiali. Qui gli elettori si dividono in gruppi che rappresentano i candidati. In una prima fase vengono eliminati i gruppi più piccoli – quelli inferiori al 15% dei presenti – e gli elettori vengono redistribuiti in un secondo round. Alla fine di questo round vince il gruppo più numeroso. A questo punto si sommano tutti i risultati dei caucus dell’Iowa, il partito calcola il rapporto tra i voti ricevuti e i delegati assegnati allo Stato. Il risultato finale di questa operazione dà il nome del vincitore.

I quattro candidati principali sono in questa fase a poche spanne l’uno dall’altro. Secondo i sondaggi degli ultimi giorni, in testa si trova il “socialista” Bernie Sanders con il 25%, seguito dal “centrista” Joe Biden con il 22%, il giovane Pete Buttigieg con il 17% e la progressista Elizabeth Warren con il 13,5%. Non c’è il miliardario Bloomberg, il quale ha preferito tenersi fuori e scendere in campo solo a marzo (il 3 marzo) quando si svolgerà il cosiddetto “supermartedì”, cioè il giorno nel quale voteranno per le primarie una decina di Stati tra i quali tutti i più grandi, esclusa New York. Questa situazione ancora fluida, unita alla complessità dei calcoli in sede di caucus potrebbe generare uno scenario confuso. «Alcuni analisti – spiega Lisa Lerer – prevedono questo esito: Sanders vince il totale dei voti, Joe Biden vince il conteggio dei delegati e Buttigieg vince nelle contee rurali. Così tutti e tre potrebbero chiudere la sfida in Iowa dichiarando la vittoria».

Si vedrà. L’altra grande questione riguarda la collocazione dei candidati sull’asse destra-sinistra e la conseguente capacità di competere con il presidente uscente Donald Trump. Da una parte ci sono i candidati che, in area “liberal”, sono definiti – non senza una punta di disprezzo – “moderati”. Parliamo di Biden e Buttigieg. Il motto del primo – “Vote Biden, Beat Trump” – spiega tutto. Joe Biden si propone infatti come il candidato con le migliori possibilità di sconfiggere il presidente Trump: la sua campagna è stata tutta concentrata su questo messaggio. In più promette agli elettori l’estensione della copertura sanitaria e la lotta ai cambiamenti climatici. Finora, viceversa, la campagna di Buttigieg non ha preso di mira direttamente il presidente Trump. Il giovane Pete – appena 38 anni – propone una «visione audace per la prossima generazione», presentandosi come l’alfiere di un movimento generazionale in marcia contro una capitale, Washington, «paralizzata da vecchi pensieri e vecchie lotte». Nelle sue proposte risuona l’eco delle aspettative dei Millennials: l’impegno contro l’avidità delle grandi corporation, la lotta contro i cambiamenti climatici e contro le guerre senza fine in cui è stata finora impantanata la politica estera americana.

Ai due candidati centristi fanno da contraltare i due campioni “liberal”, Elizabeth Warren e Bernie Sanders. «Negli ultimi mesi – avverte Astead W. Herndon del New York Times – la Warren sta sempre più strutturando la sua campagna intorno alla specificità di genere. In questo modo vuole tesaurizzare il fatto di essere ormai l’unica donna nella fascia più alta e competitiva dei candidati presidenziali democratici». E poi l’essere donna appare anche come un’alternativa squisitamente progressista al machismo dell’attuale inquilino della Casa Bianca. «Le donne vincono», dice il suo motto. «Di sicuro – aggiunge Herndon – ha influito anche la polemica di qualche giorno fa con il rivale Sanders accusato di averle detto in passato che una donna non poteva vincere la presidenza». Ultimo ma non ultimo Bernie Sanders: il “grande vecchio” della sinistra americana, alla veneranda età di 78 anni sta svolgendo il ruolo che in questi anni ha avuto Jeremy Corbyn nel Regno Unito: una ideologia esplicitamente socialista, anticapitalista e statalista, l’attivazione di estesi movimenti giovanili che lo venerano nei comizi, grandi raduni di folle esultanti ispirate dai toni emotivi e romantici della “lotta”.

In questo momento Sanders appare perfino più forte di Joe Biden. Questa cosa preoccupa parecchio il resto del partito democratico. Molti temono che l’eccesso di estremismo possa far vincere a Sanders le primarie, con il risultato di trovarsi con un candidato debolissimo contro Donald Trump. Il quale ultimo, non a caso, considera Sanders il suo avversario preferito: gli permetterebbe infatti di fare breccia nell’elettorato dei ceti medi americani spaventati dalle idee troppo radicali in tema di tasse e intervento del governo centrale nell’economia. Nelle ultime settimane in cui la competizione democratica in Iowa è rimasta in qualche modo semi-sospesa – visto che Bernie Sanders, Elizabeth Warren e Amy Klobuchar, in quanto senatori, sono tornati a seguire il processo di impeachment a Washington – il conflitto tra l’ala radicale e quella riformista è stato animato da due donne.

Da una parte, Alexandria Ocasio-Cortez. La giovanissima parlamentare democratica del Congresso e animatrice della campagna di Bernie Sanders, nel corso delle celebrazioni in onore di Martin Luther King, ha attaccato il suo stesso partito accusandolo di non essere “di sinistra” ma di “centro conservatore” perché contrario alla sanità pubblica. Inoltre, ha accusato Jeff Bezos di Amazon per aver creato “una forma di schiavitù moderna”. Scatenando così una serie di reazione piccate da parte di parecchi esponenti del mondo democratico americano. Tom Elliot del The Federalist ha risposto così: «L’attuale Partito Democratico rappresenta idee di sinistra. Ciascun candidato democratico del 2020 propone una qualche forma di assicurazione sanitaria estesa, pagata con risorse del governo, sia essa la “Medicare for All’”di Sanders e Warren, la “sanità pubblica per tutti coloro che lo vogliono” di Pete Buttigieg o l’espansione della “Obamacare” suggerita da Joe Biden. Tutti i candidati vogliono rimuovere le restanti restrizioni all’aborto, cancellare il debito studentesco esistente e tentare di stabilire un college gratuito per tutti. Queste proposte radicali dimostrano che il Partito Democratico non è “conservatore” in alcun senso».

L’altra donna sulla scena è stata Hillary Clinton. Intervenuta per criticare l’estremismo di Bernie Sanders, che fu suo avversario nelle primarie di quattro anni fa, ha insistito sul fatto che “a nessuno piace” e “nessuno vuole lavorare con lui” e soprattutto ha accusato il suo entourage di sessismo e maschilismo. Insomma, la competizione tra le due anime del partito in vista del voto in Iowa ha raggiunto la massima veemenza. Per quale motivo? Lo Stato dell’Iowa è piccolo e, apparentemente, poco rappresentativo: solo 3 milioni di abitanti sui 327 milioni degli Stati Uniti, assegna appena 41 delegati su 3.979 nelle primarie democratiche. Eppure la sua influenza nella scelta dei candidati risulta enorme da sempre. Dal 1972, per legge, è il primo Stato a votare.

E siccome può spianare la strada per la Casa Bianca, i candidati trascorrono giorni e giorni nelle sue 99 contee. Chi perde spesso si ritira dalla contesa. Ma chi vince qui ha ottime possibilità di diventare il candidato del suo partito. Ai democratici, dal 1972, è successo 9 volte su 12: qui hanno cominciato a vincere Jimmy Carter, Walter Mondale, Bill Clinton, Al Gore, John Kerry, Barack Obama e, da ultima, Hillary Clinton. E tre di loro sono diventati Presidenti.

Vittorio Ferla
vittorinoferla@gmail.com

Giornalista, direttore di Libertà Eguale e della Fondazione PER. Collaboratore de ‘Linkiesta’ e de 'Il Riformista', si è occupato di comunicazione e media relations presso l’Ufficio di Presidenza del Consiglio regionale del Lazio. Direttore responsabile di Labsus, è stato componente della Direzione nazionale di Cittadinanzattiva dal 2000 al 2016 e, precedentemente, vicepresidente nazionale della Fuci. Ha collaborato con Cristiano sociali news, L’Unità, Il Sole 24 Ore, Europa, Critica Liberale e Democratica. Ha curato il volume “Riformisti. L’Italia che cambia e la nuova sovranità dell’Europa” (Rubbettino 2018).

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