
19 Feb Infrastrutture e servizi della mobilità nel Pnrr: il caso dei porti meridionali
di Pietro Spirito
1. I pilastri del Next Generation EU
Siamo ad un anno di distanza dalla formazione del Governo Draghi e dalla successiva approvazione del Piano Nazionale di Rilancio e di Resilienza (PNRR). Questo strumento costituisce per l’Italia, ma anche per l’Europa, una occasione unica ed irripetibile. Mai, dal Piano Marshall in avanti, sono state rese disponibili fonti finanziarie così robuste per investimenti destinati a modernizzare il nostro Paese ed il nostro Continente in un arco di tempo così ristretto, sino al 2026.
Possiamo allora cominciare a riflettere sulla prospettiva che si è aperta, e sulla modalità con la quale stiamo orientando la risposta nazionale alla sfida della modernizzazione delle reti e delle regole per una mobilità sostenibile. Le infrastrutture costituiscono uno degli assi portanti su cui si fonda il meccanismo della competitività economica e sociale.
L’impostazione comunitaria del Next Generation EU (NGEU) è basata su due pilastri fondamentali: “I piani di rilancio e resilienza devono riflettere uno sforzo sostanziale di riforme ed investimenti” (Commissione Europea, 2021). I due pilastri stanno assieme, in un legame inscindibile, al punto tale che i fondi europei saranno erogati a condizione che siano approvate le regole di modernizzazione definite nel PNRR, oltre che siano rispettati i cronoprogrammi per la realizzazione degli investimenti. La discussione in corso si concentra molto sul versante della spesa prevista per gli investimenti, mentre minore attenzione viene prestata alle riforma necessarie per rendere moderno il tessuto sociale ed economico del nostro Paese.
La crisi pandemica ha costituito un drammatico acceleratore di difficoltà che si erano manifestate, sul versante economico e sociale, già da diverso tempo, almeno a partire dal 2007, se non dall’inizio degli anni Ottanta del secolo passato. “Gli Stati membri stanno fronteggiando un numero di sfide aggravate dalla crisi Covid19, che il Recovery and Resilience Facility (RFF) aiuterà ad affrontare” (Commissione Europea, 2021). Per il momento è stata anche messa in soffitta la disciplina di Maastricht. Non potrà durare per sempre.
In questo scenario, denso di rischi, ma anche di potenziali opportunità, la connettività rappresenta una chiave strategica per rilanciare la competitività (Khanna, 2016, 2021). In un mondo in cui le comunicazioni, fisiche e telematiche, sono l’ossatura del tessuto produttivo e sociale, l’Italia deve cogliere l’opportunità del Next Generation EU per riscrivere la trama della propria architettura infrastrutturale e logistica.
Il programma europeo individua obiettivi specifici e definisce priorità alle quali i singoli Stati debbono attenersi: “L’obiettivo generale del Recovery and Resilience Facility sarà quello di promuovere la coesione economica, sociale e territoriale dell’Unione, migliorando la resilienza, l’adeguata preparazione alle crisi, la capacità di aggiustamento e di potenziale crescita degli Stati membri, mitigando l’impatto sociale ed economico della crisi, contribuendo agli obiettivi politici dell’Unione, al pilastro europeo dei diritti sociali, supportando la transizione verde, …. e soddisfacendo all’obiettivo europeo della neutralità climatica al 2050 ed alla transizione digitale” (Commissione Europea, 2021).
Il percorso che ha condotto alla approvazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), a fine aprile del 2021, è stato particolarmente travagliato: durante il Governo Conte erano state approvate in consiglio dei ministri due versioni, che poi sono state emendate in modo significativo dal Governo Draghi, per giungere alla formulazione conclusiva.
Tra la prima e l’ultima versione del PNNR, la ripartizione delle risorse è traslata maggiormente dagli incentivi agli investimenti. Mentre nella prima versione del Piano il rapporto era 40% a 60%, ora siamo a 30% per bonus ed incentivi e 70% per gli investimenti: tale riequilibrio è dovuto anche alla confluenza, nella ultima versione, del Fondo di sviluppo e coesione.
Maggiore approfondimento ed attenzione è stato dedicato anche al capitolo sulle riforme di sistema per rilanciare la produttività totale dei fattori; già entro la fine del 2021 sono state condotte a compimento 51 azioni previste dal programma di riforma nazionale contenuto nel PNRR.
Per riforme la Commissione Europea intende “una azione o un processo che comporta cambiamenti con un significativo impatto ed effetti di lunga durata nel funzionamento del mercato e delle politiche, nel funzionamento di strutture o istituzioni o amministrazioni, o sul progresso di rilevanti obiettivi politici, come la crescita e il lavoro, la resilienza e le transizioni” .
Nel settore delle infrastrutture e dei servizi per la mobilità, il PNNR individua alcune riforme che possono incidere sui meccanismi di funzionamento di questi mercati. Innanzitutto si punta l’attenzione sulle regole di funzionamento per la realizzazione degli investimenti.
I tempi medi per realizzare le opere rilevanti si aggirano in Italia tra gli 11 ed i 14,5 anni (Bella, 2021), e sono incompatibili con tutti gli orizzonti di spesa delle risorse comunitarie. A legislazione vigente anche le opere finanziate e progettate corrono il rischio di non rispettare la scadenza del 2026 fissata dal NGEU.
Insomma, non solo per realizzare quei progetti, ma anche per attuare i più semplici interventi contenuti nel PNRR sulle infrastrutture, è assolutamente necessario modificare in profondità le regole di ingaggio per semplificare l’assetto normativo in materia di opere pubbliche, ma devono anche essere riformate le regole di organizzazione e funzionamento della rete dei servizi. Sinora non si è mosso nulla di sostanziale da questo punto di vista.
Il pericolo più grave che l’Italia oggi corre nel processo di attuazione del PNRR è quello di scambiare il NGEU per l’ennesimo fondo strutturale, a disposizione delle amministrazioni centrali e locali per finanziare progetti di sviluppo più o meno utili, in tempi più o meno rapidi, in funzione della capacità amministrativa attuale, considerata come invariante.
2. Le riforme nelle infrastrutture e nei servizi per la mobilità
Da diversi anni la discussione politica nazionale mette al suo centro la necessità e l’urgenza della semplificazione, con risultati sinora particolarmente deludenti, ad eccezione della ricostruzione del Ponte Morandi, realizzato in tempi europei grazie alla provvida decisione di applicare esclusivamente le regole comunitarie.
Il codice degli appalti ha mostrato tutta la sua inadeguatezza dal punto di vista della execution. La strada per semplificare consiste nel disboscare tutto ciò che è superfluo. Andare direttamente alla fonte del diritto europeo ha mostrato una elevata efficacia attuativa. Questo processo di disintermediazione deve riguardare anche quelle sovrastrutture che sono diventate produttrici di indirizzi comportamentali di natura giuridica che hanno reso ancora più complessa la stessa normativa nazionale.
A tale elemento di forte rallentamento nella realizzazione delle opere pubbliche si deve aggiungere anche la riforma delle stazioni appaltanti, prevedendone una drastica riduzione nel numero e, contemporaneamente, procedendo ad un loro accorpamento funzionale e ad un loro potenziamento, elevandone la qualità e le specializzazioni.
Le riforme strategiche per il miglior funzionamento delle infrastrutture e dei servizi per la mobilità non si fermano qui. Il PNNR evidenzia anche la necessità di mettere mano alla riforma delle concessioni nel settore portuale. L’attenzione è stata concentrata esclusivamente sulla possibilità di superare nei porti nazionali il vincolo di poter essere titolari di una sola concessione.
Non è questo il punto realmente rilevante. Nel settore marittimo si sta formando una struttura di mercato basata su un oligopolio bilaterale tra armatori e concessionari delle banchine: i grandi gruppi marittimi stanno acquisendo posizioni dominanti anche nei porti, con il rischio di condizionare l’assetto del mercato dal punto di vista della formazione dei prezzi e dello stesso accesso alla connettività.
La stessa legislazione europea ha favorito questo processo, con la proroga al 2024 della Block exemption regulation che ha consentito alle grandi Alleanze nel settore dei container di continuare a fornire servizi comuni senza violare le norme comunitarie antitrust in materia di concorrenza: se questo principio era ragionevole nella fase precedente di crisi del settore marittimo, la decisione assunta dalla Commissione UE nel 2020 ha consentito la formazione di extraprofitti nel 2021. Nell’anno appena trascorso le tre grandi Alleanze hanno registrato utili superiori a 100 miliardi di dollari, ed hanno potuto, grazie alla norma europea, contare su una tassazione pari solo al 7%.
Se è vero che la Block Exemption Regulation non comprende la fissazione dei prezzi o la ripartizione del mercato, gli strumenti di controllo stanno fallendo, perché il rialzo drammatico e generalizzato dei noli marittimi sembra dimostrare l’esistenza di un cartello che si muove secondo logiche di coordinamento.
Nel corso del 2021 esistono tutte le evidenze per cui si sta determinando la formazione di enormi profitti per le grandi compagnie marittime, in uno scenario caratterizzato dall’aumento esponenziale dei prezzi del trasporto per i container su scala internazionale, generando uno dei meccanismi alla base della ripresa della inflazione. Forse, una riflessione su questo tema andrebbe aperta, a livello comunitario e nazionale.
Ma i percorsi istituzionali di modernizzazione nel settore devono sciogliere altri nodi ancora irrisolti, a livello europeo, ma soprattutto a livello nazionale. Da diversi decenni a questa parte, l’agenda comunitaria, nella regolazione e nella liberalizzazione delle attività economiche, ha posto al centro la separazione tra infrastrutture e servizi. Non è questione da porre ai margini. Prima nel caso del trasporto aereo e poi nel caso del trasporto ferroviario, i pilastri di sistema sono stati rappresentati da una articolazione duale delle attività economiche nel sistema delle reti di mobilità.
Nel trasporto marittimo l’Unione Europea non ha ancora con chiarezza definito i confini tra porti e vettori, al punto tale che diversi operatori di mercato posseggono concessioni con le quali gestiscono terminal portuali, in particolare nel segmento del trasporto dei contenitori. Non si capisce la ragione per la quale il principio dell’unbundling tra reti e servizi sia stato uno dei cardini della regolazione comunitaria in tutti i settori del trasporto, ad esclusione delle attività marittime e portuali.
Il tema del rapporto tra infrastrutture e servizi è ancora poco approfondito, non solo nella discussione pubblica italiana, ma anche nella articolazione delle proposte per il PNRR. La questione si incrocia con il nodo delle concessioni, che costituiscono lo strumento di regolazione con il quale viene disciplinato l’esercizio delle infrastrutture, sia che esse restino nella proprietà pubblica sia che vengano assegnate alla gestione di aziende private.
Le concessioni autostradale e portuali richiedono certamente una profonda revisione, come testimonia la vicenda del Ponte Morandi e la persistente immobilità dei concessionari nei principali porti del nostro Paese. Tra le riforme contenute nel PNRR è presente l’istituto della concessione, ma solo per quanto si riferisce alle attività portuali, e per superare il limite all’esercizio di un solo terminal in un porto da parte di un operatore.
Nei fatti, questa condizione è già presente in molti scali italiani: tale norma appare più la sanatoria di un assetto esistente che non una regolazione per favorire l’efficienza delle operazioni. Probabilmente si tratta del contrario di quello di cui ci sarebbe bisogno, vista la traiettoria oligopolistica che sta attraversando questo mercato.
In un primo tempo, il Governo italiano immaginava di intervenire sulle concessioni turistico balneari, in quanto siamo in grave difetto rispetto alla legislazione comunitaria, perché le norme nazionali attualmente in vigore prevedono una proroga delle concessioni sino al 2033.
Al posto del Governo è dovuto intervenire il Consiglio di Stato, che, con recenti due sentenze ( n. 17 e 18 del 9 novembre 2021), ha sancito l’inconciliabilità tra la proroga e la legislazione comunitaria, fissando entro la fine del 2023 il tempo per mettere a gara le concessioni turistico-ricreative. Va comunque notato che il Ministero dello Sviluppo Economico ha inteso convocare un tavolo di discussione con gli operatori del settore, e le esperienze che gli anni hanno dimostrato in materia, indicano che nulla di buono per la concorrenza emergerà da queste discussioni.
Molti altri nodi di regolazione e di mancate riforme nelle infrastrutture e nei servizi di mobilità restano sul tappeto. La natura economica delle Autorità di Sistema Portuale sta generando un altro conflitto tra le istituzioni comunitarie ed il governo, perché secondo le norme comunitarie sono soggette a tassazione tutte le attività economiche, mentre l’Italia ritiene invece che basti la natura pubblica del soggetto per evitare l’applicazione delle regole di fiscalità generale (Spirito, 2021).
Questo nodo sta ancora tutto sul tappeto, in quanto Assoporti ha inteso impugnare la decisione della Commissione davanti alla Corte Europea di Giustizia, e la sentenza che si determinerà è destinata ad avere una influenza su una questione che resta ancora sotto traccia. La natura di ente pubblico non economico delle Autorità di Sistema Portuale ingabbia dentro le regole della amministrazione statale un soggetto che deve invece promuovere iniziativa economica.
Non va messa in discussione la proprietà pubblica degli scali nazionali, perché si tratta di infrastrutture essenziali per la competitività della Nazione. La forma di società per azioni per mano pubblica sarebbe tuttavia maggiormente adeguata per consentire di rendere maggiormente efficace l’azione di promozione dello sviluppo delle connessioni marittime.
Nel settore del trasporto pubblico locale da più di un quarto di secolo è stata approvata una riforma che prevede la contendibilità dei servizi mediante confronti competitivi per il mercato, ma praticamente nulla è accaduto. Un superamento dei monopoli locali secondo le regole della concorrenza per il mercato sarebbe utile, ed auspicabile.
Nel sistema ferroviario, resta ancora il nodo della separazione proprietaria tra RFI e le imprese di trasporto del Gruppo FS, per applicare sino in fondo il principio di terzietà tra gestore della infrastruttura ed aziende di servizi. Il coordinamento necessario all’interno di una stessa compagnie sociale rende meno stringenti i meccanismi di parità di condizioni di trattamento tra i vettori nell’accesso alle tracce ferroviarie.
Resta sospesa per aria, pur se va per mare, la crisi di Tirrenia, società privatizzata senza il pagamento del corrispettivo dovuto, che continua a ricevere risorse pubbliche per obblighi di servizio. Qualche gara è stata espletata, ma resta la questione di fondo di una cessione di un asset verso un privato che deve ancora allo Stato 180 milioni di euro, con una azienda sull’orlo del collasso. Le recenti notizie di cronaca sugli ipotizzati traffici di influenze rendono ancora più necessario il chiarimento su una delle privatizzazioni a scarso grado di efficacia che si sono realizzate a metà degli anni Novanta del secolo passato.
3. La selezione degli investimenti
Costruire nuove infrastrutture senza aver effettuato una valutazione sugli impatti di queste reti rispetto alla densità delle connessioni può rappresentare un grave errore: non mancano in Italia casi di infrastrutture utilizzate poco, o quasi per nulla. Oltretutto, era stato recentemente deciso, e poi ce ne si è puntualmente dimenticato, che ogni investimento infrastrutturale avrebbe dovuto essere preceduto da una analisi costi-benefici. Ma la memoria degli atti normativi in Italia è assolutamente un assetto a geometria variabile.
La realizzazione della nuova diga foranea nel porto di Genova costituisce un caso di scuola da questo punto di vista. A beneficiare degli effetti di questo investimento sarà sostanzialmente un solo concessionario, rispetto ad un costo per la realizzazione dell’opera stimabile in quasi due miliardi di euro. Forse non servirebbe nemmeno l’analisi costi benefici per capire che questa decisione è quanto meno avventata. Realizzare investimenti pubblici nelle infrastrutture corrisponde ad una necessità strategica: ma non quando i benefici si orientano versoi una platea ristretta di utilizzatori.
Poi ci sono altre decisioni che magari neanche corrispondono a criteri di valutazione economica dell’investimento, ma che sono ragionevoli dal punto di vista della valutazione politica e sociale, salvo poi a rivelarsi discutibili se si analizzano le caratteristiche tecniche delle scelte assunte.
Non vi è alcun dubbio che investire per migliorare le connessioni ferroviarie costituisce una questione vitale per l’economia meridionale, anche per le ricadute di competitività che si generano nel Sud e nel resto del Paese. In termini di accessibilità le regioni meridionali registrano un divario molto significativo rispetto alla media nazionale. Questa forbice si è allargata nel corso degli ultimi decenni: l’indice di accessibilità per il Sud è passato da 0,574 del 1995 a 0,436 del 2018, con un peggioramento pari al 24,1% (a cura di M. Bella, 2020).
Dunque, la scelta compiuta dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) di puntare su investimenti ferroviari essenzialmente concentrati nelle regioni meridionali costituisce un indirizzo coerente con gli obiettivi comunitari del programma Next Generation EU, e può essere anche uno degli ingredienti necessari per rilanciare la competitività delle regioni meridionali, considerato che nei periodi recenti solo il 22% degli investimenti ferroviari nazionali sono stati destinati al Sud (G. Viesti, 2021).
La connessione ferroviaria tra Salerno e Reggio Calabria costituisce la spina dorsale della infrastrutturazione meridionale prevista dal PNRR. Se però entriamo nel merito tecnico del progetto, qualche perplessità sulla struttura tecnica del progetto emerge. Partiamo dalla caratteristica della rete ad alta capacità, vale a dire compatibile con il transito contestuale di treni passeggeri e merci.
Al Sud non serve una rete di alta capacità, perché mai i treni merci circoleranno su una rete ad elevato pedaggio, con una domanda che richiede treni con caratteristiche di lunghezza e pesantezza completamente differenti, più adatti ad una rete tradizionale riqualificata. La lezione della rete ad alta capacità, già realizzata tra Salerno e Milano, dovrebbe essere di lezione: costruita con le caratteristiche per far transitare treni merci, e quindi con costi superiori di un terzo rispetto alla classica rete ad alta velocità, non ha visto transitare che un solo treno merci, peraltro neanche di successo commerciale.
Serve quindi, per il trasporto ferroviario delle merci, la riqualificazione della rete meridionale esistente aumentando le sagome, allungando i moduli di stazione, al fine di consentire la circolazione di treni merci più lunghi, incrementando il peso assiale ammesso e soprattutto introducendo alcune varianti di tracciato, adatte ad eliminare i tratti maggiormente acclivi che oggi limitano significativamente il peso dei convogli.
Per i passeggeri, la connessione ferroviaria nel Mezzogiorno richiede una rete ad alta velocità, specializzata solo in questo servizio. Costa molto meno (sagoma ridotta a tutto vantaggio dei costi delle gallerie, maggiori pendenze con riduzione del numero e della lunghezza di gallerie e viadotti) ed assicura una drastica riduzione dei tempi di percorrenza.
Insomma, per il Mezzogiorno sono necessari due approcci specifici dal punto di vista ferroviario: uno focalizzato sul trasporto delle merci, che deve essere basato sull’aumento del peso e della lunghezza dei convogli, ed uno per il trasporto dei passeggeri, che deve guardare alla drastica riduzione dei tempi di percorrenza, ed al miglioramento della connessione anche verso il centro nord dell’Italia.
Pur se ormai vi è consapevolezza che la politica dei servizi deve essere attenta ai territori, si continua ad interpretare un modello di organizzazione, nelle infrastrutture e nei servizi, che privilegia un approccio standardizzato, spesso inefficace (F. Barca, E. Giovannini, 2020).
Non pare il caso di insistere in questo errore. Eppure il documento del PNRR parla ancora indifferentemente di alta capacità, di alta velocità e di alta velocità di rete per la realizzazione della rete ferroviaria nel Mezzogiorno, in particolare per il collegamento tra Salerno e Reggio Calabria.
Infine c’è un tema rilevante sulla scelta dei tracciati. Sulla Salerno-Reggio Calabria sarebbe irragionevole e sciagurato investire in un collegamento nelle aree interne, che avrebbe la caratteristica di dover realizzare un sistema di gallerie lungo decine e decine di chilometri, con tempi di realizzazione che andrebbero verso le calende greche.
Insomma, l’indirizzo del Governo nella architettura del PNRR pare solido e credibile. Come spesso accade, il diavolo sta nei dettagli. È auspicabile che si faccia più chiarezza sulle soluzioni progettuali e che si parta anche dalla esperienza che abbiamo maturato sull’alta velocità in Italia. Come sostiene spesso il Presidente del Consiglio Mario Draghi, farsi guidare dal buon senso è un eccellente viatico per proseguire su un corretto tracciato. Così direbbe anche un ferroviere.
Ma sono proprio i ferrovieri, in questo caso, a generare una commedia degli equivoci pericolosa. In un documento di 211 pagine della Direzione Investimenti di Rete Ferroviaria Italiana (RFI, 2021), invece di fare chiarezza sulle scelte tecniche, si intorbidiscono ulteriormente le acque.
È esattamente quello che non dovrebbero fare i tecnici. Il documento manca assolutamente di due requisiti indispensabili per una valutazione trasportistica, vale a dire da un lato l’analisi della domanda potenziale e dall’altro la costruzione di un modello di esercizio .
Questi pilastri, peraltro, sono possibili solo a condizione che sia chiaro ed univoco il disegno della rete. Non è affatto così. Il documento si compone di un caleidoscopio di opzioni possibili per singole tratte della linea: questo metodo non restituisce chiarezza di scelte. Siamo più in presenza di uno spezzatino ferroviario, che lascia impregiudicate le decisioni che devono essere assunte.
Sull’alimentazione elettrica resta non sciolto il nodo tra tensione a 3.000 o a 25.000 mila Volt: pare un dettaglio ma non lo è, perché determina nel secondo caso una integrazione con la rete AV esistente, lasciando fuori gli operatori normalmente privi di materiale rotabile idoneo a circolare con detta tensione.
Va valorizzato, in un documento deludente, un elemento che può essere invece una chiave di volta importante per le operazioni logistiche. Un collegamento trasversale dal porto di Gioia Tauro verso l’asse adriatico può costituire una soluzione interessante, dal momento che l’itinerario adriatico è stato già dotato di quelle caratteristiche, per modulo, sagoma e peso assiale, che sono coerenti con la circolazione di treni merci con standard europei.
Andrebbe però effettuata una analisi di sensitività competitiva tra la soluzione ferroviaria e le navi feeder: è noto che Gioia Tauro è un porto di transhipment: serve quindi confrontare l’assetto potenziale dei meccanismi competitivi tra soluzione ferroviaria e navi feeder.
Insomma, realizzare un collegamento veloce per le regioni meridionali è assolutamente opportuno per migliorare i collegamenti logistici con il ricorso alla intermodalità. Però è assolutamente urgente, come ha detto il Ministro Giovannini, avviare un dibattito pubblico sulle scelte tecniche opportune. Gli equivoci che si annidano nelle scelte tecniche vanno sciolti.
4. I porti meridionali nel PNRR: manca ancora una visione geopolitica e geostrategica
Nel 2021, l’economia italiana ha manifestato segnali di vitalità superiori alle attese, grazie anche alle decisioni sagge che sono state adottate dal Governo Draghi per il contenimento e per la fuoriuscita dalla lunga onda pandemica. I porti, ancora una volta, hanno dimostrato, durante la crisi e nella attuale fase di ripartenza, di essere una cerniera strategica tra produzione manifatturiera, logistica e mercati di consumo.
L’economia marittima può rappresentare una delle opportunità principali non solo per riportare le regioni meridionali in una linea di galleggiamento, dopo i recenti decenni che hanno aumentato il divario rispetto al centro-nord, ma anche per superare le secche di una stagnazione ormai pluridecennale.
Solo quando il Mezzogiorno è cresciuto, l’economia nazionale ha registrato sviluppo e competitività . La costruzione ed il funzionamento efficiente delle infrastrutture ha rappresentato nei passati decenni uno strumento di primaria rilevanza in questa direzione. Oggi le reti diventano un requisito essenziale per le connessioni che possono garantire, per collocare i territori nello spazio economico globale. Contano sempre di più i servizi rispetto alle infrastrutture.
In un Paese con oltre 8.000 chilometri di coste, la cerniera tra territorio nazionale ed economia internazionale costituita dai porti è certamente uno degli elementi fondamentali per rilanciare il ruolo dell’Italia nel contesto globale. Eppure, nonostante l’evidente natura strategica della questione, tale tema stenta a trovare il posto di rilievo che dovrebbe avere nella discussione pubblica sulle prospettive future della Nazione.
Me ne sono occupato in un recente libro, pubblicato da Guida editore, su “Il futuro dei sistemi portuali italiani. Governance, spazi marittimi, lavoro”. L’agenda della modernizzazione italiana non può prescindere dalla costruzione di una visione condivisa sul posizionamento dei porti nel sistema economico globale. La costituzione, formalizzata dal 2016, della Conferenza Nazionale dei Presidenti delle Autorità di Sistema Portuale, presieduta dal Ministro delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibile, rappresenta il veicolo istituzionale che potrebbe formare e consolidare una visione. Sinora non è stato ancora così. Solo di recente la Conferenza ha almeno cominciato a riunirsi con regolarità.
Anche nel Piano Nazionale per la Ripresa e la Resilienza (PNRR), che pure rappresenta la road map per il futuro, non emergono novità particolarmente significative nella visione del sistema portuale italiano. Prosegue una concezione delle infrastrutture che si disarticola separatamente per le diverse modalità, senza un disegno unitario del sistema logistico.
Stenta ancora a comprendersi che solo una visione olistica delle reti di connessione può generare quel vantaggio competitivo che oggi è diventato ancor più strategico per la crescita del commercio internazionale e per l’attrazione degli investimenti esteri. Valutiamo i porti come il retrobottega di casa nostra quando sono invece la finestra verso il mondo.
Non emerge nemmeno una prospettiva internazionale in chiave europea e mediterranea. Questa esigenza non riguarda solo l’Italia, ma l’intera Unione Europea. Nella rete delle connessioni internazionali il Mare Nostrum è tornato ad essere crocevia strategico, concentrando più di un quarto del traffico marittimo mondiale. Nello scacchiere mediterraneo si muovono potenze economiche e militari interessate a costruire influenze in un’area che concentra i flussi di merce ma anche le strategiche risorse energetiche, sia quelle della vecchia economia sia quelle, in prospettiva, della energia sostenibile di domani.
Oggi – ancor di più – si avverte l’esigenza di un progetto geopolitico e geostrategico che sia in grado di collocare gli investimenti infrastrutturali in un perimetro largo composto dalle politiche industriali, logistiche e turistiche su scala mondiale. L’economia è guidata dalle catene globali del valore che hanno riarticolato e ridisegnato i processi produttivi e logistici a partire dallo sviluppo e dal consolidamento della globalizzazione. Fuori da questo circuito si resta su un crinale di marginalizzazione.
Ancora una volta i porti meridionali, che pure movimentano quasi la metà delle merci in arrivo ed in partenza dal nostro Paese, sono rimasti sullo sfondo di una visione tradizionale, ancorata sostanzialmente all’economia italiana di diversi decenni fa, quando il nostro Paese esprimeva capacità competitiva attraverso le grandi industrie settentrionali ed i distretti del nord est. Quel mondo è scomparso, eppure ci aggrappiamo ancora alla rappresentazione di un sistema manifatturiero che non c’è più.
Intanto, lo scenario economico si è radicalmente modificato, e non abbiamo riflettuto sulle modalità attraverso le quali assicurare una continuità competitiva al sistema produttivo nazionale, nel passaggio dal capitalismo dei territori a quello delle piattaforme.
L’Italia, ed il Mezzogiorno ancor di più, si è sganciata dal treno della rivoluzione tecnologica , restando in buona parte estranea alla riorganizzazione del capitalismo digitale, se si esclude il decentramento produttivo di alcune industrie alla ricerca tattica di economia di costo. È mancata una visione strategica ed ora se ne vedono le conseguenze, dopo una lunga stasi della produttività totale dei fattori.
Il sistema portuale ha risentito dell’arretramento competitivo della struttura produttiva nazionale. Gli scali portuali sono andati in ordine sparso, privi di un disegno di articolazione strategica che ne consentisse la valorizzazione: sono prevalse le spinte verso la competizione interna, più che verso la proiezione su scala internazionale,
In questo modo il nostro Paese non ha colto le opportunità di crescita, mentre si sono sprecati fiumi di inchiostro sull’Italia quale piattaforma logistica del Mediterraneo. Solo l’intuizione di un imprenditore illuminato, quale è stato Angelo Ravano, ha consentito a Gioia Tauro di intercettare parte dello sviluppo mediterraneo del traffico dei contenitori, nel modello del porto di transhipment che ha catturato i transiti delle navi madre, di dimensione crescente, oggi sino ai 24.000 contenitori per le unità più grandi.
Ora, in un contesto che rende sempre più solidi i monopoli e gli oligopoli, nell’industria, nell’economia marittima e nella logistica, stiamo consegnando capisaldi decisivi del nostro sistema infrastrutturale ai pochi soggetti che detteranno le condizioni al mercato. Nel caso del trasporto marittimo stanno maturando le condizioni per la realizzazione di un oligopolio bilaterale che stringe legami tra vettori marittimi e terminalisti portuali, particolarmente nel settore dei containers.
Nel disegno della portualità italiana che viene tracciato dal PNRR torna invece di attualità, e resta sostanzialmente confermata, la vecchia tesi delle due “ascelle” portuali settentrionali, rispettivamente collocate nel Mar Tirreno e nel Mar Adriatico, con i porti di Genova e di Trieste, mentre il resto del sistema è visto sostanzialmente in una funzione ancillare, assegnando a Gioia Tauro il ruolo di scalo di transhipment per i collegamenti transoceanici.
Continua a prevalere la lettura dei territori con lo specchietto retrovisore del passato, che ci può solo restituire l’immagine di ciò che è accaduto, senza indicazioni particolarmente significative per i sentieri in buona parte ignoti che dobbiamo affrontare nel nostro futuro prossimo. Accade persino che le immagini del passato possano essere fuorvianti per le sfide che ci attendono.
Per paradosso, i porti del nord Italia svolgono un ruolo strategico soprattutto per l’economia industriale del centro e dell’est Europa, inclusa la pianura padana, mentre sono i porti meridionali che dovrebbero essere la piattaforma primaria per garantire una presenza europea nel Mediterraneo. Il baricentro del futuro sarà collocato maggiormente verso il mezzogiorno, per effetto di dinamiche demografiche e scelte di investimento che si stanno orientando verso il Nord Africa.
Oltretutto, la quota più rilevante delle risorse destinate agli investimenti nella portualita’ (3.3 miliardi di euro per la durata del PNRR, sino al 2026) è indirizzata per la realizzazione della diga foranea di Genova, con uno stanziamento previsto di 500 milioni di euro, rispetto ad un costo dell’intero progetto pari, secondo le stime più attendibili, a poco meno di 2 miliardi di euro. Questa opera, lo abbiamo detto in precedenza, è oltretutto funzionale principalmente agli interessi di un solo concessionario, mentre gli investimenti del PNRR dovrebbero essere centrati sul conseguimento di interessi collettivi.
La proiezione mediterranea della portualità italiana resta una opzione inespressa, mentre la sponda del Nord Africa sarà certamente uno dei teatri politici ed economici di maggior significato nell’arco dei prossimi decenni. La novità più significativa, aggiunta nella fase conclusiva della redazione del PNRR, riguarda il rilancio delle zone economiche speciali (ZES).
5. Le Zone economiche speciali e la portualità meridionale
Il Governo di Mario Draghi, per iniziativa del Ministro Mara Carfagna, ha assunto, nell’ambito del Decreto Semplificazioni, l’opportuna iniziativa di varare l’autorizzazione unica per insediare nelle ZES nuovi stabilimenti industriali e logistici: rispetto alle 34 autorizzazioni necessarie si tratta di un rilevante passo in avanti per attrarre investimenti e rilanciare lo sviluppo.
Questo provvedimento si affianca ai 630 milioni di euro previsti per rafforzare l’armatura infrastrutturale delle ZES meridionali, portando a circa 4 miliardi il totale delle risorse stanziate per il sistema portuale italiano nel PNRR. La ripartizione di queste risorse appare più compensativa rispetto agli altri stanziamenti che non mirata a rafforzare la competitività dei territori ZES.
Considerato il tempo molto limitato per la realizzazione degli investimenti del PNRR, è assolutamente vitale che questo modo venga rapidamente sciolto, come è altrettanto indispensabile che venga completata, con la nomina dei Commissari, la governance delle zone economiche speciali.
Lo strumento delle ZES, che sono oggi più di 5.500 nel mondo, costituisce una nuova chiave di politica industriale che ha rappresentato la formula di successo dei porti di Tanger Med in Marocco o Shenzhen in Cina. Anche qui, però, non si può pensare che le zone economiche speciali abbiano successo se il Paese non sarà in grado di intercettare le catene globali del valore nelle quali si articola l’economia mondiale.
Un solo dato potrebbe aiutare a riflettere: negli assi settanta del secolo passato operavano nel mondo circa 7.000 grandi aziende multinazionali. Ora questo numero è arrivato a superare quota 140.000: l’Italia, invece, continua ad essere caratterizzata da medie e piccole imprese, se si esclude qualche caso di aziende, che però – non casualmente – definiamo “multinazionali tascabili”.
La danza del cambiamento è guidata dalla grande dimensione, e gli altri soggetti economici sono sostanzialmente vassalli nella struttura delle catene globali del valore. Possono riuscire al massimo a collocarsi in posizioni di maggior vantaggio lungo la struttura manifatturiera che genera i prodotti finiti.
Sinora il capitalismo, anche nella sua versione digitale, si è orientato, con la globalizzazione, verso strutture oligopolistiche di organizzazione del mercato, che restituiscono valore in modo robusto solo ai rami alti della catena del valore. Senza un riposizionamento economico del tessuto produttivo, nazionale e meridionale, sarà davvero molto difficile tornare a contare nel disegno della geopolitica internazionale, composta da poteri economici che strutturano i mercati, determinando una gerarchia sempre più piramidale.
In questo scenario si inseriscono anche le ZES, introdotte nella legislazione nazionale nel 2017 con l’obiettivo di far leva sulla portualità meridionale per attrarre nuovi investimenti o per consolidare le industrie già presenti sul territorio, per favorirne ma necessaria crescita dimensionale e l’indispensabile apertura al commercio internazionale.
Le zone economiche speciali potranno aver successo solo se saranno in grado di intercettare le traiettorie del modello manifatturiero che si è affermato su scala internazionale. Non basta disegnare, come pure è necessario, un pacchetto localizzativo attraente in termini di incentivi fiscali e di misure di semplificazione amministrativa. Serve attrarre soggetti imprenditoriali di dimensione globale che siano in grado di generare ricadute produttive sui territori in termini di filiera e di internazionalizzazione.
Questo aspetto riguarda la prospettiva economica della sfida portuale. Ma i limiti della analisi non si fermano qui. Alla base di un disegno strategico così lacunoso sul sistema portuale italiano esiste una carenza di visione geopolitica e geo-economica.
Per l’intera Unione Europea la partita dei prossimi due decenni si giocherà nel Mediterraneo: un quarto dei traffici marittimi mondiali transitano nel Mare Nostrum, all’interno del quale la Cina ha posizionato le due pedine strategiche di posizionamento nel porto del Pireo e nei porti del Nord-Africa.
Dal punto di vista militare la Russia e la Turchia stanno progressivamente incrementando la propria sfera di influenza mediante il ricorso ad una presenza militare sempre più visibile, dalla Siria alla Libia. L’Unione Europea non potrà mai aspirare ad un ruolo nel confronto tra le grandi potenze se non sarà in grado di imporre il proprio punto di vista in casa sua, vale a dire nel sistema mediterraneo.
L’Italia potrebbe – e dovrebbe – svolgere questo ruolo, assieme a Francia, Spagna, Grecia. Il Next Generation EU prevedeva non soltanto azioni nazionali dei singoli Stati membri, ma anche interventi trasversali di diverse Nazioni si temi strategici di interesse comune.
Che a nessuno sia venuto in mente di costruire un disegno di consolidamento e di sviluppo per il Southern Range mediterraneo è sintomo di una grave debolezza strategica del pensiero comunitario. Nulla si dice inoltre, nel PNRR ,sulla necessità strategica di potenziare i collegamenti delle autostrade del mare tra la sponda nord e quella Sud del Mediterraneo, così come è stato fatto nel Nord Europa, dove questi collegamenti sono finanziati con risorse comunitarie. Sarebbe nell’interesse comunitario intessere una rete fitta di collegamenti marittimi nello spazio mediterraneo, per contrastare l’egemonia cinese.
Le connessioni, oltre alle infrastrutture, giocano un ruolo di assoluto primo piano nella politica commerciale internazionale, perché determinano opportunità di scambio che possono modificare anche la mappa delle relazioni internazionali dalla quale dipende il confronto concorrenziale tra i grandi blocchi economici.
Si rischia di perdere una grande occasione di coesione e sviluppo che riguarda non solo l’Italia, ma l’intera Europa. Nello spazio economico mediterraneo si gioca una delle partite decisive per il posizionamento geostrategica in un mondo che sarà caratterizzato da una globalizzazione sempre più di natura regionale.
La principale innovazione contenuta nella ultima versione del PNRR riguarda lo stretto legame che si costruisce tra piano degli investimenti e riforme per la modernizzazione. Sin dall’inizio questo principio costituiva un pilastro nelle linee guida del Next Generation EU.
Anche per l’organizzazione futura dei porti il disegno riformatore sarà un elemento centrale. Sono previsti una serie di interventi importanti per superare gli immobilismi che hanno rallentato la competitività del sistema italiano. Innanzitutto, la semplificazione normativa dovrebbe consentire tempi di attraversamento minori per la realizzazione degli investimenti. Un passo in avanti è stato compiuto sul processo di pianificazione strategica dei porti italiani.
6. La semplificazione della pianificazione portuale
La pianificazione è una di quelle attività che si sono perse nei meandri della crisi italiana dell’ultimo mezzo secolo. Dal Piano di Ezio Vanoni alla Nota Aggiuntiva di Ugo La Malfa, l’Italia aveva costruito il miracolo economico del secondo dopoguerra anche attraverso il lavoro di pianificazione di think tank che agivano all’interno delle istituzioni, nella Cassa del Mezzogiorno, nei Ministeri, nelle organizzazioni sindacali e nelle imprese.
Queste idee costituivano il serbatoio per la costruzione delle politiche economiche e degli strumenti normativi. La circolazione del pensiero costituiva il motore della democrazia, ed è stata l’anima delle rinascita economica e sociale del Paese. Poi, dagli anni Settanta del secolo scorso in avanti, sino ad oggi, si è determinata una progressiva scissione tra contenuti della pianificazione ed esecuzione operativa delle politiche.
I documenti di programmazione sono diventati libri dei sogni, e la Nazione si è arenata progressivamente in un continuo inseguimento della emergenza, in assenza di una visione condivisa, capace di costruire la prospettiva strategica del futuro. In questa trappola sta una delle ragioni del declino italiano.
Oltretutto, la pianificazione è stata ingabbiata in una selva di norme oscure, che ha costretto a rallentare i tempi della condivisione entro riti che si sono trasformati in puri adempimenti burocratici. L’approvazione del piano coincideva sostanzialmente con la morte delle idee che vi erano contenute, perchè il tempo di attraversamento che precedeva l’approvazione era talmente lungo da renderle inevitabilmente obsolete, con l’effetto di collocare il documento di piano nel cassetto degli appassionati della materia.
Questa storia la ritroviamo anche nei porti, nella logistica, nelle infrastrutture di trasporto. Ad eccezione del Piano Generale dei Trasporti, approvato nel 1983, i successivi documenti di aggiornamento e di rielaborazione non sono riusciti a disegnare la traiettoria del futuro, ma si sono limitati ad una manutenzione poco efficace delle idee precedenti. Sono anche proliferati gli strumenti di pianificazione, ma il fossato tra disegno di programmazione e realtà operativa si è andato allargando, sino a determinare sostanzialmente il dominio della paralisi.
Prevale anche per questa ragione la cultura e la prassi del porto museo, di una infrastruttura che conserva manufatti che non hanno più una funzione economicamente adeguata rispetto alla evoluzione della logistica contemporanea e della economia marittima.
I nostri porti sono ancora caratterizzati prevalentemente dalla presenza di magazzini coerenti con il traffico delle rinfuse, mentre la rivoluzione dei container richiedeva spazi di banchina per lo stoccaggio delle unità di carico. Cambiava il contesto economico del sistema logistico, ma l’infrastruttura non riusciva ad interpretare la stagione del cambiamento: in questo modo i porti paiono più la sovrapposizione di ere geologiche differenti che non una infrastruttura viva al servizio del sistema economico e turistico.
Poi, senza forse riflettere sulle ragioni che ci hanno condotto a questa situazione, ci stupiamo per la scarsità degli spazi disponibili nei recinti portuali: se facessimo un conto delle superfici ancora oggi occupate da infrastrutture che non sono più coerenti con la logica del sistema economico contemporaneo, potremmo registrare sorprese molto significative. Questo aspetto, unito anche alla persistenza dei porti italiani nel cuore delle città, rappresenta uno degli snodi che vanno affrontati, se vogliamo ridisegnare i lineamenti di una competitività per i prossimi decenni.
Demolire è uno dei verbi proibiti nella stagione del declino italiano. Anche questo divieto è figlio della burocrazia. Esiste una regola per la quale se si demolisce una cubatura nei porti italiani, l’istituzione pubblica è chiamata a ricostruirne altrettanta, perché si tratta di beni dello Stato che devono essere ricostituiti.
Tale logica è figlia di una antica concezione patrimonialistica, che non tiene conto di come intanto sono evoluti i valori economici della logistica. Oggi un piazzale ha un valore decisamente maggiore rispetto ad un magazzino di stoccaggio nel porto, perché la logistica è evoluta verso un concetto che distingue attività portuali ed attività retro-portuali.
La merce deve essere rapidamente liberata dal porto, mentre il suo riordino e la sua spedizione verso la destinazione finale viene effettuata negli spazi alle spalle del porto stesso. La pulizia delle aree che sono meno funzionali rispetto alla evoluzione del concetto moderno di logistica costituisce una delle attività strategiche per il ridisegno dei porti italiani nel prossimo futuro.
Uno dei vincoli che ha ingessato i porti italiani era proprio la necessità di costituire, in caso di demolizione di un fabbricato all’interno del porto, una fidejussione quale garanzia per la costruzione di un nuovo edificio per cubature omologhe. Nel corso del mio mandato come Presidente della Adsp del Mar Tirreno Centrale abbiamo promosso una circolare congiunta tra Ministero delle Infrastrutture ed Agenzia del demanio che consente oggi di poter evitare la ricostruzione nel caso in cui si dimostri., mediante una analisi costi benefici, che la demolizione comporta vantaggi per l’erario pubblico.
La riforma Delrio aveva introdotto lo strumento del documento di programmazione strategica di sistema (DPSS), con l’obiettivo di allineare la programmazione urbana del territorio con l’evoluzione degli spazi portuali. L’obiettivo era assolutamente giusto. Ma la strada per raggiungerlo era lastricata di un percorso tortuoso, determinato dal disallineamento tra le diverse amministrazioni che dovevano concorrere a questo risultato.
Ciascuno dei comuni coinvolti nel procedimento doveva esprimersi, prima di poter convergere verso la soluzione conclusiva, che doveva poi essere sottoposta alla Regione una volta ottenuti i pareri positivi dei singoli comuni. Durante il mio mandato Castellammare di Stabia ha cambiato tra amministrazioni. Non c’è stato nemmeno il tempo per cominciare una interlocuzione, e già cambiava il sindaco e la giunta.
Con la legge di semplificazione n. 121/2021, all’articolo 4, sono state introdotte modifiche che unificano il procedimento “mediante conferenza dei servizi, ai sensi dell’articolo 14-bis della legge 7 agosto 1990, n. 241, indetta dall’Autorità di sistema
portuale, al parere di ciascun comune e regione territorialmente interessati, che si esprimono entro quarantacinque giorni dal ricevimento dell’atto, decorsi i quali si intende espresso parere non ostativo, ed è approvato dal Ministero delle infrastrutture e della mobilità sostenibili, che si esprime sentita la Conferenza nazionale di coordinamento delle Autorità di sistema portuale di cui all’articolo 11-ter della presente legge. Il documento di programmazione strategica di sistema non è assoggettato alla procedura di valutazione ambientale strategica (VAS)”.
Anche la suddivisione tra aree portuali, retro-portuali e di interazione porto-città che deve essere contenuta nel DPSS rende più fluida l’interlocuzione tra le diverse istituzioni, in quanto consente di focalizzare l’area delicata del confine tra scalo marittimo e spazio urbano, mentre consente anche di discutere degli spazi retro-portuali, che sono strategici per il miglior funzionamento del porto stesso.
La competenza per aree portuali e retro-portuali spetta esclusivamente alla Autorità di Sistema Portuale, che approva il Piano regolatore portuale (PRP), mentre per gli spazi di interazione tra porto e città la responsabilità è del Comune e della Regione.
Il PRP è un piano territoriale di rilevanza statale, e rappresenta l’unico strumento di pianificazione e di governo del territorio nel proprio perimetro di competenza. Anche i cambiamenti non essenziali al disegno di pianificazione portuale possono essere modificati con una corsia preferenziale che rende maggiormente flessibile il governo del territorio e l’evoluzione delle funzioni all’interno del porto stesso.
Recita così la modifica apportata alla legge 84/94: “Le modifiche che non alterano in modo sostanziale la struttura del PRP in termini di obiettivi, scelte strategiche e caratterizzazione funzionale delle aree portuali, relativamente al singolo scalo marittimo, costituiscono adeguamenti tecnico- funzionali del piano regolatore portuale. Gli adeguamenti tecnico-funzionali sono adottati dal Comitato di gestione dell’Autorità di sistema portuale, è successivamente acquisito il parere del Consiglio superiore dei lavori pubblici, che si esprime entro quarantacinque giorni, decorrenti dalla ricezione della proposta di adeguamento tecnico-funzionale. Decorso tale termine, il parere si intende espresso positivamente”.
Con questi provvedimenti di semplificazione si pongono le premesse affinchè nel sistema portuale la pianificazione possa tornare ad essere uno strumento di governo e non un peso burocratico completamente sganciato dalla realtà gestionale del territorio. La partita comincia ora, assieme al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). Allineare gli investimenti alla pianificazione costituisce una necessità. Utilizzare anche la leva delle demolizioni per ridisegnare gli spazi secondo una logica più razionale sarà una delle sfide da vincere.
7. Considerazioni conclusive
Ormai il PNRR è in marcia. Su diverse questioni si avverte l’esigenza di un dibattito pubblico serio ed articolato, non per frenare le decisioni assunte, ma per migliorarne la qualità di esecuzione. Spendere al meglio le risorse degli investimenti sarà altrettanto importante quanto cogliere l’occasione per riformare le regole di funzionamento della nostra vita economica.
Sarà necessario anche innestare le linee di azione del PNRR nel tessuto del sistema produttivo nazionale, rendendolo ancor più funzionale rispetto alle politiche economiche del Paese, ed anzi aggiornando gli altri strumenti nei confronti di questo vettore di trasformazione.
Proprio sul fronte delle riforme si potrà misurare l’efficacia delle azioni previste dal PNRR. Superare l’ingessamento burocratico – che ha sinora impedito una risposta competitiva dei porti italiani rispetto alla evoluzione dei mercati – sarà la sfida fondamentale per consentire al sistema portuale italiano di supportare il tessuto industriale mediante una adeguata organizzazione logistica. L’esempio efficace che è stato costruito per la formulazione del documento di pianificazione strategica di sistema dei porti è un buon passo in avanti che deve essere stimolo per ulteriori azioni riformatrici.
Resta però la necessità di allargare la vista, e di considerare il futuro della portualità italiana all’interno di un orizzonte più vasto, connettendola al rilancio industriale, alla logistica, al ridisegno delle relazioni internazionali. Non si tratta solo di costruire infrastrutture. È necessario costruire, ed implementare, una visione condivisa.
E non dobbiamo nemmeno dimenticare che l’economia nazionale continua ad essere caratterizzata da una componente di produzione sommersa ed illegale. I porti rispecchiano anche queste antiche distorsioni del nostro Paese, anche e soprattutto nel Mezzogiorno. Ed i porti italiani, anche quelli meridionali, si caratterizzano per tutta una serie di traffici illegali: dal traffico di armi a quello della droga, dalle esportazioni di rifiuti pericolosi alla importazioni di prodotti contraffatti.
Il combinato disposto di questi due mali conduce alla marginalizzazione dell’Italia e del suo Mezzogiorno. Le ingenti risorse che l’Unione Europea ha deciso di investire in Italia servono proprio a riscrivere i meccanismi di funzionamento del sistema. I prossimi passi sulle riforme saranno davvero decisivi.
I primi tre pilastri che stiamo affrontando riguardano la riforma della giustizia, la legge sulla concorrenza, la riforma delle concessioni. Si vedrà dall’esito finale del confronto tra le forze politiche: e allora capiremo se ne usciremo con adattamenti gattopardeschi oppure se, una volta tanto, decideremo davvero di imboccare la strada, difficile ma necessaria, del cambiamento e della trasformazione.
Anche le zone economiche speciali attendono una spinta propulsiva che non si è intanto verificata. Lo abbiamo detto in precedenza. L’autorizzazione unica promossa dal Governo Draghi per le aziende che decidono di insediarsi nelle Zes, assieme alle risorse aggiuntive rese disponibili per investimenti infrastrutturali nelle zone economiche speciali, sono concreti passi in avanti.
Deve ancora essere completata la governance, mediante la nomina dei commissari che dovranno guidare il percorso di attrazione delle industrie nelle regioni meridionali. Serve però anche che sia messa in campo una strategia di posizionamento dei porti meridionali nello spazio mediterraneo, per dispiegare pienamente gli effetti delle ZES. I cambiamenti possono avanzare su due gambe: porti meridionali e ZES devono essere parte di una strategia unitaria. Il Mezzogiorno può ripartire da qui.
Occorre però un senso di urgenza e di discontinuità che non si riesce ancora ad affermare. Restiamo per buona parte ancora prigionieri delle visioni del passato, che hanno generato la lunga stagione del declino industriale, logistico ed economico del Mezzogiorno. Serve più coraggio e più innovazione. Ripercorrere i sentieri già tracciati può implicare solo la riscrittura di una telenovela che già abbiamo conosciuto. Comprendere la centralità della portualità meridionale per il rilancio dell’economia italiana costituisce una delle sfide alle quali è chiamato il PNRR.
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