La diversità comunista e le riforme mancate: l'eredità della "svolta" - Fondazione PER
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La diversità comunista e le riforme mancate: l’eredità della “svolta”

Intervista a Claudia Mancina

A cura di Vittorio Ferla

 

 

Il 12 novembre 1989 a Bologna – precisamente al quartiere Navile, ex Bolognina – durante le celebrazioni per il 45° anniversario della battaglia di Porta Lame, il segretario del Partito Comunista Italiano Achille Occhetto annuncia a sorpresa la cosiddetta “svolta”. Fu il primo passo di un processo non breve che porterà allo scioglimento del Pci e alla nascita del Partito Democratico della Sinistra nel corso del congresso di Rimini che si tenne nell’inverno del 1991. Claudia Mancina – già docente di Etica all’Università “La Sapienza” di Roma e oggi componente della presidenza di Libertà Eguale e del Cda della Fondazione PER – è stata certamente tra i protagonisti attivi di quella stagione. Tanto che, negli anni immediatamente successivi, venne eletta deputato nel gruppo Pds (1992-1994) e poi nel gruppo Ds (1996-2001) e, più tardi, è stata componente della direzione nazionale del Partito democratico. Nel suo ultimo libro “Berlinguer in questione” (Laterza, 2014) riflettendo sulla figura del celebre segretario del Pci ha studiato alcuni di quei temi di fondo che hanno segnato la cultura del partito esercitando un’influenza anche sul processo evolutivo avviato con la svolta di Occhetto.

 

Claudia Mancina, nel 1989 ha vissuto in prima persona, sia come intellettuale che come militante, il processo di trasformazione del Pci, nel passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica. Quali erano gli obiettivi della “Svolta”? Qual era il disegno di Achille Occhetto? 

Il più ovvio degli obiettivi era certamente quello di salvare l’esperienza e la forza del Pci – caso unico nel panorama occidentale – dal tracollo del mondo comunista. Questo non si poteva fare conservando, ma solo innovando in modo radicale. Ciò poteva avvenire soltanto con due operazioni: da una parte, con la costruzione di un soggetto politico del tutto nuovo, per cultura politica, pratica democratica, base sociale; dall’altra parte, con la riforma del sistema politico e della sua cornice istituzionale. Un nuovo partito in un nuovo sistema politico, insomma. Un nuovo partito, non più comunista, dunque non più soggetto alla conventio ad excludendum. Ma nemmeno autoescludentesi: perché era questo il vero problema del Pci, troppo alieno per pensarsi veramente candidato a governare il paese. Ricordiamo infatti che Enrico Berlinguer, il leader che per primo pose il problema della partecipazione al governo, si sentì costretto a mettere in piedi un complicata disegno come il “compromesso storico”, sulla base della stupefacente convinzione che non si governa con il 51%. Alla base della svolta vi era, invece, l’idea che il partito avrebbe dovuto essere “nuovo” proprio in quanto capace di competere per il governo in un normale sistema di alternanza democratica. Si rendeva necessario, pertanto, costruire un sistema politico fondato sull’alternanza (e non sul consociativismo): un sistema di democrazia matura con un sistema elettorale grazie al quale i cittadini avessero la facoltà di esprimere una scelta per il governo.

 

Nel 1989 lei non faceva parte del gruppo ristretto intorno ad Achille Occhetto, ma era già da tre anni nel Comitato centrale del Pci e aveva partecipato alla stesura delle tesi per il congresso che si era tenuto nella primavera del 1988. Come ha vissuto la Svolta dell’Ottantanove?

Quando Occhetto fece la dichiarazione della Bolognina mi trovavo per motivi di ricerca e di studio a Monaco di Baviera, dove avevo vissuto l’enormità e la bellezza del crollo del Muro. Sul primo momento rimasi sconcertata dall’iniziativa di Occhetto, presa da un’impressione d’improvvisazione che fu generale. Ma proprio il fatto di essere in Germania, sufficientemente distante dalle beghe interne al partito, mi aiutò a comprendere che a un evento storico come la fine del mondo comunista non si poteva non dare una risposta anch’essa storica. Se mai, eravamo in ritardo. Così, tornata in Italia, aderii senza esitazione alla svolta. Venivamo definiti con irrisione “nuovisti”: quelli che credevano che non solo il nome, ma tutto dovesse cambiare.

 

Ecco, appunto, il nome. Qual era la sua opinione in proposito? Era giusto cambiare il nome del partito? In fondo, non era il Pci qualcosa di molto diverso dai partiti comunisti dell’Europa dell’Est? Non c’era già stata la presa di distanza critica di Enrico Berlinguer dall’esperimento politico-istituzionale dell’Unione Sovietica?

Non si trattò solo di una questione terminologica, ma di una rottura simbolica di enorme rilievo. Nella battaglia che fu avviata contro la svolta – accusata, oltre che di improvvisazione, di superficialità culturale, di opportunismo, di subalternità – l’argomento principale degli oppositori era proprio questo: “Il comunismo italiano è stato un’altra cosa. Non abbiamo bisogno di cambiare nome, perché siamo diversi, pienamente radicati nella democrazia”.

In fondo, si spiegava, con il mondo sovietico aveva già rotto Berlinguer, con le sue affermazioni sul valore universale della democrazia e con la sua idea di eurocomunismo. Oggi però è più facile riconoscere che la rottura di Berlinguer era solo parziale. Con Berlinguer il Pci restava il Pci: cioè conservava l’idea fumosa di una società altra e diversa dalla società borghese. In questo modo resisteva un residuo legame, per quanto critico, con la rivoluzione d’Ottobre e con l’esperimento sovietico. La rottura berlingueriana divenne la base della posizione di quelli che dopo la svolta si chiamarono comunisti democratici, ma non metteva in discussione l’identità comunista, pur rielaborandola in chiave democratica.

 

Quali furono le conseguenze di questa ‘diversità’ dei comunisti italiani? È anche questo il motivo per cui il Pci non riuscì a compiere il passo ulteriore verso la le socialdemocrazie europee con l’ingresso nel Pse?

Esattamente. L’idea di potersi confondere con i socialdemocratici e quindi confluire nella vasta famiglia socialista era rifiutata alla radice. Anche per questo la prospettiva sul piano politico-sociale risultava confusa e la collocazione internazionale contraddittoria. Come ho spiegato nel mio studio su Berlinguer (Berlinguer in questione, Roma-Bari 2014) questa confusione non fu risolta con l’invenzione dell’eurocomunismo. Sia chiaro: la diversità del partito comunista italiano era reale. Basti pensare che Togliatti nel 1944 entrò nel governo Badoglio sia per decisione di Stalin, che in coerenza con le linee politiche abbozzate da Gramsci in carcere. Tuttavia questa diversità non era sufficiente a sciogliere del tutto i destini del Pci dal comunismo internazionale: basterebbe ricordare che la famosa affermazione sul valore storicamente universale della democrazia – dove l’avverbio, nella migliore tradizione comunista, serviva a circoscrivere l’assolutezza del giudizio – fu pronunciata a Mosca, in occasione della celebrazione del 60° della Rivoluzione d’Ottobre.

 

Insomma, pare di capire che la crisi del mondo comunista era avanzata al punto che ogni sua possibile declinazione fosse impossibile. Il crollo del Muro di Berlino e dei regimi comunisti travolse così anche il Pci. Da qui la necessità di cambiare anche il nome. Ma di quali nomi si parlava in quei giorni?

Sì, cambiare il nome significava mettersi dietro le spalle la duplicità di Togliatti (padre della Costituzione e contemporaneamente dirigente di primo piano del movimento comunista internazionale) e le contraddizioni di Berlinguer. La battaglia sul nome, infatti, fu furibonda. E il dibattito non riguardò soltanto i cosiddetti comunisti democratici. Ci fu anche una battaglia tra quelli che in passato erano stati chiamati miglioristi, e che ora vollero chiamarsi riformisti.

In pratica, subito dopo la svolta, tramontò l’unità del centralismo democratico. Le diverse aree cominciarono a manifestarsi pubblicamente, a riunirsi separatamente, a distinguersi nelle opinioni e nel voto. Cose che prima erano impensabili nel Partito comunista diventavano ora del tutto normali.

Ovviamente, c’erano diverse idee sul nuovo nome del partito. Per esempio, la proposta – certamente provocatoria – di chiamarsi partito comunista democratico. La possibilità di chiamarsi socialisti o socialdemocratici fu rapidamente esclusa. E questo per ragioni di politica interna: chiamarsi socialisti per molti significava accettare una subordinazione al Psi di Craxi o, nella migliore delle ipotesi, passo indietro rispetto alla scissione di Livorno. Quelli dell’area riformista proponevano invece di chiamarsi partito del lavoro. Naturalmente, la posta in gioco non era solo il nome. Il confronto era sulla necessità di fare una cosa del tutto nuova o sulla opportunità di accomodarsi sulle categorie tradizionali.

 

Come si schierarono le varie correnti sulla svolta? Chi erano i punti di riferimenti nel partito capaci di garantire il successo dell’operazione? 

Al momento della svolta, i miglioristi, dopo una iniziale esitazione, si accodarono. Così anche D’Alema e i suoi (tra cui la responsabile delle donne Livia Turco), sia pure con un certo disagio. L’adesione di D’Alema fu essenziale per il successo della svolta. Molti militanti trovarono in lui una rassicurazione rispetto al nuovismo di Occhetto. D’Alema, forte del suo stile togliattiano, offriva loro una giustificazione della svolta sulla base delle vecchie consuete categorie: si trattava di cambiare per salvaguardare il partito, come tante altre volte aveva fatto il Pci, cambiando politica senza cambiare se stesso. Occhetto e gli occhettiani, viceversa, pensavano di compiere una cesura definitiva e di cominciare una storia nuova con un partito nuovo. Le due visioni erano quindi completamente diverse e non potevano che scontrarsi. Se l’adesione di D’Alema fu essenziale, così, per tenere dentro molti che si sarebbero schierati per il No, allo stesso tempo snaturava profondamente il senso e gli obiettivi dell’operazione.

 

L’anno dopo della Bolognina si svolse il XIX e penultimo congresso del PCI (marzo 1990) dove furono discusse tre mozioni: quella di Occhetto che proponeva di aprire una fase costituente per un partito nuovo, progressista e riformatore, nel solco dell’Internazionale socialista; quella firmata da Natta e Ingrao, che invece si opponeva ad una modifica del nome, del simbolo e della tradizione; e una terza proposta da Armando Cossutta, simile alla precedente. La mozione di Occhetto risultò vincente con il 67% delle preferenze, contro il 30% raccolto dalla mozione di Natta e Ingrao ed il 3% di quella cossuttiana. Achille Occhetto venne riconfermato segretario.

In realtà i congressi furono due! Dopo la Bolognina, per mettere fine alla ragione sociale del Pci era indispensabile convocare un congresso. Ma il processo fu complicato da una decisione singolare: quella di fare due congressi, uno per decidere se cambiare nome si tenne nel ’90 a Bologna, e solo successivamente uno per cambiarlo, l’anno dopo a Rimini. Una sofisticheria che fu proposta da D’Alema, Reichlin e Trentin al fine di raffreddare gli animi e limitare le perdite. Il doppio congresso fu un gravissimo errore, dal punto di vista della svolta. Allungò i tempi e dette spazio a sterili dibattiti, allontanò persone che sull’onda dell’entusiasmo si erano riavvicinate, a volte dopo anni, oppure giovani che si erano avvicinati per la prima volta. Con il doppio congresso la straordinaria apertura al mondo di fuori venne rinchiusa nei rapporti di potere interni al partito. In tal modo, la spinta rinnovatrice fu mortificata e la Costituente del nuovo partito non ebbe mai luogo. Il congresso di Bologna, quello delle famose lacrime del segretario, fu percorso da una carica di entusiasmo e di speranza. Al contrario il secondo – che si svolse a Rimini in concomitanza con la crisi del Golfo – fu triste e burocratico, e si concluse clamorosamente con la mancata elezione di Occhetto. La sua forza, nei mesi successivi, andò declinando a vantaggio di quella di D’Alema, che divenne il capo dell’opposizione interna.

 

In effetti, l’ultimo congresso del Pci (31 gennaio – 3 febbraio 1991) vide la vittoria della mozione di Occhetto (appoggiata, tra gli altri, da D’Alema, Veltroni e Fassino). Il 3 febbraio nasce il Partito Democratico della Sinistra: il simbolo è una quercia mentre il vecchio simbolo del Pci con falce e martello viene ridotto e collocato simbolicamente alle radici dell’albero. A causa dell’assenza di 132 consiglieri, a sorpresa, Occhetto subì l’onta di non raggiungere il quorum necessario per l’elezione. L’8 febbraio fu comunque eletto come primo segretario del Pds (376 voti favorevoli contro 127 voti contrari). In verità, in questa veste Occhetto ebbe ancora due grandi vittorie: i referendum elettorali del 1991 e del 1993.

A questo proposito è bene ricordare che il documento politico più importante della svolta è la relazione al Comitato centrale tenuta da Occhetto, allora ancora vicesegretario, nel novembre del 1987. Quella relazione proponeva una visione completamente nuova degli equilibri politico-istituzionali del paese. Occhetto suggeriva di abbandonare la cultura e la pratica del consociativismo quella per cui, come si diceva orgogliosamente nel Pci, si governa anche dall’opposizione: si governa, cioè, attraverso accordi e scambi di ruolo con le forze di governo. Le pratiche consociative si svilupparono a partire dagli anni Settanta: non vanno confuse con la corruzione degli anni successivi, ma certamente la prepararono. La prospettiva nuova illustrata da Occhetto in quella relazione era quella dell’alternanza tipica dei paesi democratici dell’area anglosassone e continentale europea: l’Italia doveva essere un paese come gli altri, e non quello speciale paese in cui la democrazia poteva andare oltre se stessa, fino a incorporare elementi di socialismo. A questo scopo si rendevano necessarie delle riforme che consentissero un miglior funzionamento della democrazia italiana: in primo luogo, una riforma elettorale in senso maggioritario.

 

Quale fu la reazione degli altri dirigenti? La cultura del Partito comunista italiano era pronta per accogliere un simile cambiamento?

Credo che lo stesso Occhetto non si rendesse conto di quanto grande fosse la rottura da lui disegnata: fu infatti stupito dalla reazione negativa di molti dirigenti, tra cui lo stesso Ingrao che allora era il presidente del Centro per la Riforma dello Stato. Ma non bisogna stupirsi più di tanto. La linea tracciata da Occhetto metteva in discussione un punto essenziale dell’identità del Pci: il rapporto con la Costituzione, nel quale il partito trovava le radici storiche della sua funzione nazionale. Si potrebbe dire con una battuta che il Pci aveva sostituito la Costituzione alla rivoluzione, come orizzonte ideale della sua azione e della sua cultura. La conseguenza è chiara: ogni idea di riforma dell’ordinamento viene respinta nel nome della Costituzione. Ciò significava anche essere proporzionalisti, perché, sebbene nel testo costituzionale non se ne faccia cenno, l’assetto proporzionale deriva logicamente da quell’impostazione, e così era stato vissuto negli anni della Repubblica. Le proposte di riforma avanzate da Craxi e Amato, infatti, erano state respinte con sdegno come attacchi alla Costituzione: quasi un riflesso condizionato che è durato negli anni ed è presente ancora oggi.

 

Eppure, nonostante le resistenze della cultura tradizionale dei comunisti italiani, Occhetto riuscì, da segretario del Pds, a condurre il partito su una posizione di sostegno ai referendum elettorali promossi da Mario Segni.

È così. Il referendum del 1991 sulla preferenza unica, osteggiato da tutti i partiti, fu un trionfo. Il referendum del 1993 segnò poi la scelta per un sistema maggioritario. La spinta che portò a quelle vittorie referendarie, vista n gli occhi di oggi, conteneva pure una buona dose di antipolitica, per di più rafforzata dalle vicende giudiziarie di Tangentopoli. Tuttavia, lo schema della riforma delle istituzioni repubblicane e dell’allargamento della democrazia restava saldo e veniva garantito dalla guida di Segni e dall’adesione del Pds. Purtroppo, dopo il referendum, le incertezze di Segni e la debolezza di Occhetto nel partito impedirono di raccogliere tutti i frutti della straordinaria stagione referendaria. A ciò si aggiunsero alcuni cruciali episodi: la nascita travagliata del governo Ciampi nel quale il Partito democratico della sinistra entrò e uscì nello spazio di ventiquattr’ore; la legge elettorale definita Mattarellum che prevedeva due schede per la Camera – una per il collegio maggioritario e una per la quota proporzionale – più lo scorporo, che inibiva il pieno dispiegarsi dell’effetto maggioritario; la sottovalutazione del nuovo fenomeno Berlusconi e della sua efficacia nel sistema maggioritario. Con la clamorosa sconfitta alle elezioni del 1994 si conclude così la vicenda di Occhetto.

 

Che cosa succede dopo? Che eredità lascia Achille Occhetto? Come fu gestita dai suoi successori? La fine della sua segreteria fu ininfluente o, viceversa, interruppe l’evoluzione del partito?  

Con il nuovo segretario D’Alema il Pds iniziò un percorso politico paradossale. Da un lato, si applicavano alcune idee della svolta come l’allargamento del partito ad altre culture e tradizioni politiche. Dall’altro lato, prevalse un’interpretazione puramente tatticista del cambiamento – basata sulle alleanze piuttosto che sulla trasformazione della cultura del partito – vanificando così gli obiettivi principali della svolta. Ecco perché il partito che con varie denominazioni è succeduto al Pci (prima Pds, poi Ds) non è mai riuscito ad essere altro che un partito postcomunista, nel quale la continuità, nonostante tutto, ha sempre prevalso sulla discontinuità; la conservazione del passato, per quanto parziale, sulla costruzione del futuro. L’essere postcomunista appare ancora oggi un tratto ineliminabile, un tratto di stile e di cultura, quasi antropologico. Quel partito non è stato in grado di diventare autonomo, di costruirsi come un polo dell’alternanza, ma ha avuto bisogno di fondersi con altri post, i postdemocristiani di sinistra, per dar vita a un polo di centrosinistra, e non ha mai vinto le elezioni con un proprio candidato. L’Ulivo (quello del ’96) è stato certamente un fatto importante e positivo nella storia politica del paese. Lo è stato nella misura in cui era la continuazione della svolta, chiamava a raccolta persone di diversa provenienza per costruire un soggetto nuovo in un sistema nuovo. Rapidamente trasformato in una fusione di ceto politico, l’Ulivo si è inaridito, ha perso la sua linfa vitale ed è morto. E questa è la storia di ieri e di oggi, la storia che ha portato con drammatico ritardo alla nascita del Pd e ne spiega tutte le debolezze.

 

Ritorniamo agli obiettivi della svolta. È possibile oggi fare un bilancio? Possiamo dire che quegli obiettivi siano stati raggiunti? Con l’evoluzione del Pci l’Italia è diventata finalmente una democrazia matura?

Non si può negare che il primo degli obiettivi – non disperdere il patrimonio politico e culturale del Pci – sia stato almeno in parte realizzato. Sottolineo “almeno in parte”, perché il punto d’arrivo della ormai lunga vicenda che dalla svolta arriva a oggi, cioè il Partito Democratico, è e non è quello che allora si aveva in mente. Non lo è, perché non è riuscito a raccogliere l’Italia democratica in un progetto di società coerente e coraggioso e, mentre si perdeva per strada anche una buona parte dei tradizionali consensi comunisti, non è riuscito ad allargare significativamente il proprio elettorato a ceti e generazioni diverse. Tuttavia è ancora lì ed è ancora – nonostante le sue debolezze ed evidenti fragilità – il più consistente punto di riferimento per un polo democratico e riformista.

Gli altri due obiettivi, i più importanti – la costruzione di un partito e di un sistema politico-istituzionale nuovi – non sono stati raggiunti. Un partito autenticamente liberaldemocratico e insieme con forti radici sociali è ancora da costruire. Ma la sconfitta più importante e più bruciante riguarda la riforma del sistema politico. Tutti i tentativi di riformare la Costituzione sono stati sconfitti. Le leggi elettorali sono state ripetutamente modificate per renderle sempre più proporzionali. Le élite politiche non si sono mai riprese dai rovinosi colpi di Tangentopoli. In questo spazio lasciato libero dalla debolezza e dalla fragilità dei partiti e delle istituzioni, i movimenti populisti, tendenzialmente antidemocratici e sicuramente illiberali, hanno avuto l’opportunità di prosperare e guadagnare consensi. Certo, il fenomeno non è soltanto italiano: coinvolge tutti i paesi democratici ed esprime uno stato di malessere della democrazia in quanto tale. Tuttavia l’Italia, a causa delle mancate riforme, resta un caso particolarmente debole ed esposto ad avventure preoccupanti, proprio perché non è un paese di democrazia matura. Se leggiamo la nostra storia con queste chiavi di lettura dobbiamo riconoscere il sostanziale fallimento della svolta.

Vittorio Ferla
vittorinoferla@gmail.com

Giornalista, direttore di Libertà Eguale e della Fondazione PER. Collaboratore de ‘Linkiesta’ e de 'Il Riformista', si è occupato di comunicazione e media relations presso l’Ufficio di Presidenza del Consiglio regionale del Lazio. Direttore responsabile di Labsus, è stato componente della Direzione nazionale di Cittadinanzattiva dal 2000 al 2016 e, precedentemente, vicepresidente nazionale della Fuci. Ha collaborato con Cristiano sociali news, L’Unità, Il Sole 24 Ore, Europa, Critica Liberale e Democratica. Ha curato il volume “Riformisti. L’Italia che cambia e la nuova sovranità dell’Europa” (Rubbettino 2018).

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