
18 Apr La maternità tra tabu e paradossi
di Francesca Izzo
Parlare di maternità oggi in Italia è difficile, probabilmente lo è anche altrove in Occidente, ma qui da noi in modo particolare. Sono stati fatti vari tentativi, negli ultimi decenni, di impegnare la cultura femminile ( e non solo) in un dibattito pubblico su come cambia la maternità nell’epoca della libera scelta e quali mutamenti complessivi richiede. Potrei citare convegni, studi libri, alcuni di grande valore teorico e documentario ma il tema è rimasto marginale.
Femminismo e maternità
Il femminismo della seconda ondata che aveva esplorato a fondo l’ambito della sessualità portandone alla luce la forte valenza politica, sulla maternità ha mostrato una radicata reticenza. Probabilmente la lotta durissima per superare l’identificazione di sessualità e procreazione, la conquista così travagliata dell’autodeterminazione hanno fatto scattare una sorta di riflesso condizionato che blocca lo sguardo sul passato.
Né ha avuto più successo la ripresa del tema da parte di qualche movimento postfemminista dell’ultimo decennio, come Se non ora quando-Libere, che in nome di una riappropriazione della maternità, ha cercato di imporlo come questione di prima grandezza alla agenda politica nazionale. Un esito probabilmente inevitabile per l’assenza di forti pressioni di massa.
Insomma per la cultura e la politica delle donne la maternità è una sorta di tabu, ben radicato nelle aree liberali, progressiste e anche cattolico democratiche ( dove si preferisce parlare genericamente della famiglia e della sua protezione), secondo cui meno la si nomina meglio è, altrimenti si rischia di alimentare spinte regressive, sempre pronte a riemergere.
Un discorso collettivo sulla maternità
In una recente intervista(alla 27ora) Silvia Vegetti Finzi, ha tenuto a sottolineare che “un discorso collettivo sulla maternità, ad esempio, non è mai stato fatto”, correndo così il pericolo che “la parte procreativa, non intendo riproduttiva, ma proprio procreativa, venga abbandonata ai margini della pensabilità e della riflessione, tacendo gli aspetti di creatività, di bellezza, di felicità, che hanno una ricaduta molto premiante sul destino delle persone. Sembra invece che tutto debba avvenire come se questa parte dell’esistenza umana dovesse andare da sé, come se non fosse degna di riflessione e di condivisione”.
E intanto l’Italia, a un ritmo sempre più accelerato, è entrata in una spirale di calo demografico da record mondiale ( 1,29 figli per donna nel 2019) . Alle iniziali preoccupazioni di alcuni studiosi si sono via via aggiunte le voci sempre più allarmate di demografi sociologi economisti politici opinionisti ma a nessuno (salvo qualche rarissima eccezione) viene in mente di mettere in relazione la crisi di natalità con la vita delle donne, come se i bambini non venissero al mondo grazie al loro sì. D’altra parte l’assenza dalla scena pubblica di un autorevole discorso femminile sulla maternità rende agevole trattare il calo demografico enunciandone, in termini neutri o generici, le varie cause ( le difficoltà delle giovani coppie, il lavoro precario, la famiglia, ecc), ma senza metterne a fuoco lo snodo essenziale.
Il disagio della maternità
Il fatto è che, senza fare rumore, in un silenzio sofferente, milioni di donne italiane (ma accade, in forme più contenute, in tutto l’Occidente) hanno smesso di fare bambini, denunciando così un “disagio” della maternità (si potrebbe stabilire, azzardando, un parallelo con l’aumento dell’altrettanto silenziosa diserzione in massa dalle urne: le donne non si sentono cittadine pienamente riconosciute e quindi non partecipano alla vita democratica). Un disagio che si rivela paradossalmente nella stessa ricerca, spasmodica e costosa per la salute fisica e psicologica, di gravidanze con le tecniche di fecondazione assistita, alle quali sempre più spesso ricorrono donne che, arrivando tardi alla decisione, si scoprono infertili.
Le giovani fanno sempre meno bambini certo perché le condizioni economiche, di lavoro, di servizi sono proibitive ma al fondo il punto è che vogliono realizzare pienamente se stesse e la loro creatività sociale e avvertono che la maternità comporta invece un rischio di svalorizzazione.
Insomma con il vecchio ordine collassato (che prevedeva la rigida distinzione delle funzioni con le donne a casa e gli uomini fuori), non si prova neppure a immaginarne un altro fondato sulla libertà femminile che richiederebbe, innanzitutto, il passaggio della maternità da vicenda privata a questione sociale, con la radicale modifica di regole, tempi e gerarchie simboliche, culturali, politiche; si continua invece a considerare la maternità un compito, un handicap che pesa sulle singole donne che però sempre più vi si sottraggono silenziosamente.
Siamo arrivati a un bivio che è innanzitutto culturale: lo estremizzo volutamente per rendere chiare le alternative che spesso appaiono sfumate, confuse.
Riflettere sulla maternità
Come valutiamo la maternità? Costituisce un aspetto, un tratto permanente e distintivo della compiuta umanità femminile oppure è una caratteristica biologica che, come tale, rinvia a una condizione di subalternità delle donne perché ribadisce la loro dipendenza dalla natura ? Insomma la scelta della maternità è qualcosa che definisce in modo peculiare la libertà delle donne, arricchendo la creatività umana (libera e nello stesso tempo responsabile verso un altro essere umano) oppure è un mero retaggio naturale che ancora si prolunga nella cultura?
Qualche decennio fa la domanda non si sarebbe neppure posta perché essere madre ed essere donna si identificavano, non c’era spazio per una identità femminile (di massa) che non fosse quella di sposa e madre, ovvero una identità schiacciata sul biologico e il domestico.
Nel momento in cui questa identificazione si è spezzata, grazie alle grandi lotte di liberazione femminile, si è aperto lo straordinario orizzonte della libertà delle donne non più vincolate a un ruolo, a una funzione sociale e familiare e la stessa procreazione entra nell’ambito della libertà. Le donne prese singolarmente sono finalmente libere di essere o di non essere madri. Ma è la maternità a perdere senso e valore. Pare prevalere l’accettazione subalterna dell’immaginario misogino patriarcale per il quale la procreazione ( a differenza della creazione considerata da millenni propria dell’uomo-maschio) è il cordone ombelicale che fissa le donne alla corporeità naturale, alla sua necessità impedendo loro di essere davvero libere. Il ricorso alla “mistica” del materno ne è stato il pendant compensativo.
La libertà e il corpo
È vero, la maternità evoca il corpo e i suoi limiti, tanto che qualcuna ha pensato bene di definire le donne “un mammifero sottosviluppato”. Un’estremizzazione, certo, ma di un’idea largamente circolante secondo cui la libertà coincide con l’immagine di un soggetto totalmente padrone di sé e del proprio corpo inteso come cosa di cui si è proprietari; un’immagine che richiede di “ripulire” quanto più possibile la maternità dai condizionamenti corporei, relazionali, temporali che le appartengono, fino al limite della sua cancellazione.
E settori rilevanti del mondo tecnico-scientifico e del mercato se ne fanno banditori rendendo quella immagine attraente e realizzabile. Ecco come ne parlano due medici ginecologi molto noti Carlo Flamigni e Bulletti richiamandosi a un loro recente libro (Fare figli. Storia della genitorialità).
“In ogni caso, per capire quale straordinaria rivoluzione sia alle porte, dobbiamo provare immaginare che la scienza riesca a completare le sue esperienze sull’utero artificiale e offra alla società degli uomini l’ectogenesi, che non vuol dire solo la possibilità di liberare le donne dagli impegni di nove mesi di gestazione, significa anche una nascita completamente scevra dagli impacci della patologia, senza aborti e parti prematuri, senza tagli cesarei e senza complicazioni puerperali e perinatali. Ebbene, in quel momento ci troveremo di fronte a una serie di interrogativi dovuti ad esempio al fatto che la figura materna e la figura paterna saranno equivalenti e non esisterà più la maternità gestazionale [… ] Ci saranno certamente delle resistenze, ma saranno resistenze inevitabilmente modeste, basate su interpretazioni metafisiche del rapporto materno fetale, mai dimostrate valide dalla ricerca scientifica[…] Il problema è quello di scegliere tra due possibilità : contrastare il nuovo paradigma sulla base di argomentazioni prevalentemente metafisiche[…] oppure, in alternativa, gestire il cambiamento per evitare danni nella fase di transizione ( quelli che i cattolici definiscono disordini) e ingiustizie sociali grossolane”.
E’ più semplice ed economico facilitare, anche tecnicamente, una progressiva “assimilazione” delle donne agli uomini, cancellare il loro differire piuttosto che modificare un “ordine” complessivo per accogliere la loro differenza in piena parità. La maternità è la cartina al tornasole del bivio in cui siamo.
Il dibattito sull’ammissibilità della maternità surrogata
La partita che si sta giocando a livello mondiale intorno alla caduta o meno del divieto generalizzato della surrogata ne è un tassello fondamentale.
Il fenomeno della maternità surrogata e delle varie banche (non per niente si chiamano così) del seme e degli ovociti rientra nel quadro di un’economia, diffusa a livello planetario, in cui il vivente umano è diventato una riserva di materia, è visto come assemblaggio di pezzi e a chi può permettersi di acquistare “il prodotto finito” (il bambino) si pretende che gli venga riconosciuto il “diritto” di farlo.
Nella pratica della surrogazione, anche in quella ipocritamente chiamata solidaristica, viene spezzata l’unitarietà del processo procreativo umano che è tale (e non riproduttivo o peggio produttivo) per l’assoluta peculiarità che lo distingue nel suo principio e nel suo fine: quella singola donna e quel singolo bambino, assolutamente non replicabili o riproducibili, come invece accade nella riproduzione animale, per non parlare della produzione di beni. Il processo viene segmentato in “pezzi”, comprati e venduti sul mercato (ovociti, utero e neonato) così da ridurlo a un assemblaggio per “fabbricare” bambini, secondo le regole proprie del mercato. Alla gravidanza si toglie ogni “pregnanza” fisica, emotiva, relazionale e simbolica e alla donna che “affitta” il suo ventre è sottratta la personalità così che il processo da procreativo diventa riproduttivo e il bambino è la merce finale. Qui la maternità raggiunge la vetta della sua svalorizzazione: ridotta alla sola gravidanza, prende le sembianze di una fastidiosa necessità (in attesa dell’utero artificiale), di un “lavoro” da far svolgere alle operaie della riproduzione.
Sembra ritornare, con la iattanza di poterla realizzare, una fantasia che ha percorso le menti maschili fin dall’antichità, quella di emancipare gli uomini dal “malanno” di nascere da donne.
La normalizzazione della sfera creativa
Insomma tra crescita dell’artificialità e degradazione a lavoro riproduttivo viene perseguita la “normalizzazione” della sfera procreativa, del potere/potenza di dare la vita con il miraggio per le donne di godere della stessa libertà degli uomini, della libertà come disponibilità e dominio sul corpo, come capacità di trascendere la finitezza carnale e temporale: quella libertà disincarnata che si coniuga esclusivamente con indipendenza, autonomia, affrancamento dai vincoli corporei del soggetto.
Eppure una promessa aleggiava nei grandi movimenti delle donne del secolo scorso: affermare la presenza di soggetti incarnati, uguali e differenti. Sappiamo bene che la sua effettiva realizzazione richiederebbe grande impegno e cambiamenti radicali nell’organizzazione della vita collettiva ma all’orizzonte non se ne intravedono. Nel frattempo ci si allarma per la crisi demografica.
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