La sconfitta della scienza fondata sulle evidenze nelle parole di un professore universitario - Fondazione PER
19275
post-template-default,single,single-post,postid-19275,single-format-standard,theme-bridge,bridge-core-2.0.5,woocommerce-no-js,ajax_fade,page_not_loaded,,qode-title-hidden,columns-4,qode-child-theme-ver-1.0.0,qode-theme-ver-21.0,qode-theme-bridge,qode_header_in_grid,wpb-js-composer js-comp-ver-6.0.5,vc_responsive

La sconfitta della scienza fondata sulle evidenze nelle parole di un professore universitario

di Sergio Saia

 

Recentemente, il professor Paolo Barberi della Scuola Superiore Sant’Anna si è lanciato in fantasiose ricostruzioni delle evidenze scientifiche sull’agricoltura biologica e biodinamica, nello spasmodico tentativo di difendere due certificazioni che non hanno alcun fondamento dal punto di vista scientifico. Va sottolineato che il biologico è solamente una certificazione pubblica di processo, mentre il biodinamico è un processo indefinito, certificato privatamente da diversi enti in Europa dove il termine è depositato per usi diversi dalla produzione di alimenti e certificato da un solo ente negli USA, dove invece è depositato da una multinazionale. Alcuni produttori, inoltre, asseriscono di applicare i metodi biodinamici senza alcuna certificazione.

Nel suo articolo in “La Stampa” (18/06/2021, pag. 23), Barberi sostiene che i detrattori del biologico e del biodinamico selezionerebbero ad hoc le evidenze in un tentativo di cherry picking. Ad analoghe conclusioni è arrivato in una lettera a Huffington Post (08/06/2021 13:39 CEST https://www.huffingtonpost.it/entry/ecco-perche-lunione-europea-vuole-che-il-25-dei-campi-sia-bio_it_60bf4f42e4b04694aec35da2). Come rispondere quindi alle sterili e infondate accuse di cherry picking da parte di Barberi e degli altri detrattori delle evidenze scientifiche nel settore? Beh, semplice in effetti, utilizzando tutti i lavori pertinenti in un settore, gli stessi che Barberi conosce bene e ignora deliberatamente. E infatti il cherry picking è proprio quello che lo stesso Barberi ha fatto nei due articoli citati. In sintesi, Barberi è un po’ come il bue che dà del cornuto all’asino, si direbbe. Per non gettare discredito sulle evidenze scientifiche e sulla comunità scientifica del settore, è bene chiarire gli errori, probabilmente voluti, di Barberi.

Tutti i lavori su una domanda di ricerca vengono raccolti in pubblicazioni che si chiamano “meta-analisi”, raggruppati per tipologia e analizzati congiuntamente.

In primis, nessuno ha mai dimostrato la validità scientifica delle peculiarità del biodinamico. È bene chiarire che le peculiarità sono gli aspetti di tale certificazione che non è possibile trovare altrove. Tra questi si annoverano i cosiddetti preparati biodinamici applicati, secondo le prescrizioni biodinamiche, in dosi omeopatiche, l’azione delle cosiddette “forze sottili e campi morfici” la cui esistenza non è mai stata dimostrata e seguire i calendari lunari, della cui inconsistenza agronomica esiste ampia evidenza scientifica. Barberi accusa un uso improprio di termini come stregoneria, magia, pseudoscienza, ma nei fatti di ciò si tratta, ossia di concetti inventati. Non esiste alcuna evidenza a supporto di queste pratiche e quindi non è possibile asserirne la validità. Si noti che sebbene non esista evidenza di effetto di tali preparati biodinamici, la loro produzione e distribuzione portano inevitabilmente a un impatto ambientale.

Barberi dice di credere che nessuno dei denigratori abbia mai visitato un’azienda biodinamica. La fallacia di tale argomento è notevole ed è surreale che arrivi da un professore universitario. Peraltro lo stesso Barberi non chiarisce chi siano i “denigratori” del biologico e del biodinamico e da quanto riporta parrebbe rivolgersi a chi si limita a portare evidenze scientifiche.

Ad ogni modo, visitare un’azienda biodinamica non fornisce assolutamente alcuno strumento per dar ragione della validità delle pratiche peculiari della biodinamica, così come frequentare un gruppo di medium o astrologi non implica riconoscere la validità scientifica (ovviamente insussistente) delle sedute spiritiche o dell’astrologia.

Ma per sfortuna di Barberi, il sottoscritto ha visitato aziende biodinamiche, anche molto grandi, ed ha anche lavorato in progetti di ricerca finanziati da una famosa società che si occupa di biodinamico. Nelle stesse aziende ho potuto appurare che non c’è bontà attribuibile alle prescrizioni biodinamiche (ossia a quelle peculiarità) e che la bontà nella conduzione aziendale era riconducibile, quando c’era, a pratiche ben applicate anche altrove, ivi incluso nei sistemi non biologici. Va anche sottolineato che a dispetto della definizione (erronea) di maggiore naturalità che gli agricoltori biologici e biodinamici danno alle proprie produzioni, gli stessi non hanno alcun problema ad utilizzare specie e genotipi creati dall’uomo come il Triticale o gli ibridi di mais o composti chimici che vengono da processi industriali come i feromoni di sintesi. Per inciso, niente di illegale, il Triticale e altre “cose” sono legalmente ammesse in biologico e biodinamico, semplicemente non sono naturali.

Barberi invoca l’aderenza all’approccio sistemico e il paradigma dell’economia circolare nelle aziende biodinamiche. Tuttavia, nessuna delle due cose è ricorrente ed esclusiva di tali aziende. Alcuni disciplinari invocano tali pratiche, ma gli stessi danno ampie deroghe e in effetti gli agricoltori biodinamici (con certificazione o meno) fanno ampio ricorso a materiali provenienti all’esterno dell’azienda agricola, a cominciare dai cosiddetti preparati biodinamici che, secondo almeno la più frequente delle certificazioni in atto, devono essere acquistati, non autoprodotti. Né c’è evidenza di approcci sistemici, i quali non sono nemmeno definiti. Ma il diavolo si nasconde nei dettagli, Barberi lo sa bene, e attribuisce tali virtù alle aziende biodinamiche quando invece le stesse sono ricorrenti in una pluralità di altre aziende, sia biologiche non biodinamiche, sia non biologiche (ossia convenzionali).

Nelle more d’una trattazione volutamente fallace, Barberi accusa, velatamente, l’approccio “ipertecnologico” e “riduzionista” che si contrapporrebbe, dice, ai sistemi biologici e biodinamici. Trascurando sull’uso improprio dei termini “ipertecnologico” e “riduzionista” e ricordando che è pur vero che la diversificazione è fondamentale in agricoltura (e anche in altri settori), l’approccio “ipertecnologico” e “riduzionista” e i sistemi poco diversificati sono abbastanza frequenti in agricoltura biologica, soprattutto nei cosiddetti “sistemi biologici di sostituzione”. Ovviamente quei termini, in quel contesto, sono usati a sproposito in maniera dispregiativa ma posso ragionevolmente immaginare che Barberi utilizzi una connessione internet e dei dispositivi per connettersi, dei mezzi di trasporto a motore e nella propria vita una pluralità di composti di sintesi. Tutti approcci che potrebbero essere definiti “ipertecnologici” e “riduzionisti, ma i due scritti di Barberi non mancano certo di essere surreali.

Nei sistemi biologici, un elevato grado di diversificazione è una condizione quasi obbligatoria (anche se, come detto, non sempre messa in essere) per far fronte alle tecnologie cui questi sistemi rinunciano deliberatamente, senza che vi sia una evidenza di maggior impatto dovuto all’uso di queste tecnologie, ma la diversificazione esiste anche nei sistemi convenzionali. A seguire, Barberi accusa l’agricoltura “industriale” (altro termine improprio e assurdo se scritto da un professore universitario quando, ironia della sorte, in biologico e biodinamico si fa ampio ricorso a strumenti prodotti dall’industria) di aver fatto enormi danni. Nuovamente, il diavolo si nasconde nei dettagli. Dal secondo dopoguerra ad oggi sicuramente diverse pratiche agricole hanno contribuito ad aumentare l’impatto ambientale dell’agricoltura. Ciò è avvenuto per l’elevata esigenza di sfamare la popolazione mondiale a fronte di una sua elevata crescita. 

Tuttavia, dalle metanalisi disponibili, emerge chiaramente che al giorno d’oggi esiste un più elevato grado di sostenibilità nei paesi che hanno fatto largo uso di tali tecnologie (https://www.nature.com/articles/s41597-019-0301-5?sf224321982=1) grazie alle quali è stato possibile frenare la deforestazione (The future of food and agriculture. Trends and challenges. Fao 2017). Parimenti, raggruppando tutti i lavori nel settore, non emerge una maggiore sostenibilità ambientale dei sistemi biologici rispetto ai convenzionali. I sistemi convenzionali sono apparsi invece più sostenibili secondo alcuni aspetti di salvaguardia ambientale sia a scala globale (https://iopscience.iop.org/article/10.1088/1748-9326/aa6cd5/meta), sia europea (https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/22947228). Va inoltre ricordato che i sistemi biologici mostrano anche maggiore variabilità produttiva (https://www.nature.com/articles/s41467-018-05956-1), aggiungendo quindi una incertezza nel ritorno economico.

Ma ecco che arrivano trionfalistici i fautori del biologico a sostenere che comunque le aziende biologiche e biodinamiche guadagnino di più delle convenzionali. Nei fatti il reddito delle aziende biologiche è maggiore di quelle convenzionali, ma dai dati del Bioreport 2017 emerge che in media l’aiuto esterno da parte della politica agricola comunitaria grava per il 30% nelle aziende convenzionali e per il 45% in quelle biologiche. In sintesi, guadagnano di più perché gli vengono forniti più soldi a fronte di nessun beneficio ambientale o per la salute (come già chiarito in diverse metanalisi e review circa gli effetti del prodotti https://www.tandfonline.com/doi/full/10.1080/16546628.2017.1287333; della sola carne: https://www.cambridge.org/core/journals/british-journal-of-nutrition/article/composition-differences-between-organic-and-conventional-meat-a-systematic-literature-review-and-metaanalysis/B333BC0DD4B23193DDFA2273649AE0EE; e circa gli effetti sulla salute: https://ehjournal.biomedcentral.com/articles/10.1186/s12940-017-0315-4%C2%A0).

In tutti i lavori citati viene detto in maniera lapalissiana che le differenze per la salute non sono chiare e spesso dipendono dallo stile di vita del consumatore dei prodotti biologici e non dal consumare i prodotti stessi. In altri termini, il biologico lo paga anche chi non lo consuma a fronte di nessuno beneficio, nemmeno per chi lo consuma.

Barberi, in accordo con Petrini, sostiene che non bisogna produrre di più ma meglio. Questo è uno slogan e peraltro è decisamente infondato. In primis, produrre in biologico non vuol dire produrre meglio, come già spiegato poco sopra. Inoltre, non è affatto vero che in biologico si produca solamente dall’8 al 25% in meno rispetto al convenzionale. Ciò avviene solamente (https://royalsocietypublishing.org/doi/10.1098/rspb.2014.1396) quando i sistemi biologici sono diversificati e i sistemi convenzionali no. Per spiegare bene il concetto, immaginate di mettere a confronto la velocità di un trattore agricolo con quella di una Ferrari in una gara nel terreno agricolo. Il trattore sarà sicuramente più veloce in quel contesto, ma non si può certo asserire che ciò avvenga in qualunque condizione. Perfino in una strada sterrata la Ferrari sarà più veloce del trattore. Ma barberi mette a confronto un trattore su un’autostrada (biologico diversificato) a una Ferrari in mezzo al mare (convenzionale non diversificato). Nei fatti, in concreto, il biologico produce anche fino al 75% in meno del convenzionale e le differenze di resa sono già state raccolte nel 2012 in una metanalisi (nuovamente, raccogliendo tutti i dati e non solo quelli che Barberi gradisce) (https://www.nature.com/articles/nature11069).

Barberi e tanti altri sostengono che l’agricoltura biologica potrebbe essere usata per sfamare il mondo se gli sprechi venissero meno. Ironia della sorte, la sonora smentita delle parole di Paolo Barberi arriva da un suo quasi omonimo d’oltralpe, Pietro Barbieri (https://www.nature.com/articles/s43016-021-00276-y) che ha mostrato chiaramente che non solo il biologico sarebbe del tutto insostenibile a scala globale, ma che a quella scala la sua resa si ridurrebbe enormemente e che per sostenerla gli unici modi concreti sono poter ammettere, in biologico, l’uso di materiale che non viene dal settore biologico attraverso le deroghe, come già accade spesso. Ironia su ironia, quel materiale in deroga non esisterebbe se il biologico fosse applicato a scala globale.

Le deroghe sono legali, c’è una normativa ad hoc, ma per spiegare bene cosa implicano, immaginate per un attimo che i limiti di velocità in autostrada fossero 130 km/h per tutti ma se si ha un dato modello di automobile la legge ammettesse un limite superiore. Si tratterebbe di discriminazione. E lo stesso vale per le deroghe in biologico.

L’articolo di Pietro Barbieri punta anche allo spreco, lo stesso riferito anche Paolo Berberi. Beh, sarebbe difficile dire che ridurre lo spreco è sbagliato. Ovviamente lo spreco, in via teorica, andrebbe ridotto a zero. Credo che qualunque lettore capirà che tale riduzione è alquanto complessa perfino in piccola scala. Ma ciò che Paolo Barberi omette è di dire che anche riducendo lo spreco a zero, coltivare in biologico continuerebbe a non convenire perché porterebbe, a fronte di un analogo impatto ambientale per unità di prodotto ottenuto, a un maggior consumo di suolo o, per dirla in termini semplici, a una maggiore deforestazione.

Eppure, ciò che Barberi e tanti altri trascurano anche volutamente di dire è che la biodiversità delle foreste e altri ambienti naturali è enormemente maggiore rispetto a quella di qualunque sistema agricolo sia esso biologico o meno. 

Vorrei a questo punto fare una piccola parentesi. Quanto detto sopra implica che io stia attaccando il biologico? Null’affatto. Premetto che la mia attività di ricerca va a quasi esclusivo beneficio dei sistemi biologici: mi occupo di strategie di nutrizione vegetale per evitare il ricorso ai fertilizzanti di sintesi, di gestione delle malerbe per evitare il ricorso ai principi attivi di sintesi e collaboro in attività di ricerca per selezionare genotipi più resistenti alle malerbe e ai patogeni (a beneficio dei sistemi con certificazione biologica e biodinamica, peraltro). Avrei convenienza a sostenere quanto Paolo Barberi sostiene, ma preferisco fondare le affermazioni sulle evidenze scientifiche.

E appunto, mi sto limitando a puntualizzare le evidenze scientifiche nel settore, che sono peraltro state richiamate in una interessante review (https://advances.sciencemag.org/content/3/3/e1602638): la performance del biologico ha molte sfumature di grigio, ossia dipende molto dal contesto. Va bene dove la produzione potenziale è bassa per limiti ambientali (es. in ambienti aridi e non irrigui), meno altrove. Inoltre, il biologico e il convenzionale non sono stabili ovunque: sono molto variabili al proprio interno. Tutto ciò è glissato in quanto riferito da Barberi. Lo stesso, tuttavia, non ha riserve a dire che smettere di consumare prodotti biologici per soli 6 giorni abbia mostrato una riduzione del carico di “pesticidi” dal 37% al 95%. Beh, ciò è vero nella misura in cui si misurano solo alcuni pesticidi, mentre non si misurano tutti quelli presenti nei prodotti biologici. In sintesi, Barberi fa un sottile uso del termine “pesticidi”, alludendo ai composti di sintesi, quando non esistono solo quelli. Esistono anche quelli naturali molti di cui pongono rischi analoghi o superiori a molti di sintesi. Ma la parte più oscena di quel riferimento è omettere che anche a prescindere da quella riduzione, la dieta dei paesi industrializzati non comporta, grazie alla nostra legislazione, un’assunzione di residui di pesticidi (di ogni tipo, anche naturali) che possa dare il minimo rischio concreto di danno. E infatti non esistono dati a scala di popolazione che evidenzino rapporti di causa-effetto tra alcuna patologia e l’assunzione di tali pesticidi (sia naturali, sia meno, sia applicati, sia meno).

Barberi invoca infine che gli scienziati non travalichino i confini dell’etica scientifica. Ma quanto ha fatto nell’articolo riferito non è granché diverso da quanto invoca di non fare. Anzi, ha fomentato la disinformazione nel settore. E infatti tutta la comunità scientifica è concorde sul definire le peculiarità del biodinamico inconsistenti (https://www.georgofili.info/Media?c=16b403cb-0586-4f57-b335-01d934c36e86) oltre ad aver evidenziato che i benefici del biologico sono pubblicizzati ma non concreti. E ribadiamo, la normativa stessa sul biologico stesso non si fonda su evidenze scientifiche, ma su scelte arbitrarie. I propositi del biologico di maggiore sostenibilità non sono infatti perseguiti dalla normativa stessa.

Sicuramente il consumatore ha una maggiore disponibilità a pagare per i prodotti biologici e ciò si fonda sulla dispercezione che questi siano più salubri. Ciò ha promosso fatto si che la produzione in ambienti cosiddetti marginali potesse essere valorizzata economicamente, ma ciò è spesso avvenuto favorendo il ricorso, in biologico, alle lavorazioni del suolo, che sono il primo motore della degradazione del suolo. Ironia della sorte, quando si parla di agroecologia, i fautori del biologico dimenticano che agroecologia non implica fare tutto in bio, ma applicare, con i dovuti distinguo, i sistemi di imitazione della natura nei sistemi agronomici. Uno dei sistemi che in biologico si affronta con estrema riluttanza è appunto l’omissione delle lavorazioni, che non esistono in natura. Le lavorazioni comportano un aumento di 10-100 volte dell’erosione del suolo e l’erosione del suolo è uno dei più gravi problemi ambientali cui dobbiamo far fronte per evitare di produrre sempre meno e di generare problemi a scala ecosistemica perchè perdere terreno, anche chiamato “sedimento”, riduce la produttività potenziale e aumenta enormemente il rischio idrogeologico. E in Italia siamo già in una condizione di elevato rischio. In biologico, peraltro, si immettono ingenti quantità di rame, un metallo pesante, e a quelle quantità il rischio per l’ecosistema è notevole. Ma nemmeno l’immissione di tutto quel rame è naturale.

Tutto ciò implica forse voler abolire il biologico? Null’affatto. La libertà di produzione rimarrà e ben venga e la normativa è necessaria a tutela di produttori e consumatori, ma si chiede solamente di non fare tanta disinformazione e non offrire una prelazione legale a sistemi privati e arbitrari (destinando, peraltro, posizioni esclusive al tavolo tecnico e fondi dedicati al biodinamico alla ricerca nel settore sementiero come sembra riferire gli attuali artt. 5 e 8 del DDL 988). La ricerca scientifica prosegue la sua attività, i sistemi con certificazione biologica sono stati sicuramente una palestra per la ricerca scientifica, ma la stessa è stata svolta anche in altri sistemi. E l’agricoltura biologica ha tratto dalle ricerca scientifica e dalle tecnologie un beneficio analogo e talvolta anche maggiore rispetto all’agricoltura convenzionale.

Il dibattito sulla sostenibilità e sulla salubrità degli alimenti non si regge sulla presenza di una certificazione i cui termini sono arbitrari (e poco cambia che sia pubblica o privata), ma sullo studio della relazione tra sostenibilità o salubrità e strategia di produzione, trasporto, trasformazione e uso dei prodotti.

Sergio Saia
saia@per.it

Sergio Saia è professore associato di Agronomia e Coltivazioni Erbacee presso il dipartimento di Scienze Veterinarie dell’Università di Pisa. Nella sua carriera, ha lavorato in diverse realtà di ricerca e produzione, tra cui in aziende biologiche, come docente in corsi IFTS e corsi per i tecnici certificatori biologici, e ovviamente in attività di ricerca scientifica presso enti pubblici di ricerca e università dislocati in diverse regioni (Sicilia, Puglia, Marche, Piemonte, Lazio e Toscana) venendo a contatto con molteplici realtà di ricerca e aziendali. Si occupa principalmente di gestione della nutrizione vegetale in assenza di applicazione di fertilizzanti di sintesi e in particolare attraverso microrganismi benefici per le piante, di gestione delle malerbe in assenza di applicazione di principi attivi di sintesi e collabora in attività di ricerca in genetica agraria finalizzati a individuare i caratteri di competitività contro le infestanti e di resistenza ai patogeni, oltre che di aumento della qualità delle colture. Si occupa inoltre di modellistica applicata ai sistemi agrari, in particolare riguardante il tenore di fertilità del suolo e i suoi determinanti agro-ambientali, e di gestione della biodiversità coltivata. Link istituzionali e attività di divulgazione: https://linktr.ee/sergiosaia

2 Commenti
  • Gianpietro venturi
    Pubblicato il 16:43h, 26 Giugno Rispondi

    Gli scienziati difendono la scienza.;;glistrgoni la stregoneria;ibiodinamici la biodinamica. E sono tutti contenti!! La biodinamica e’ un bel business. Peccato venga finanziata con i nostri soldi.. la ricerca poi……dopo una mia lezione di 30-40 anni fa gli studenti chiesero se era meglio il corno destro o sinistro. Steiner non lo dice

  • matteo guidi
    Pubblicato il 15:21h, 30 Giugno Rispondi

    Bellissimo articolo. Complimenti.

Rispondi con un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.