
28 Apr La sostenibilità e la sicurezza alimentare nel Mediterraneo: dinamiche e scenari
di Francesco Piacitelli
Il rapporto che insiste tra il nostro Paese e il Mare Mediterraneo è antico e profondo, ed affonda le sue radici nella storia. L’esperienza vissuta dalle Repubbliche marinare, Genova e Venezia su tutte, ad esempio, ha rappresentato un unicum difficilmente replicabile nella storia, sia in chiave economica, che diplomatica e militare. In termini prettamente geografici, la penisola, con i suoi 8.300 km di coste, si allunga verticalmente al centro del Mediterraneo, dividendone il bacino in due metà perfettamente distinte. Sarebbe, però, riduttivo considerare il solo aspetto geografico, analizzando gli elementi di base dei rapporti di forza nell’area si evince come il bacino rappresenti una realtà complessa e policentrica; soprattutto in quanto area di passaggio tra l’Oceano Atlantico ed Indiano e per questo definibile anche con il lemma “medioceano”. Proprio in virtù di tale strategicità, si è sempre contraddistinto per un marcato attivismo dei Paesi rivieraschi e non solo; è importante ricordare, infatti, che in natura, così come in politica, i vuoti non rimangono tali, ma vengono prontamente colmati da altri soggetti e competitori. Ne è un esempio il comportamento assertivo intrapreso da alcuni Stati, in particolar modo Russia, Turchia e Cina, al quale ha contribuito il disinteresse statunitense per l’area al termine della Guerra Fredda. Nonostante la modesta estensione, il Mediterraneo è canale di collegamento oceanico, viatico di passaggio per i traffici commerciali globali che lo attraversano (circa il 30% del totale) e per le infrastrutture del moderno collegamento digitale (il 97% del traffico internet mondiale viaggia attraverso cavi sottomarini, la maggior parte dei quali passa proprio attraverso il mare nostrum), nonché depositario di ricchi giacimenti di risorse energetiche presenti nei suoi fondali.
Lo scenario geopolitico globale ed i principali impatti
Lo scenario globale, per come abbiamo avuto modo di conoscerlo nel corso di questo trentennio, sta attraversando una fase di inesorabile cambiamento, soprattutto alla luce degli impatti avuti sulle supply- chain globali a causa del Covid-19 e delle tensioni internazionali con Fed. Russia e Cina. Tale cambio di paradigma sta ridisegnando le catene del valore, che tendono ad accorciarsi in un’ottica di tutela e contenimento dei rischi derivanti da future perturbazioni globali. All’interno di questo nuovo contesto, il Mar Mediterraneo continua ad acquisire una sempre maggiore centralità geoeconomica e geopolitica, dettata sia dall’incremento dei traffici, che dai processi di reshoring. Recenti ricerche segnalano che il 60% delle aziende europee e statunitensi prevede nei prossimi tre anni di far rientrare parte delle proprie produzioni asiatiche in Europa e negli Usa. Del resto, solo per citare alcuni esempi, a settembre 2022 il colosso Apple dichiara di voler ripensare la presenza in Cina, inoltre, recente è l’annuncio di Ikea di voler spostare parte della produzione di librerie, guardaroba e mobili da cucina, finora realizzati in Asia, in Turchia, così come molte altre aziende tra cui Benetton.
In generale, quindi, le tensioni geopolitiche hanno portato ad una riduzione nella crescita dei traffici marittimi globali (+1,1% ad Agosto 2022 contro +3,5% previsto a gennaio). Il conflitto in Ucraina, in particolar modo, comporta una disparità di andamento nella tipologia delle merci trasportate; si prevede, ad esempio, una riduzione in tutte le tipologie di merci (variazioni su tonnellate), ad eccezione del gas che invece si incrementerà in termini di tonnellate (+4,8% invece di +4,4%). Inoltre, tali eventi hanno reso necessaria una revisione radicale dei modelli commerciali, poiché alcuni acquirenti (soprattutto in Europa) stanno cercando forniture alternative e alcuni carichi russi vengono spediti altrove (ad esempio in Asia). Sul fronte dello shipping gli impatti operativi diretti iniziali del conflitto hanno incluso la sospensione delle operazioni commerciali nei porti ucraini, per motivi di sicurezza, e la frenata delle esportazioni marittime.
Cosa accade nel “Mare Nostrum”?
Il Mediterraneo, nello specifico, vedrà un riposizionamento delle navi su rotte diverse da quelle del Mar Nero; le principali compagnie, infatti, hanno deciso di saltare il porto di Odessa e di Mariupol, principali scali ucraini. Inoltre, le compagnie di navigazione russe avranno gravi impossibilità nel navigare, non potendo ottenere attracco in nessun porto europee. Il Mediterraneo, come detto, sarà centrale negli scenari globali del futuro, rappresentando circa il 20% del traffico marittimo mondiale, pur rappresentando solo l’1% dei mari mondiali. Il “mare nostrum” è attraversato dal 27% delle merci su container e dal 30% dei flussi di petrolio e gas (nord-sud ed est-ovest). Inoltre, concentra lungo le sue coste circa l’attività di 18 porti la cui singola attività supera 1 milione di TEU (twenty feet equivalent unit); gli stessi porti stanno, inoltre, aumentando costantemente la propria competitività e capacità attrattiva, aumentando, ad esempio, al 2 trimestre 2022 l’indice dell’UNCTAD, Port Liner Shipping Connectivity Index (PLSCI) di 20 punti, tallonando i porti del Nord Europa.
Il Canale di Suez, imprescindibile via di passaggio nell’area MED, mantiene addirittura la propria vitalità e strategicità anche in questi momenti di forte crisi. Nei primi otto mesi del 2022, l’attività delle 15.329 navi, in un aumento del +15,1% sul periodo precedente, ha generato un nuovo picco storico dei ricavi (5,1 miliardi di dollari). Le tendenze inflazionistiche però spingono anche il canale a rivedere le tariffe da Gennaio 2023: +15% per tutte le tipologie di navi ad esclusione delle rinfusiere e delle navi da crociera per le quali il rincaro sarà del +10%. Gli aumenti dei diritti di transito sono conseguenza anche della strategicità del canale di Suez rispetto alle rotte marittime alternative di più lunga percorrenza e con maggior consumo di carburante. Proprio nel momento economico più complesso a livello globale, Suez si attesta quale snodo fondamentale per i traffici nel Mediterraneo continuando a rappresentare il 12% del traffico mondiale ed il 7-8% di quello petrolifero.
Il Mediterraneo, infine, sarà fortemente colpito dai contraccolpi sul mercato agro-alimentare; basti pensare che dall’area del bacino del Mar Nero, secondo i dati dell’Osservatorio della Complessità Economica (OEC), circola il 25-30% del commercio mondiale totale di cereali, di cui Ucraina (quinto esportatore al mondo con una quota di mercato del 7-10%) e Russia (primo esportatore al mondo con il 18-20% delle capacità) coprono in media il 50% dei fabbisogni alimentari dei Paesi dell’area MENA. Tra questi si stima che l’Egitto importi circa l’80% del suo grano da Mosca e Kiev; il 96% il Libano, il 60% la Tunisia, la Turchia e l’Iran, il 50% l’Oman e gli Emirati Arabi Uniti, il 40% lo Yemen e il 37% il Qatar. Un quadro che rischia di essere aggravato da altri due fattori congiunturali. In primo luogo, la Russia produce il 13% dei fertilizzanti a livello globale e, secondo dati FAO, nei prossimi mesi è previsto un ulteriore aumento dei prezzi che impatterà direttamente sui costi delle coltivazioni locali. La situazione è ulteriormente aggravata dal fatto che il World Food Programme, l’agenzia ONU responsabile per la distribuzione di aiuto alimentare umanitario, sta attraversando una doppia crisi; da un lato, l’aumento dei prezzi ha comportato la necessità di tagliare nettamente le razioni fornite alle persone in condizioni di necessità in giro per il mondo. Dall’altro, il fatto che il maggiore donatore mondiale di grano al WPF fosse proprio l’Ucraina comporterà ulteriori, drammatici tagli. Nelle parole di David Beasley – il direttore del WFP – “non abbiamo altra scelta che togliere il cibo agli affamati per darlo a coloro che stanno morendo d’inedia”. Una situazione, questa, che potrebbe dare nuovo slancio a scioperi organizzati e a proteste popolari contro il rincaro dei prezzi. Proprio questo fattore è stato cruciale nelle proteste del 2008 e durante le Primavere Arabe del 2011. Tale condizione si presenterebbe così difficilmente amministrabile dai governi dell’area, i quali si troverebbero nella difficile condizione di dover gestire un caotico contesto di crisi dentro i propri confini, con possibili effetti emulativi e/o spillover nell’intera regione.
Italia ed Europa, quali prospettive per tornare a guardare al mare
In questo contesto dinamico e mutevole, l’Italia può e, soprattutto, deve giocare un ruolo fondamentale, anche in considerazione della strategicità economica e politica che il settore “mare” gioca per la penisola. Il cluster marittimo è di notevole importanza, permettendo alle merci di transitare nel nostro Paese, dove il 60% dell’import e il 55% dell’export prende la via dei porti, e l’intero settore contribuisce a creare il 2% del PIL nazionale, con un moltiplicatore del reddito di 2,28. Il cluster marittimo, in numeri, rappresenta in senso lato per la penisola oltre il 3% del reddito prodotto, dando lavoro, tra occupazione diretta e indotto, a oltre 450.000 lavoratori. Il valore diretto della Blue economy, pari nel 2020 a 52 miliardi di euro, è una volta e mezzo quello dell’agricoltura e quasi l’80% del valore aggiunto dell’edilizia, con una base imprenditoriale di quasi 225 mila aziende.
Il sistema portuale nazionale, nonostante le gravi difficoltà amministrative ed infrastrutturali, non ha mai fermato la sua attività, registrando performance positive nonostante il contesto critico (5,1% sul 2021). I traffici portuali, che a giugno hanno raggiunto 244 milioni di tonnellate, segnano una crescita anche rispetto al periodo pre-pandemia (+2,7% sul 2019). I risultati mostrano le brillanti performance del segmento container sia sul 2021 (+7%) che sul 2019 (+11,6%) e del Ro-Ro sul 2019 (+8,3%), mentre il calo sul 2021 del segmento (-3,2%) è una momentanea discontinuità in un trend mantenutosi sempre brillante. Il segmento Ro-Ro, in special modo, è stato particolarmente resiliente, crescendo dal 2012 di oltre il 60% (contro una crescita del totale delle merci di circa il 4%). Tale traffico, soprattutto quando si configura come autostrade del mare, ha permesso inoltre di garantire sostenibilità al paese attraverso il connubio intelligente con la strada e il ferro. Il 64% del Ro-Ro, peraltro, proviene da altri porti italiani mentre il restante 36% viaggia verso i porti del Mediterraneo; si tratta di un traffico di corto raggio che asseconda le esigenze di consumo delle famiglie e favorisce e asseconda le esigenze di reshoring.
Nonostante, però, i numeri evidenzino l’importanza e la strategicità per il contesto economico nazionale, il settore, oltre ad incontrare diversi ostacoli amministrativi ed infrastrutturali, non è stato negli anni in cima alle priorità del decisore pubblico. A questo si aggiunge la mancanza di una visione strategica e di lungo periodo sul mare e sulla marittimità del Paese. Per queste ragioni, gli addetti ai lavori parlano di sea-blindness, un fenomeno che comporta un grado importante di cecità verso tutto ciò che riguarda il contesto marittimo, dallo sviluppo infrastrutturale alla componente militare. Di fatto, negli anni, l’Italia si è trasformata in un Paese a-marittimo, incapace di mettere a frutto la sua posizione geografica.
Una strategia mediterranea del Paese, quindi, passa necessariamente da una ridefinizione del sistema portuale, nonché da un sostegno economico ed infrastrutturale del sistema. L’attiguità dei porti ai centri abitati ha impedito in parte l’ampliamento delle infrastrutture, così come la mancata costruzione di adeguati corridoi logistici per connettere le banchine verso l’esterno. Inoltre, un numero elevato di porti, non coordinati tra loro, ha reso il sistema poco competitivo a livello internazionale, annullando il vantaggio strategico dato dalla posizione geografica del nostro Paese nel Mediterraneo. Attualmente, è diventata oggetto di discussione la natura giuridica delle autorità, che consentirebbe, a queste ultime, margini di manovra importarti nello sviluppo dei sistemi portuali, ma non è ancora chiaro quale sia lo strumento migliore da adottare. Rispetto al sostegno economico pubblico, in aggiunta, i porti saranno destinatari dei fondi erogati dal PNRR, circa 4 miliardi, dove gli obiettivi stabiliscono l’aumento della capacità portuale, l’adeguamento infrastrutturale e la trasformazione in ‘green ports’ attraverso l’elettrificazione delle banchine. Se Genova e Trieste sono porti proiettati verso l’Europa, gli scali del Sud possono giocare un ruolo come piattaforma del Mediterraneo, dove molte delle loro potenzialità sono ancora inespresse.
Proprio il mezzogiorno, d’altronde, potrà essere il cuore della strategia marittima nazionale, rappresentando per l’area una concreta prospettiva di riscatto. Il Sud Italia, con un contributo al traffico merci del 45% anche a giugno 2022, esprime in tutti i comparti del marittimo valori di peso percentuale molto superiori a quelli di PIL (22%), di numero di imprese e di addetti. Il traffico via mare, poi, ha più valore per il territorio: l’import-export via mare su totale del traffico è pari al 64% conto una quota del 36% dell’Italia. L’import-export via mare del Mezzogiorno al I° semestre 2022, ha già superato i 41 miliardi di euro con un balzo del 53% sull’anno precedente; si tratta di una performance anche superiore alla media dell’intera penisola (42%). I dati del ° semestre 2022, segnano una costante presenza degli scali meridionali tra i primi posti in classifica nelle diverse tipologie merceologiche. Le 8 ZES (Zone Economiche Speciali) del Mezzogiorno, per le quali il PNRR ha previsto 630 milioni di investimenti, stanno avendo grande impulso per la nomina dei Commissari Straordinari (in corso di finalizzazione quella della ZES Sardegna). Inoltre, esse stanno definendo le strategie di sviluppo così come sta avvenendo per le ZLS (Zone Logistiche Semplificate) del Centro-Nord. In considerazione delle ingenti risorse e della rinnovata centralità del Mediterraneo, la necessità del nostro paese è quella di investire in diverse progettualità infrastrutturali, tra cui, ad esempio, un’ottimizzazione nei collegamenti delle tra le aree portuali e industriali e la rete infrastrutturale, la digitalizzazione e potenziamento della logistica, urbanizzazioni green e efficientamento energetico ed il potenziamento della resilienza e della sicurezza dell’infrastruttura connessa all’accesso ai porti.
Per quanto concerne la filiera agro-alimentare, questa è stata fortemente destabilizzata dagli effetti dell’aggressione russa dell’Ucraina. Tuttavia, è ragionevolmente prevedibile che una vera e propria crisi delle scorte di cibo in Italia e nell’Ue non si verificherà nel breve e medio periodo. Se, però, la disponibilità di cibo non sembra in discussione, l’aumento potenziale dell’instabilità nei paesi rivieraschi dell’area MENA lo è di certo. Per evitare che il passato si ripeta, l’Ue dovrebbe perciò scegliere un tono geopolitico in linea con il profilo di maggiore spessore che vuole dare alla sua politica estera. Ciò dovrà tassativamente passare per un approccio meno paternalistico alle relazioni con i paesi africani e medio-orientali, che consenta di sostituire la cortina fumosa dell’umanitarismo timido con la rivendicazione del diritto del blocco europeo di trattare i propri interessi su un piano di reciprocità, in cambio del trasferimento di prodotti e conoscenze agro-alimentari, tecnologici ed organizzativi. L’Italia, considerata la posizione di frontiera e i rapporti intimi con molti dei paesi interessati, potrebbe farsi alfiere, in questo frangente, di uno strategico accordo bilaterale con le istituzioni africane; una partnership che miri a stabilizzare l’area, garantendole crescita e sviluppo in un rapporto di reciprocità e permettendo la costituzione di una governance dei flussi migratori. In gioco c’è il supporto dei membri cruciali del vicinato europeo nell’affrontare le grandi sfide comuni del secolo: la lotta al cambio climatico, l’impegno contro la criminalità organizzata e una intensa collaborazione sociale ed economica finalizzata allo sviluppo reciproco delle rispettive comunità.
In conclusione
L’Italia, quindi, non solo deve guardare con fascinazione all’Europa centrale, ma deve fare altrettanto verso il suo mare ed i suoi partner rivieraschi. Ed è qui che ritorna utile l’insegnamento che la Serenissima ci lascia in eredità; lo Stato da Mar messo in piedi dalla Repubblica di Venezia partì costruendo la supremazia in quella che venne definita la pianura liquida, l’Adriatico, e si consolidò basando il suo successo sulle colonie, sulla flotta commerciale/militare e sulla fitta rete di diplomatici presenti nei principali porti del Mediterraneo. Parafrasando in chiave moderna il lascito della Serenissima, il nostro Paese deve tornare a guardare il mare con una prospettiva diversa, senza averne paura, ma investendoci risorse (umane ed economiche) ed energia. Solo in questo modo la penisola, d’intesa con partner comunitari che condividono il nostro stesso pezzo di mare, potrà rappresentare nelle Istituzioni europee un approccio ed una visione diversa, che guardi al sud del mondo ed a quel continente che, anche solo in considerazione delle dinamiche demografiche (nei prossimi decenni il grosso della crescita avverrà in Africa, che raggiungerà i 2 miliardi e mezzo di abitanti entro il 2050), nei prossimi anni sarà, volente o nolente per noi europei, al centro delle vicende globali.
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