
18 Feb La tragedia giuliano-dalmata spiega il senso nuovo dell’Unione europea
di Alessandro Maran
Nel 2004 il Parlamento ha istituito la «Giornata del ricordo» dell’esodo, delle foibe e «delle vicende più complesse del confine orientale» (cioè, del conflitto nazionale che ha opposto per un intero secolo italiani a sloveni e a croati).
La Giornata del Ricordo
Si è trattato (ben oltre i limiti del testo approvato) di una assunzione collettiva di responsabilità verso tutto il nostro passato, compreso quello meno glorioso. In altre parole, del tentativo di uscire dalle semplificazioni e dalle omissioni di parte e di conservare la ricostruzione di tutte le responsabilità (maggiori e minori), dandoci una storia che sia di tutti. Il che, ovviamente, non significa rinunciare al discrimine tra ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, come vorrebbero fare quanti vanno dicendo che, poiché nella lotta antifascista vi furono anche le foibe, allora nessuna delle due cause era migliore dell’altra.
Anche perché le vittime delle foibe non sono esclusivamente vittime dei comunisti, vale a dire le vittime di un conflitto tra comunismo e anticomunismo, tra fascismo e antifascismo. Le vicende travagliate dei territori al confine orientale d’Italia appartengono interamente alla lunga storia dei nazionalismi europei, di Stati che si pensavano come nazionali ma lo erano solo in parte; e da tempo gli studiosi hanno tematizzato l’esodo non come una vicenda di storia locale, bensì come uno dei processi più caratteristici e devastanti della contemporaneità nell’area centroeuropea.
La Venezia Giulia nel contesto europeo
Il fatto è che la Venezia Giulia, con il suo carattere etnicamente plurale, ha messo alla prova la politica e le istituzioni italiane fin dal 1918 proprio sulla questione del rapporto interetnico e dell’appartenenza statale e nazionale. Gli stessi portavoce degli ideali liberali e democratici, prima ancora che il partito fascista assumesse un’eccezionale consistenza nella regione, avevano definito le minoranze come un problema, a causa della loro «differenza» e avevano suggerito l’assimilazione «forzata» come soluzione. Ma con il crollo del regime fascista, la storia dei campi di concentramento militari (italiani) per civili (sloveni) e lo sciovinismo che li aveva prodotti furono subito dimenticati. Infatti, le vicende del confine orientale non sono diventate, in Italia, parte della storia e della conoscenza generale. Molti studiosi hanno scelto di descrivere gli eventi del Friuli e della Venezia Giulia durante il periodo fra le due guerre, le foibe e le vicende dell’esodo, come periferici rispetto al corso principale della storia e della politica italiana e, addirittura, di far rientrare la lotta fra lo Stato e cittadini italiani di lingua slovena e croata, nella guerra fra l’Italia e le forze comuniste jugoslave. E solo con una assunzione collettiva di responsabilità (proprio perché il trattato di pace non fu una assoluzione per quel che fece l’Italia fascista), le vicende dei profughi istriani potevano diventare qualcosa che riguarda tutti gli italiani.
Del resto, l’esempio più eloquente del passo avanti compiuto è costituito proprio dagli esiti di una commissione bilaterale storico-culturale, costituita nel 1993 dai due ministeri degli Affari Esteri, quello italiano e quello sloveno, su sollecitazione di quanti ritenevano che il problema delle foibe non dovesse più continuare a essere una «pietra di inciampo» nei rapporti tra i due popoli. La commissione ha esteso il suo campo di interesse all’arco cronologico che va dal 1880 al 1956 (cioè all’intero periodo in cui si verificarono i più acuti conflitti tra italiani e sloveni) e nel suo rapporto finale, ha affrontato la questione delle foibe del 1945 alla luce delle acquisizioni storiografiche più recenti. Accettando la categoria della «violenza di Stato», si è affermato che arresti, deportazioni e uccisioni «si verificarono in un clima da resa dei conti per la violenza fascista e di guerra ed appaiono, in larga misura, il frutto di un progetto politico preordinato, in cui confluivano diverse spinte: l’impegno ad eliminare soggetti e strutture ricollegabili (anche al di là delle responsabilità personali) al fascismo, alla dominazione nazista, al collaborazionismo e allo Stato italiano, assieme ad un disegno di epurazione preventiva di oppositori reali, potenziali o presunti tali, in funzione dell’avvento del regime comunista e dell’annessione della Venezia Giulia al nuovo Stato jugoslavo».
Non solo le foibe. Ricordare l’esodo
Oltre all’interesse politico (negli anni la destra è stata attenta a mantenere, anche per la colpevole assenza della sinistra, quella memoria nell’alveo del rancore verso la «imbelle» patria democratica), anche i mezzi di informazione, si sono concentrati soprattutto sul dramma delle foibe, certamente più sanguinoso e sconvolgente. In realtà, tra i due fenomeni, quello di maggiore spessore storico è proprio l’esodo, non solo perché coinvolse un numero di persone incomparabilmente maggiore, ma perché fu proprio l’espulsione della componente italiana dai suoi territori di insediamento storico nella regione istro-quarnerina a segnare una frattura senza precedenti nella storia dell’area alto-adriatica, cancellandovi quasi completamente le tracce di una presenza e di una civiltà che risalivano ai tempi della romanizzazione.
Il forzato abbandono da parte degli italiani dell’Istria, di Fiume e di Zara costituisce infatti un aspetto particolare ed emblematico di un fenomeno più generale (uno dei processi, dicevamo, più caratteristici e devastanti della contemporaneità nell’area centroeuropea) che ha travolto in Europa milioni di individui, in quel processo di semplificazione etnica legato all’affermarsi e al ricostruirsi degli Stati nazionali in territori nazionalmente misti, plurali, e che ha distrutto in larga misura le realtà plurilinguistiche e multiculturali esistenti in buona parte dell’Europa centrale. La grande ondata di trasferimenti forzati di popolazioni interessò nei due dopoguerra buona parte dell’Europa centro-orientale e balcanica, dallo scambio di popolazione fra la Grecia e la Turchia nel 1923 all’espulsione dei tedeschi dai territori al di là della linea di confine dell’Oder-Neisse nel 1945. E il fatto che l’espulsione degli italiani sia avvenuta per opera di uno Stato federale fondato su un’ideologia internazionalista, com’era la Jugoslavia comunista, segnala soltanto come la forza delle posizioni nazionaliste sia riuscita, in molti casi, a imporsi agli stessi contenuti ideologici di segno opposto.
Lo schema fascismo-antifascismo è inadeguato
Il punto è che lo schema antifascismo-fascismo non è adeguato a comprendere le vicende del confine orientale. In questi anni si è infatti diffusa l’idea che esodo e foibe rappresentino un tema che appartiene alla destra, quasi che tutti i profughi siamo stati fascisti. Ancora oggi, ogni discorso che viene proposto da sinistra su questi argomenti finisce per venire interpretato come una proposta di pacificazione o, peggio, di equiparazione fra fascismo e antifascismo. Ma in questo modo, viene cancellata una componente centrale delle vicende del confine orientale, quella del conflitto nazionale che, per quasi un intero secolo, ha opposto italiani a sloveni e croati.
Inoltre, diventa impossibile riflettere su un punto fondamentale, vale a dire su quell’idea etnica di nazione, condivisa dagli uni e dagli altri, che ha reso possibile, prima, la persecuzione da parte del regime fascista degli «alieni» (sloveni e croati), poi, le leggi razziali del 1938 e, infine, la forzata espulsione degli italiani.
Ma qui sta la ragione profonda dell’istituzione del «Giorno del ricordo», che è avvenuta, proprio alla vigilia dell’allargamento della Ue e della ricongiunzione delle due Europe.
La ricongiunzione delle due Europe
Era venuto il momento di prendere atto fino in fondo che il rapporto tra nazione e Stato è cambiato; che il problema della nazione non è separabile da quello della cittadinanza e che questa dipende sempre di più dalla crescita e dall’integrazione fra le economie nazionali e i popoli. È questo il legame profondo tra antifascismo, welfare e interdipendenza, che oggi è il «cuore» del progetto europeo.
Perché il retaggio culturale comune che lega tra loro, nell’Europa allargata, popoli, abitudini di vita, lingue così diversi, non si riduce esclusivamente ai prodotti culturali comuni, a quel che si può leggere nelle opere di Dante, Mozart o Velàsquez e nelle pietre delle cattedrali; nelle radici di certe parole; nelle cultura del cibo e del vino. Quel che ci lega è un sistema di idee e di valori che rimanda alle risposte che negli anni Trenta alcune fra le principali democrazie occidentali avevano dato alla grande crisi, sperimentando – in alternativa all’aut aut fra comunismo e fascismo – le soluzioni del New Deal, negli Stati Uniti, e del “keynesismo” in alcuni paesi europei e dimostrando che i problemi posti dal sorgere della società di massa si potevano risolvere con la riorganizzazione della produzione e dei consumi, la crescita dell’economia nazionale, l’estensione della democrazia e lo sviluppo dello stato sociale.
Per gli occidentali quegli ideali e quelle politiche costituivano la base della grande alleanza antifascista e ne hanno ispirato il programma per il dopoguerra; e la costituzione di una sorta di partito internazionale dell’antifascismo mirava a generalizzare quelle esperienze e a ridisegnare gli assetti mondiali secondo il principio di interdipendenza. Da allora, in Europa, come ha ricordato Beppe Vacca in un bel libro di qualche anno fa, il problema della nazione è cambiato radicalmente.
Come cambia il problema della nazione
È mutato anzitutto il rapporto tra la nazione e lo Stato, la cui funzione fondamentale non è più quella militare, ma riguarda la promozione dello sviluppo e delle relazioni internazionali che allo sviluppo sono collegate. Oggi, infatti, sviluppo e democrazia, che sono le condizioni da cui dipende il sentirsi cittadini di un determinato paese, non sono separabili dalla crescita dell’integrazione fra le economie nazionali e fra i popoli.
E oggi il problema della nazione non è separabile da quello della cittadinanza, che dipende sempre più dall’avanzare della società civile internazionale. Questo sviluppo è derivato proprio dalla vittoria dell’antifascismo nella Seconda guerra mondiale. Questa idea di nazione è stata infatti il frutto consapevole delle risposte ai problemi posti dagli sviluppi dell’economia mondiale e dalla crescita della soggettività dei popoli, che esso ha elaborato in chiave di cittadinanza anziché di inquadramento militare delle masse. Per questo, dopo la Seconda guerra mondiale l’idea di nazione che si è affermata non è separabile, come negli anni scorsi ha riconosciuto anche Gianfranco Fini, dal legame tra antifascismo, welfare e interdipendenza.
L’Unione europea è un progetto politico
Uno degli errori più comuni, quando si descrive l’evoluzione dell’integrazione europea, è infatti quello di sostenere che nacque come un progetto squisitamente economico e che solo successivamente divenne politico. Invece l’Unione europea è stata sin dalle origini un progetto politico che ha fatto ricorso a strumenti economici.
Ciò che più contava per i fondatori, era non ripetere gli errori commessi in precedenza. La filosofia degli accordi di Versailles era semplice: se metti ai tuoi piedi il tuo nemico di ieri e con la forza gli impedisci di svilupparsi militarmente (disarmo forzato) ed economicamente (sanzioni punitive), questi non sarà più nella posizione di costruire una futura minaccia. Ma Versailles fallì e vi è un ampio consenso sul fatto in Germania il trattato di Versailles abbia aiutato il nazionalsocialismo a mobilitare l’opinione pubblica a favore dei suoi disegni criminali.
È rispetto a queste premesse che si deve comprendere il nuovo disegno di pace architettato alla fine della Seconda guerra mondiale, di cui prima la Comunità europea e poi la successiva Unione europea sono la parte centrale. La guerra sarebbe stata “non solo impensabile ma effettivamente impossibile” non perché Francia e Germania avrebbero sottoposto la produzione del carbone e dell’acciaio a un’altra autorità, istituzione che precorre l’attuale Commissione. La guerra sarebbe stata impensabile e impossibile a causa del livello di interdipendenza che si sarebbe creato tra gli Stati della nascente comunità. Ora che in molti vanno dicendo che l’allargamento della Ue ai paesi dell’Europa centro-orientale è stato un errore, non sarebbe male rammentare che lo stesso disegno ha guidato (dopo la caduta del Muro di Berlino, la dissoluzione della Jugoslavia e le guerre balcaniche) l’allargamento dell’Unione ai paesi ex comunisti.
Ora che l’integrazione della Slovenia in Europa (e poi della Croazia) è avvenuta con successo e procede speditamente, possiamo superare anche le narrazioni storiche contrapposte. Specie se, come mi auguro, riuscirà a farsi strada il riconoscimento della demarcazione necessariamente convenzionale di tutti gli stati (non ci sono confini “naturali” per gli stati e lo stato non è un’entità “naturale”) insieme con la convinzione che sono gli individui, le persone, e non gli stati o le nazioni, che devono costituire la preoccupazione ultima non solo delle organizzazioni internazionali, ma di ogni politica. Insomma, è tempo di fare nostre anche queste memorie. Per non rimuovere dalla coscienza i totalitarismi e le colpe, gli errori, i fraintendimenti che ci sono stati. E poi perché non ci sono solo gli orrori, c’è lungo il nostro confine orientale anche una fiorente, secolare civiltà, frutto della pacifica convivenza di popoli, fedi e culture diverse, che la violenza della Storia ha quasi cancellato e divelto e che ora che tutti gli stati che si affacciano sull’Adriatico sono entrati o entreranno a far parte dell’Unione europea superando antichi contrasti e reciproche avversioni, bisogna far ricordare, far conoscere e riproporre nel mutato contesto internazionale.
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