L'Afghanistan sancisce la crisi della Nato (e l'inefficacia di Usa e Ue) - Fondazione PER
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L’Afghanistan sancisce la crisi della Nato (e l’inefficacia di Usa e Ue)

di Michele Marchi

 

Le drammatiche immagini provenienti dall’Afghanistan impongono alcune riflessioni che si spera la congiuntura così concitata non faccia scivolare in secondo piano.

La prima di queste ci porta alle origini della nuova “questione afghana”, quella che si è aperta dopo il clamoroso e sconcertante attacco agli Stati Uniti dell’11 settembre 2001. L’occupazione militare occidentale dell’Afghanistan inizia con la guerra dichiarata al regime talebano il 7 ottobre 2001. I talebani avevano preso il potere circa cinque anni prima, a metà del cosiddetto decennio dell’unipolarismo statunitense. La campagna militare, come si ricorderà, si concluse rapidamente e vittoriosamente nel dicembre dello stesso anno. Le ragioni dell’attacco al regime talebano erano il sostegno ad Osama Bin Laden e ad Al Qaida. Da quel momento inizia un ventennio di occupazione militare e di tentativo di nation building che si concludono oggi con la bandiera talebana che svetta sul pennone del palazzo presidenziale di Kabul. Joe Biden sta portando a termine il disimpegno promesso (e negoziato in larga parte dal suo predecessore Donald Trump), così come Barack Obama aveva fatto dieci anni fa in Iraq. Tutto l’apparato militare e geostrategico immesso nell’area medio-orientale nel post 11 settembre, ma meglio sarebbe definirlo nello spazio geopolitico che si incunea tra Asia, Europa ed Africa e trova come sbocco il Mediterraneo orientale, vede un importante e significativo disimpegno statunitense. Ecco la prima riflessione. Al ritiro statunitense dall’Iraq ha fatto rapidamente da contraltare la crescita di quello Stato Islamico che ha poi comportato l’avvio di una nuova e dispendiosa guerra, culminata con la sconfitta di quest’ultimo nell’aria mediorientale. Come è però noto, lo stesso Stato Islamico appare in fase di rigenerazione nel continente africano, nell’area del Sahel e del Corno d’Africa. Accadrà qualcosa di simile anche in Afghanistan con all’orizzonte la creazione del nuovo califfato talebano?

La seconda riflessione riguarda le due sponde dell’Atlantico. I rapporti euro-atlantici sono davvero mutati con l’arrivo di Biden? In realtà le immagini dell’ingresso delle truppe talebane a Kabul e quelle contestuali della fuga del personale dalle ambasciate europee verso l’aeroporto sono lo spot peggiore per quello che, due mesi fa nel corso del suo tour europeo, l’inquilino della Casa Bianca aveva cercato di presentare come il rinnovato rapporto euro-atlantico, costruito su un’ipotetica nuova alleanza occidentale anti-cinese. E’ noto che vi sono state forti tensioni nel prevertice dei ministri della Difesa Nato ad inizio giugno tra americani, da una parte, ed europei dall’altra, capeggiati da Italia e Regno Unito. La posizione del ritiro dell’ultimo soldato statunitense entro la data simbolica dell’11 settembre 2021 rimane una sorta di “linea del Piave” per Washington. Biden ha utilizzato la carta in campagna elettorale ed è pronto ora ad andare all’incasso per ragioni essenzialmente di politica interna. Roma e Londra hanno protestato provando a giocare la doppia carta del rischio nuova crisi migratoria e del concretizzarsi quasi certo di una nuova minaccia terroristica, con base nell’Afghanistan a guida talebana. Il tutto si è arenato di fronte alla fermezza statunitense e all’incapacità logistico-militare europea di sostenere una presenza credibile nell’area. A questo elemento militare se ne deve aggiungere uno politico, cioè l’insostenibilità da parte di Italia e Regno Unito, ma anche di Francia e Germania (e l’elenco potrebbe continuare) per l’evidente contrarietà delle proprie opinioni pubbliche nel caso di una prosecuzione dell’impegno in Afghanistan. La domanda da porre a questo punto è duplice. Come può la leadership statunitense pensare di costruire una nuova alleanza contro Pechino ritirandosi dai quadranti strategici più decisivi per gli alleati europei? Peraltro, come da molti sottolineato, l’avvicinamento tra talebani e Cina è già nelle cose e di conseguenza l’importanza strategica dell’area è destinata ad aumentare per Washington. Vi è però una seconda domanda inquietante questa volta per la componente europea di questa sgangherata e solo ipotetica nuova alleanza euro-americana. L’Europa comunitaria come può pensare di potersi dotare di una forma anche embrionale di autonomia strategica senza percorrere la duplice, ma imprescindibile e stretta via di maggiori investimenti nell’ambito della difesa e del lavoro costante di sensibilizzazione e comunicazione politica delle proprie opinioni pubbliche sull’importanza delle missioni militari nelle principali aree di crisi? In questo senso Libia e Afghanistan fanno parte dello stesso “grande gioco”.

Ma parlare di Ue e di Europa in generale apre ad una terza importante riflessione, relativa alla potenziale crisi umanitaria legata al ritorno dei talebani a Kabul. Se all’insegna del realismo più spinto decidessimo anche di voltare le spalle alla dimensione più propriamente umanitaria, bisognerebbe accettare un assunto: l’Ue, impegnata nel difficile tentativo di uscita dalla pandemia, di rilancio economico e di nuovo slancio politico non può permettersi una nuova crisi migratoria di proporzioni simili a quella legata alla guerra in Siria. L’impatto sui dibattiti politici interni ai Paesi membri, con il prosperare dei cosiddetti partiti populisti unito al prezzo altissimo (economico e politico) pagato ad Ankara, promossa a guardiano della rotta balcanica, sarebbero nuovamente devastanti. Da maggio scorso oltre 400 mila afghani sono fuggiti e la pressione su Pakistan e Iran è già oltre il limite. Nelle prossime settimane si attende l’arrivo massiccio di tutta quella parte di popolazione afghana che ha lavorato a stretto contatto con gli occidentali in ambasciate e organizzazioni non governative attive sul territorio. Esiste un piano per affrontare tutto ciò?

Osservata dall’Europa, in particolare dall’Ue e dalla Nato, la crisi afghana ci mostra tutta l’inefficacia euro-occidentale nell’affrontare le sfide del XXI secolo. E mette in evidenza in particolare gli effetti nefasti dell’incapacità di tenere legate dimensione di politica interna e dimensione di politica internazionale. Senza un’inversione di rotta saranno improbabili sia un nuovo attivismo europeo, sia un nuovo attivismo atlantico.

La bandiera ammainata, che ha lasciato lo spazio a quella del regime talebano, non è solo quella dello stato afghano ma anche quella dell’alleanza euro-atlantica. A Kabul si stanno sciogliendo come neve al sole le tenui speranze del ricrearsi di un nuovo e performante Occidente. Mentre tra Kabul, Roma, Bruxelles, Londra, Parigi, Berlino e Washington si piange, a Pechino di certo qualcuno se la ride.

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Michele Marchi
marchi@per.it

Professore di Storia Contemporanea presso il Dipartimento di Beni Culturali dell'Università di Bologna. Si occupa di storia politica dell’Europa del XX secolo con particolare attenzione per quella francese e per il rapporto tra politica e religione in Francia ed in Italia. Per Rubbettino ha pubblicato "Alla ricerca del cattolicesimo politico. Politica e religione in Francia da Pétain a de Gaulle" (2012). Membro del comitato di redazione della "Rivista di Politica", della redazione della rivista "Ricerche di Storia Politica" e della rivista "Nuova Informazione Bibliografica".

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