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“Lavorare meno per lavorare tutti”? Velleità, trappole e condizioni di praticabilità di uno slogan

di Giuseppe Croce

 

La questione degli orari di lavoro torna a riproporsi ciclicamente e a mutare in funzione delle esigenze sociali ed economiche e delle condizioni tecnologiche di ogni fase storica. L’ultimo brusco passaggio è stato quello imposto dal Covid-19 che ha costretto larga parte delle persone a rifugiarsi nel lavoro a distanza. Se l’esperienza della pandemia non è nuova storicamente, lo è invece la possibilità di svolgere tante mansioni lavorative da casa e, potenzialmente, da qualsiasi luogo.

 

Il mondo del lavoro dopo il Covid

Il Covid-19 ci ha portato definitivamente fuori dalla stagione fordista-taylorista. Con il lavoro a distanza, infatti, si è dissolta la rigida cornice spaziale e temporale dentro cui il lavoro è rimasto collocato per almeno tutto il Novecento poiché con esso viene meno non solo il legame tra la prestazione lavorativa e il luogo-azienda ma anche quello tra prestazione e orario predefinito.

Si riapre, quindi, la questione del tempo/dei tempi del lavoro e diventa possibile intravedere nuove opportunità in grado di aumentare il benessere a livello personale e familiare, e di migliorare l’efficienza aziendale e collettiva (si pensi alla possibilità di organizzare in modo più efficiente i tempi delle città). Certamente le nuove opportunità portano con sé anche costi di adattamento e la necessità di rivisitare diversi aspetti organizzativi e contrattuali. Non sarà lineare né in discesa la strada che conduce a tramutare le opportunità in un effettivo miglioramento del benessere (ma del resto, quando mai lo è stata?).

E infatti, la situazione di questi mesi è segnata, più che dall’ottimismo per le opportunità che si aprono, dal pessimismo derivante dalla distruzione di posti di lavoro a cui assistiamo e dall’incertezza sull’effettiva capacità di tornare in tempi rapidi ai livelli di occupazione precedenti. Ma già prima del Covid-19 i processi di cambiamento tecnologico in atto tenevano in allarme le società dei paesi economicamente avanzati per la stessa preoccupazione di dover assistere a una prossima distruzione dei posti di lavoro. 

 

Oltre gli slogan

In queste condizioni è facile che il tema degli orari di lavoro riemerga nei termini dello slogan “lavorare meno per lavorare tutti”. Nel dibattito pubblico di questi ultimi mesi tornano ad affacciarsi suggestioni e proposte che sembrano ritenere non solo auspicabile ma anche realistico, quasi scontato, che si possa ottenere un aumento del numero di persone occupate redistribuendo il volume di ore complessivamente lavorate nell’economia. Ora, tuttavia, l’attuale contesto del mercato del lavoro italiano e l’analisi teorica fanno ritenere che questa strada non sia in realtà facilmente percorribile e che, anzi, è fuorviante e disseminata di trappole. Nelle note che seguono si indicano i limiti e le condizioni entro cui può avere senso puntare oggi a una riduzione dell’orario di lavoro.

Prima, però, è necessario distinguere tra le riduzioni di orario di tipo congiunturale e strutturale.

Le prime sono interventi finalizzati a contrastare gli effetti di un calo momentaneo della domanda con i quali si riduce l’orario di lavoro per preservare l’occupazione. È esattamente la politica di job retention ampiamente praticata nella gran parte dei paesi in questi mesi di Covid-19. La cassa integrazione italiana ne è un esempio. E infatti, a riprova di tale reattività degli orari alla situazione congiunturale, nel corso di quest’anno per effetto della pandemia le ore medie lavorate per dipendente in Italia sono bruscamente scese dalle 33,9 di febbraio alle 22,9 di aprile per poi tornare a 31,4 a luglio.

Un intervento strutturale sugli orari, invece, dovrebbe consistere in una riduzione permanente con la quale si pretende fronteggiare una depressione prolungata o gli effetti di un diffuso cambiamento tecnologico. È questa l’ipotesi sulla quale qui vale la pena riflettere.

 

La redistribuzione degli orari di lavoro

La riduzione degli orari, in realtà, è un processo storico di lunghissimo periodo che si è ampiamente realizzato lungo l’ultimo secolo sotto la spinta di fattori economici – la crescita della produttività – e istituzionali. Se guardiamo agli ultimi cinquanta anni le ore per occupato sono diminuite pressoché ovunque: in Italia del 13%, nel Regno Unito del 12%, in Francia del 22%, in Germania del 26%. Negli anni successivi alla Grande Recessione la riduzione ha avuto un’accelerazione in Italia dove nel decennio 2008-18 l’orario medio si è ridotto del 4,6% contro una media dei principali paesi Ocse del 2,8%. 

I dati che inducono alcuni a guardare con fiducia all’idea di redistribuire le ore di lavoro esistenti per aumentare l’occupazione sono, da un lato, l’”eccesso” di ore per occupato lavorate in Italia e, d’altro lato, i bassi livelli del tasso di occupazione. I dati Ocse dicono che negli ultimi anni in Italia si è lavorato circa 95 ore l’anno in più rispetto alla media dei principali paesi e, d’altro lato, che siamo circa dieci punti percentuali al di sotto della media per quanto riguarda la percentuale di popolazione in età lavorativa impiegata. Sembra quindi ragionevole l’idea dello scambio tra ore (lavorare meno) e persone (lavorare tutti).

Tuttavia questi dati ci restituiscono un quadro fuorviante. Una strategia di aumento dell’occupazione basata sulla redistribuzione delle ore esistenti sarebbe virtuosa solo in una situazione in cui il grado di utilizzo complessivo del lavoro (labour utilisation) nell’economia possa essere considerato soddisfacente. Se invece la risorsa lavoro è largamente sottoccupata allora la redistribuzione è una strategia rinunciataria e difficilmente giustificabile.

La domanda, allora, è: quanto è grande la torta complessiva di ore lavorate da redistribuire? Per rispondere dobbiamo guardare alle ore lavorate procapite calcolate in riferimento alla popolazione, un indicatore più ampio e significativo della semplice media delle ore medie per occupato. Le ore procapite riferite alla popolazione tengono conto, oltre che del numero di ore lavorate da chi è occupato, anche della percentuale di occupati sulla popolazione in età attiva e della quota di quest’ultima sulla popolazione complessiva, che dipende dalla demografia.

 

Il totale di ore lavorate in Italia si conferma largamente carente

Come prevedibile, il grado di utilizzo del lavoro così calcolato in Italia negli ultimi anni (2014-18) è dieci punti percentuali al di sotto della media dei 22 principali paesi dell’area Ocse. E nel periodo 2008-18 è caduto del 6,5%, mentre la flessione è stata in Germania del 2,8%, in Francia del 3,9% e nel Regno Unito del 3%. A completare il quadro, si aggiunga il dato del lavoro part time. Al 2018 in Italia erano 4,3 milioni i lavoratori occupati part time, pari a una percentuale del 18,6% del totale, ancora leggermente al di sotto della media europea, pari al 21,1%. Ma ciò che caratterizza la situazione italiana è la clamorosa prevalenza del part time involontario, che arriva al 64% contro una media del 23% in Europa, come dire che una riduzione massiccia di orari è già stata realizzata ma contro i desideri e i bisogni di gran parte delle persone coinvolte.

L’ammontare totale di ore lavorate in Italia si conferma, quindi, largamente carente, tale da rendere poco giustificabile una politica occupazionale di natura redistributiva anziché espansiva. Ciò è tanto più vero in una situazione come quella attuale di invecchiamento della popolazione e di tendenziale contrazione delle forze di lavoro.

A rendere ancora meno accettabile l’approccio redistributivo vi sono le conclusioni dell’analisi economica. Le proposte di riduzione dell’orario assumono che la redistribuzione possa avvenire prendendo come fisso il volume complessivo di ore. Al contrario, l’analisi economica suggerisce che la riduzione dell’orario standard può portare a una riduzione del numero totale di occupati. 

 

Chi paga la riduzione dell’orario?

Infatti, se si riduce l’orario standard la presenza di costi fissi per ogni occupato rende conveniente per le imprese aumentare le ore di straordinario, sebbene pagate di più, piuttosto che aumentare il numero dei lavoratori a tempo ridotto. Insomma, non si può pensare che un lavoratore full time o due part time siano senz’altro equivalenti per le imprese. Inoltre, se la riduzione di orario aumenta il costo del lavoro si rischia una sostituzione di capitale al lavoro.

L’effetto sarebbe quindi paradossale: una politica di riduzione degli orari attuata per contrastare gli effetti del cambiamento tecnologico porterebbe a spingere la sostituzione di robots e macchine intelligenti al posto delle persone. Evidentemente si tratta di previsioni teoriche che possono avere un peso diverso nella realtà a seconda delle situazioni ma che sarebbe pericoloso ignorare. Né va trascurato il fatto che anche la presenza di mismatch tra gli (eventuali) posti di lavoro creati e i disoccupati potrebbe rendere ancora più complicato creare nuova occupazione.

La domanda successiva è “chi paga la riduzione dell’orario?”. La prima possibilità è che i lavoratori siano disposti a sopportare una riduzione proporzionale del salario mensile se è vero che un orario più breve aumenta il loro benessere. Questo è ciò che proponeva Tarantelli quando nel 1984 lanciava il suo “lavorare meno, lavorare tutti” dalle colonne di Repubblica. Ma all’epoca eravamo in una fase molto diversa, per molti versi opposta a quella attuale. Lo stesso Tarantelli prevedeva un aumento della produttività del 3% annuo fino alla fine di quel decennio. Inoltre le forze di lavoro erano in rapida crescita per l’ingresso nel mercato del lavoro dei nati negli anni Sessanta e delle donne. Il target tipico a cui Tarantelli esplicitamente si riferiva erano i nuclei familiari di tre persone con due percettori di reddito, per i quali poteva risultare preferibile rinunciare a un po’ di ore di lavoro e di reddito per avere più flessibilità.

 

L’economia italiana è segnata dalla stagnazione

La riduzione contestuale di orario e salario può essere realistica in un contesto di crescita prolungata della produttività oraria e dei salari orari, nel quale i lavoratori hanno margini per modificare a loro gradimento il mix di tempo libero e reddito da lavoro.

Viceversa, l’economia italiana si trova oggi segnata da una lunghissima stagnazione della produttività e dei salari e in una fase di riduzione involontaria degli orari. Tutto ciò spinge buona parte delle persone a preferire di lavorare più ore e rende poco realistiche le ipotesi di un taglio dei salari in cambio di maggior tempo libero. Se in queste condizioni si procedesse alla riduzione dell’orario ci dovremmo attendere l’effetto perverso di incrementare i secondi lavori, molto probabilmente in nero.

In alternativa alcuni potrebbero sostenere la proposta della riduzione dell’orario “a parità di salario” che necessariamente sarebbe a carico delle imprese o del bilancio pubblico o, infine, dovrebbe autofinanziarsi mediante una crescita endogena della produttività. Ma se sono le imprese a dover pagare vanno messi in conto possibili effetti negativi proprio sull’occupazione. Se invece è il bilancio pubblico a intervenire si deve quantificare il costo e indicare quali altre poste di spesa andrebbero tagliate o con quali prelievi aggiuntivi finanziarlo. Infine, è possibile che la riduzione degli orari favorisca un aumento della produttività e la riduzione dell’assenteismo. Si tratta di effetti certamente possibili in alcuni casi ma è dubbio che possano essere generalizzati, piuttosto si presenterebbero solo in alcuni settori, imprese e categorie.

 

Orari di lavoro, efficienza e benessere

Per concludere, allora, che fare? Quali politiche di riduzione degli orari di lavoro sono possibili nelle condizioni attuali? Malgrado i tanti limiti evidenziati, i tempi di lavoro restano un ambito nel quale vi sono importanti spazi di aumento di efficienza e benessere. Per fare degli esempi rilevanti si può ricordare la necessità di favorire la formazione ricorrente delle persone alla quale si potrebbero dedicare, come già si sta iniziando a fare con alcuni recenti contratti collettivi nazionali, quote di tempo di lavoro anche nella forma di periodi sabbatici; facilitare il ricorso al part time, anche solo per alcuni periodi, su richiesta del lavoratore o della lavoratrice; l’estensione dei congedi familiari; la riduzione degli orari per i lavoratori più anziani, come strategia di invecchiamento attivo.

In conclusione, in primo luogo appare irrealistico impostare le politiche dei tempi di lavoro come riduzione generalizzata mentre andrebbero concepite come rimodulazione dei tempi e riduzione selettiva degli orari. Sarebbe illusorio vagheggiare un intervento con finalità occupazionali su piano macroeconomico, che presupporrebbe un contesto omogeneo dal lato della domanda e dell’offerta di lavoro e una effettiva controllabilità delle ore lavorate da parte del legislatore. Rimane invece percorribile un approccio differenziato per imprese, settori e categorie professionali a partire dalle esigenze eterogenee dei lavoratori e che tenga conto delle condizioni tecnologiche ed economiche delle imprese.

Questo implica che iniziative in questa direzione non possono essere lasciate a interventi di legge. Piuttosto, l’ambito privilegiato nel quale sperimentare la riduzione/rimodulazione degli orari è quello della contrattazione collettiva con un ruolo importante per quella decentrata. È in quell’ambito che le molteplici spinte a ridefinire i tempi del lavoro possono emergere e prendere una forma che ne massimizzi i benefici attesi evitando le velleità e le trappole che spesso accompagnano lo slogan “lavorare meno per lavorate tutti”.

Giuseppe Croce
croce@per.it

Professore associato presso il dipartimento di Economia e Diritto dell’Università la Sapienza dove insegna politica economica e politiche del lavoro. Negli ultimi anni si è occupato di overeducation, formazione nelle imprese, effetti di agglomerazione del capitale umano e relazioni industriali

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