Le Camere nell’emergenza della pandemia - Fondazione PER
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Le Camere nell’emergenza della pandemia

di Carlo Fusaro

 

La realtà sforna a getto continuo affascinanti temi per belle e originali tesi di diritto costituzionale meglio se comparato. L’argomento del giorno – se uno guarda i titoli dei giornali – è il voto a distanza nei parlamenti in piena pandemia.

 

Garantire la funzionalità delle istituzioni rappresentative in un periodo eccezionale

In realtà la questione, come alcuni di noi han cercato di far capire sin dall’inizio, è quella solo fino a un certo punto: la sfida vera è come garantire una buona funzionalità alle istituzioni rappresentative in questo periodo assolutamente eccezionale, come assicurare che facciano il mestiere loro (non solo votare!). E in questa fase il mestiere loro non è tanto strappare qualche milioncino in più di sostegni a una lobby o all’altra, quanto davvero tenere sotto controllo le iniziative emergenziali dell’esecutivo. Una funzione purtroppo alla quale le assemblee rappresentative, specie nostrane, non sono molto abituate, avendo storicamente sempre privilegiato, quasi fosse l’unica, la funzione legislativa.

Ciò detto è interessante osservare le diverse iniziative e prese di posizione, in ambito italiano e in ambito internazionale. Esse sono l’inevitabile riflesso di culture politiche, giuridiche, interessi diversi: e purtroppo il clima della pandemia rampante con tante persone che soffrono e molte di più che hanno comunque una fifa matta, con inevitabili fenomeni di isteria collettiva largamente alimentata dai social (e anche da qualche politico poco responsabile) non è il più adatto per affrontare freddamente problemi del genere.

 

La funzione di controllo di tutte le amministrazioni pubbliche è necessaria

Il nostro paese si è trovato per primo nell’occhio del ciclone, e fra i primi si sono infettati alcuni parlamentari italiani; molti altri sono finiti costretti a domicilio per la frequentazione dei colleghi o di altre persone risultate infette; altri ancora si sono ritrovati in zone per le quali sono stati decretati limiti particolarmente drastici alla mobilità.

Per prime dunque le Camere italiane hanno dovuto affrontare il problema di cosa fare per continuare a lavorare: dico subito che anche qui si vede la cultura politico-istituzionale nostrana, perché a leggere le cronache l’unica urgenza che si avverte sembra essere quella di convertire in legge nei tempi i decreti adottati dal governo (per una volta nel rispetto rigoroso dell’art. 77 Cost.).

In realtà almeno altrettanto urgente sarebbe oggi esercitare una funzione di controllo su tutte le pubbliche amministrazioni (dal Governo e da quelle centrali prima di tutto a quelle subnazionali e locali) non solo attraverso lo strumento dell’esame della legge di conversione dei decreti legge, ma direttamente attraverso una commissione di inchiesta o strumento ispettivo diverso (indagine conoscitiva o altro) ad hoc. E’ esattamente quello che ha deciso il 20 marzo la conferenza dei capigruppo dell’Assemblea nazionale francese (e non ho bisogno di ricordare che la Francia ha una forma di governo parlamentare a preminenza presidenziale nella quale, pur sopravvivendo il rapporto fiduciario, il vertice indiscusso dell’esecutivo è il presidente). Su questo fra un attimo.

Se dunque il nostro è stato il primo grande paese europeo ad affrontare la pandemia si capisce che sia stato anche quello dove per primo si è cominciato a ragionare sul da farsi: a partire dai primi giorni del c.d. lockdown nazionale. E’ allora che si è concordato il provvisorio gentlemen agreement per deliberare lo sfondamento dei limiti di bilancio ex art. 81 Cost. assicurando, grazie alla sostanziale unanimità concordata, che potesse essere presente in aula la stretta maggioranza assoluta (metà più uno dei componenti) richiesta dalla Costituzione. Ma per l’appunto allora ci si è cominciati a domandare, per primo Stefano Ceccanti, costituzionalista, come si sarebbe potuto fare da allora in avanti nell’aggravarsi della situazione: in pratica è passata una settimana da che egli ha lanciato le sue prime proposte di riunioni in teleconferenza delle camere con voto a distanza, e il dibattito si è infiammato.

 

Spagna, Francia, Parlamento europeo: come si organizzano

Nel frattempo peraltro, altrove, ci si è mossi e con ben maggiore rapidità, in parte perché in precedenza più previdenti (e dunque con fonti ordinamentali che lo consentivano), in parte perché partecipi di una cultura più pragmatica.

In Spagna il Senato ha già votato a distanza e il Congresso dei deputati va sulla stessa strada; in Francia l’Assemblea nazionale ha deciso un mix di teleconferenze e partecipazione a dibattiti con votazioni dei soli capogruppo o loro rappresentanti, oltre che come dicevo con l’istituzione immediata «d’une mission d’information de l’Assemblée nationale sur l’impact, la gestion, et les conséquences dans toutes ses dimensions de l’épidémie de Coronavirus-COVID19 en France. Cette mission transversale et à durée indéterminée, au sein de laquelle l’ensemble des groupes politiques et des commissions permanentes seront représentés, permettra à la représentation nationale d’assurer un suivi rapproché et dans le temps de l’épidémie et ses conséquences»; anche il Parlamento europeo ha preso le sue misure e, pur studiando un’applicazione sofisticata che dovrebbe permettere la vera partecipazione da remoto alle riunioni, ha per il momento deciso di far ricorso a un più modesto ma efficace voto per mail (ogni componente riceve la mail con un allegato che stampa sul quale vota, apponendo la propria firma e reinviandolo in allegato: come si fa ormai dappertutto e in ogni occasione per documenti anche legalmente impegnativi, a partire dai contratti).

Per il resto si discute se addivenire a soluzioni di compromesso, quali per esempio riunioni delle delegazioni nazionali da riunirsi presso la sedi che il PE mantiene in ogni capitale dei 27 paesi. Ciò naturalmente, nella prospettiva del PE, assicurerebbe di evitare spostamenti fra uno stato e l’altro (complicati e nell’emergenza quasi impossibili) e eviterebbe di dover allestire un numero pletorico di postazioni di “lavoro parlamentare da remoto” (naturalmente nei paesi più grandi non si eviterebbero altri problemi logistici ma certo di portata minore).

 

Il Parlamento ha il dovere di vigilare sulle misure adottate in questi giorni

In Italia ancora non si è trovata una linea che permetta di affrontare il problema della funzionalità delle Camere: il che è davvero grave considerato quanto giustamente fanno osservare accademici preoccupati della piega che l’intera vicenda “lotta al virus” è andata assumendo, a partire da Giovanni Guzzetta, per esempio; ma con lui molti altri da Cassese a Gustavo Zagrebelsky.

Nessuno o quasi contesta la legittimità dei provvedimenti intrapresi: del resto l’art. 16 Cost. tanto più se letto insieme all’art. 32 sulla tutela della salute come diritto fondamentale dell’uomo, è ben chiaro ed esso sì lungimirante (prevede che la libertà di circolazione possa subire «le limitazioni che la legge stabilisce… per motivi di sanità e di sicurezza», che è appunto il caso in cui ci troviamo).

Ma se nessuno contesta il merito dei provvedimenti nella sostanza, ragionamenti intorno alla proporzionalità o agli strumenti prescelti o a certi irrigidimenti presi inseguendo ondate emotive o intorno all’efficienza di tutti gli apparati che pur meritoriamente si danno da fare o intorno alla necessaria temporaneità e alla durata delle varie misure, meritano pure di essere fatti, ed anzi il Parlamento ha il dovere di farli a tutela di tutti gli altri diritti dei cittadini il cui esercizio può essere anche provvisoriamente condizionato o ridotto, ma che devono potersi riespandere appena umanamente possibile. Tutto ciò detto allora che si fa?

 

Come possono funzionare le Camere di un paese messo in difficoltà dall’epidemia?

Lascio da parte la questione complessa sulla quale pure lo stesso Ceccanti con altri parlamentari del PD ha preannunciato il suo impegno in queste ore: e cioè la disciplina costituzionale dell’emergenza che nel nostro ordinamento è limitata allo stato di guerra, alla decretazione d’urgenza (infatti ampiamente e sacrosantemente usata in questa circostanza: anzi, forse meno del dovuto essendosi preferiti strumenti normativi sublegislativi come decreti del presidente del consiglio dei ministri e perfino decreti ministeriali, per es. del ministro della salute), ai poteri sostitutivi di enti subnazionali.

Ceccanti ha scritto cose come sempre acute sul punto (per es. su biodiritto.org): ma nessuno può immaginare che il Parlamento possa prendere in considerazione tanto meno varare, in queste condizioni e in fretta e furia, interventi legislativi di rango costituzionale di tale importanza e delicatezza. Se mai l’impegno dev’essere quello di riprendere la materia con la serietà che merita e con lo studio approfondito dell’esperienza comparata che impone, una volta passata la fase critica: non è un paradosso, ma di poteri d’emergenza nell’emergenza non si può e non si deve parlare.

Il tema invece è, appunto: come possono funzionare le Camere di un paese messo in difficoltà dall’epidemia, con drastiche restrizioni alla mobilità, con assoluto divieto di assembramenti e con un certo numero di parlamentari già malati o comunque infetti e in grado pertanto, partecipando a riunioni con molte altre persone, di trasmettere l’infezione, fino al punto – in ipotesi purtroppo per nulla improbabile – da decimare interi gruppi parlamentari, producendo una rappresentanza non più corrispondente, magari in misura determinante e significativa, agli stessi equilibri sanciti dalle elezioni del 2018?

Sin da quando la questione si è posta (una decina di giorni fa, anche se sembra tanto di più) a me è parso che il ricorso massiccio alle tecnologie ormai in uso da tempo in vari ambiti, non solo privati, fosse la soluzione migliore. Vedo con piacere che, per una volta, una parte molto consistente ed autorevole della dottrina, pur con tutte le prudenze inevitabili e giustificate, sembra prendere questa ipotesi, vigorosamente sostenuta da numerosi parlamentari a partire dallo stesso Ceccanti, da Enrico Borghi e da altri, in seria considerazione.

Un censimento è difficile ma ormai le prese di posizioni sono molte: a fronte dei dubbi di alcuni (Pisicchio, Sbailò: senza veti apodittici peraltro), si trovano le argomentate prese di posizione e le proposte di Clementi e Curreri, il favore più o meno vigoroso di Ainis, Azzariti, Calamo Specchia, Caravita, Cundari, Lanchester, Onida, P. Pasquino, Stegher ed altri ancora.

Dubbi e perplessità emergono soprattutto in ambito politico: la ragione inesplicitata ma evidente c’è. Ed è che senza esame dei provvedimenti e voto a distanza, quasi tutte le altre soluzioni (e certo quelle fin qui ipotizzate: assenze concordate, c.d. pairing per cui se mancano parlamentari del partito A non partecipano altrettanti dei partiti B e C) comportano – di fatto – sull’affidare esame e approvazione dei provvedimenti governativi alla maggiore o minore buona volontà dell’opposizione. In parole più brutali: governo e maggioranza finiscono sotto scacco esposte al ricatto quotidiano dell’opposizione.

Ora può anche darsi che nella situazione venutasi a creare sia opportuno e necessario un governo di unità nazionale (salvo che proprio l’emergenza sconsiglia nei tempi brevi di mettersi a pasticciare con la formazione di nuovi esecutivi), ma è certo del tutto sconsigliabile dar vita a una situazione nella quale l’opposizione possa influenzare in misura determinante tutte le scelte di governo senza assumersene alcuna responsabilità.

 

La Costituzione non impedisce le riunioni telematiche delle Camere

Per concludere. Come ho già avuto modo di dire, in Costituzione non vi è una parola che possa impedire riunioni telematiche delle Camere. Certamente il costituente aveva in mente la compresenza fisica dei parlamentari nel riferirsi appunto a “riunioni” e nel parlare di “presenti” (per es. ai fini della validità delle deliberazioni, art. 64.3 Cost.): questo sarebbe stupido negarlo. Ma è altrettanto vero che non da oggi è considerata scontata la non pietrificazione e l’interpretazione evolutiva dei termini impiegati da un testo che ha ormai più di settanta anni: lascerei l’originalismo ad alcuni interpreti della Costituzione americana!

Si può dire lo stesso dei regolamenti delle due Camere? Questo è un punto sul quale si dovrebbe a mio avviso ragionare nel contesto attuale. Rileva in proposito l’art. 46 Regolamento Camera (RC) per esempio, nel quale ricorrono più volte i termini “presenza”, “presente”, “presenti”. Vale lo stesso per gli art. 47 RC (la verifica del numero legale), 48 RC (le deliberazioni e i “presenti”). Ma appunto e di nuovo, anche i regolamenti di Camera e Senato risalgono a 50 anni fa quando delle tecnologie attuali non c’era neppure l’ombra. Del resto se si legge l’art. 46.2 RC si vede che vengono dati “presenti” anche se non ci sono i deputati e i membri del governo c.d. “in missione” (in pragmatica deroga a ogni troppo rigoristica interpretazione…).

E poi c’è anche un recente art. 48-bis RC il quale recita l’ovvio, ma che si è voluto introdurre nel 1997: «è dovere dei deputati partecipare ai lavori della Camera», attribuendo al comma 2 all’ufficio di presidenza il compito di «determinare, con propria deliberazione, le forme e i criteri per la verifica della presenza dei deputati alle sedute dell’Assemblea, delle Giunte e delle Commissioni…». La previsione fu fatta ai fini delle “ritenute” in caso di assenza: si era all’inizio della fase di iperpopulismo antiparlamentarista, quello per cui – oggi – si chiede ai componenti del Parlamento di raggiungere in massa le aule delle due Camere “come fanno i medici e gli infermieri” (per vedere se ammalandosi tutti non si finisce davvero per chiudere le Camere!).

Ma ratio originaria a parte, perché non si potrebbe utilizzare con intelligenza e un po’ di audace pragmatismo questa previsione per costruirci appunto una delibera dell’ufficio di presidenza che consideri presenti i parlamentari impediti (per qualsiasi ragione legata all’emergenza personale e nazionale) ma collegati con opportuna tecnologia, nell’ottemperanza di quel loro dovere?

Penso insomma che in queste circostanze si tratti di schierare tutto l’armamentario utile a far funzionare correttamente e davvero nel rispetto della volontà degli elettori i due rami del Parlamento attraverso una pluralità di misure:

-riduzione dell’attività all’essenziale ma massimo impegno nel controllo della battaglia al coronavirus;

-ricorso a commissioni speciali legislative per i disegni di legge di conversione, anche in deroga (come il diritto parlamentare permette, nell’unanimità, nemine contradicente);

-rare riunioni in compresenza fisica di ristretti organi che possano farlo né più nemmeno come in tanti altri ambiti della p.a.;

-partecipazione telematica a distanza incluse eventuali votazioni (con garanzie di personalità e segretezza), quest’ultima eventualmente da realizzarsi, per esempio, nelle prefetture.

Tutto ciò in attesa naturalmente che ci siano modi e forme per prevedere qualcosa di più complesso, oggi di realizzazione oggettivamente difficile, da regolarsi puntualmente per via regolamentare.

Forse non è ancora giunto il momento del parlamento smart: ma due camere che pragmaticamente pongano la propria funzionalità nell’emergenza davanti al formalismo più ottuso ce le dovremmo essere meritate.

 

P.S. Una piccola soddisfazione il lettore me la deve concedere: tutta questa situazione non sarebbe stato tanto tanto più semplice da gestire con un parlamento riformato stile 2016 (che fra l’altro avrebbe previsto un Senato con i presidenti delle regioni, e anche una nitida clausola di supremazia statale)?

 

 

Carlo Fusaro
fusaro@lib.it

Già professore ordinario di Diritto elettorale e parlamentare nell’Università di Firenze e già direttore del Dipartimento di diritto pubblico. Ha insegnato nell’Università di Pisa ed è stato “visiting professor” presso le università di Brema, Hiroshima e University College London. Presidente di Intercultura ONLUS dal 2004 al 2007, trustee di AFS IP dal 2007 al 2013; presidente della corte costituzionale di San Marino dal 2014 al 2016; deputato al Parlamento italiano per il Partito repubblicano (1983-1984).

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